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Autore: LimoneMenta    29/10/2014    3 recensioni
La vita di Rebecca sta per essere sconvolta per sempre. Un ragazzo chiuso e dai profondi occhi blu, uno con degli inquietanti occhi da gatto... ma che ci fanno nella cantina di quella tiranna di sua nonna? E se un incontro imprevisto si trasformasse in una possibile via di fuga che odia così tanto? E se nascesse una prima, meravigliosa amicizia fra i tre? E se finalmente trovasse.... dei genitori?
Genere: Avventura, Slice of life, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Alec Lightwood, Magnus Bane, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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2. Cacciatori e Stregoni

Oh cazzo. Oh grandissimo cazzo. Facciamo un breve riepilogo: sono scesa in cantina e ho trovato un perfetto sconosciuto accovacciato sul pavimento. E che sconosciuto: alto, muscoloso come il David di Michelangelo, capelli corvini leggermente lunghi, labbra sensuali e due occhi blu come l’oceano. O il cielo di notte, quello che preferite. Resta il fatto che sia sexy, dannatamente sexy. Unica pecca: è ricoperto dalla testa ai piedi di armi e questo mi mette un pochino di ansia, se devo essere sincera. Oltre al fatto che parla di magia come se fosse la cosa più naturale di questo mondo. Ma con tutti i malati mentali che ci sono in giro, proprio un invasato di magia doveva intrufolarsi senza permesso in casa di mia nonna? Oh Dio, mia nonna! Perché quella vecchiaccia non mi hai ancora urlato dietro per chiedermi dove sono finita? Dove diavolo sparisce quelle rare volte in cui serve? Avrebbe giusto una cosuccia piccola piccola da spiegarmi, ad esempio che accidenti è quella rientranza nella parete che certamente fino ad un’ora fa non c’era. Almeno credo.                                                                                                                     
Alec, il ninja intruso, mi fissa come se ciò che ha appena detto fosse una cosa ovvia.                                  
«Ma  sei scemo? O ti sei fumato qualcosa di illegale in qualche pub di scellerati prima di piombare qui?» Ecco, brava cretina. Un applauso a quell’unico neurone che abita nel mio cranio e che ha appena firmato la mia condanna a morte. Lui invece ghigna come se la mia battuta l’avesse illuminato su un qualcosa di particolarmente piacevole (e sollevante?) per lui.                                               
«Una mondana, eh?»                                                                                                                                      
«Scusa? Una che cosa?» Che fa questo, mi insulta? Lui mi ignora bellamente (sai che novità) e mi afferra per il braccio destro, trascinandomi davanti alla cavità.                                                                                                                             
«Ehi!» esclamo sfuggendo via dalla sua presa. Spalanco la bocca davanti all’evidenza: nel muro c’è un buco. Un grosso buco. Abbastanza da riuscire a stare entrambi in piedi senza sbattere la testa. Ok, anche lui da solo, il suo metro e novanta batte il mio e settantacinque uno a zero senza fatica. Le pareti saranno alte poco meno di due metri, perché i suoi capelli sfiorano il soffitto impregnandosi di una leggera polverina bianca. Sul lato destro ci sono vari ripiani, che più che scaffali assomigliano a delle assi di legno a malapena levigate. Anzi, no: sono esattamente delle assi, e per nulla levigate, ora che guardo meglio. Alcune sono piene di libri vecchi che sembrano sul punto di cadere in briciole da un momento all’altro, su altre invece ci sono solo pochi fogli e papiri vari. Su tutte c’è almeno un centimetro di polvere. Oh be’, sempre meglio di due. L’altra facciata però sembra più interessante: è tappezzata di mensole ed è piena di polvere come la prima, ma al posti di tutta quella carta ci sono decine e decine di bottiglie e bottiglie di ogni forma e colore. Avvicino il viso per guardarne una grossa e trasparente dalla forma panciuta e per capire cosa c’è dentro. Sembrano delle piccole palline bianche, come…                                                                                                           «Aaaahh!» Prima che possa finire di urlare, Alec mi circonda la bocca con un braccio e sibila per dirmi di fare silenzio. Il mio respiro accelera all’impazzata e mi aggrappo alla prima cosa che trovo. Il suo braccio, quindi, che cerca di tenermi ferma.                                                                                                                                        
«Adesso ti lascio andare ma tu devi smetterla di urlare, ok? Promesso?» mi chiede. Annuisco in fretta, con gli occhi sbarrati. Lo sento stringermi la vita, per paura che io possa svenire. Cosa che potrei fare, visto che il contenuto di quella bottiglia sono…                                                                                
«Occhi! Quei cosi sono dei disgustosissimi occhi viscidi! E si muovono!» esclamo disgustata, senza staccare lo sguardo da una di quelle piccole schifezze che adesso si è girata, rivelando una piccola pupilla gialla a fessura.                                                                                                                                            
Lui li fissa con indifferenza, per poi riprodursi in una leggera smorfia infastidita. «È meglio se non sai di cosa» dice macabro, tirandomi via da lì. Da quello che ho visto in quel nanosecondo prima che mi salissero i conati di vomito sembravano occhi di un qualche rettile, ma non ne sono del tutto certa. Non che ci tenga particolarmente a dare una seconda occhiata, una mi basta e mi avanza per il resto della vita, grazie. Anche perché non credo che Alec sia così propenso a lasciarmelo fare. A proposito… invece che alle bottiglie, la sbirciata la rivolgo verso di lui, che naturalmente mi becca con le mani nel sacco. È di nuovo in posizione completamente eretta e tiene lo sguardo fisso su di me, non del tutto sicuro che io non possa ancora svenire o ricominciare ad strillare.                                                                                                                                                     
«Tutto bene?» chiedo. Al massimo dovrebbe essere lui a chiedermelo. E infatti…                                                 
«Sì. Tu, tutto bene?»                                                                                                                                        
Annuisco, passandomi una mano sulla faccia e prendendo un bel respiro. «Sì, credo. Dammi ancora un attimo, per favore».                                                                                                                 
Fa un cenno con la testa, mentre io mi chino sulle ginocchia, e si avvicina alla parete incriminata. Con la coda dell’occhio lo vede estrarre la bacchetta di vetro che teneva in mano anche prima e disegnare uno svolazzo colorato, agitandola proprio come un mago.                                                        
«Puoi girarti adesso» mi chiama, sfiorandomi il gomito e fissando gli occhi nei miei. Ci potrei annegare, dentro tutto quel blu; altro che quelle pupille gialle malefiche. Brrr, solo al pensiero mi vengono i brividi. Lentamente, resistendo alla tentazione di fuggire via, mi volto verso il fondo della cavità e resto a bocca aperta. Davanti a tutte quelle boccette adesso c’è una specie di patina che si muove a rilento, all’apparenza come se fosse fatta d’acqua, che sfoca tutto quello che c’è dietro pur lasciandolo intravedere. Come una barriera per impedire di vomitare per il voltastomaco.                                                                                                
«Ma che cosa sei tu? Un mago?» chiedo sorpresa, allungando un braccio e guardandolo sfocarsi dietro quella patina. Lo ritraggo, rivolgendomi verso di lui.                                                                    
«Uno Stregone, al massimo - un sorriso gli illumina il volto come un breve lampo, forse per un ricordo felice che deve collegare a quella parola – Ma comunque no, neanche quello. Sono uno Shadowhunter, un… »                                                                                                                                             
«Un cacciatore d’ombre. O di mostri, se la parola è usata in senso figurato».                                                
Mi guarda con un sopracciglio sollevato, cercando comunque di nascondere la sorpresa. Ti ho colpito, eh? Sarà anche inglese, ma frequento un liceo linguistico e, modestamente, è la lingua in cui vado meglio. Forse anche l’unica in cui vado bene.                                                                                      
«Demoni, se vogliamo essere precisi. Ma sì, ci hai azzeccato, brava».                                                             
«Cos’è quello?» domando, indicando il bastoncino trasparente con un cenno del capo. Per tutta risposta me lo agita davanti al naso, producendo una scia luminosa, che però non compie nessun incantesimo o strana magia.                                                                                                                        
«Uno stilo. Serve per concentrare i poteri delle rune» lo muove verso la barriera della parete e subito un disegno di linee contorte ed intrecciate si illumina per pochi secondi. Wow, e io che pensavo scherzasse, questo fa sul serio. «Perché hai sorriso prima?» gli chiedo sorridendo anch’io. E così tenero quando lo fa, sembra molto più… rilassato, meno teso. Di colpo arrossisce. Ecco, ho parlato troppo presto.                                                                                                                              
«S-stavo pensando ad una persona, Magnus. Magnus Bane». Come se si dovesse nascondere dopo aver rivelato un segreto di stato si accovaccia di nuovo al suolo, nella stessa posizione in cui l’ho trovato poco fa. Cielo, sembrano passate delle ore, chissà cosa starà pensando mia nonna. È molto strano che non mi abbia ancora chiamato, ma di certo non sarò io a preoccuparmi di tornare in cucina. E soprattutto non lascerò Alec qui in cantina. Si avvicina alla terza parete, quella di sinistra, che è completamente vuota.                                                                                                           
«C’è qualcosa che non quadra» sussurra, camminandoci davanti in su e in giù e tenendoci lo sguardo fisso sopra.                   
A me sembra un normale muro bianco, per quanto possa essere normale un muro sbucato dal nulla» minimizzo con un gesto della mano. In pochi secondi, però, Alec tira fuori lo stilo con uno scatto e disegna rapido una runa  sulla vernice. Come se stesse riemergendo da una nuvola di fumo, in mezzo a tutto quel bianco compare una piccola porticina quadrata tutta arrugginita. Si alza con un sorriso trionfante. «Ah! Te l’avevo detto che mancava qualcosa».                                          
Approfittando del momento di distrazione, tiro fuori la domanda che mi ronza da un po’ nel mio piccolo cervellino: «Chi è Magnus?»                                                                                                              
Il suo sorriso scompare, cedendo il posto ad una maschera di puro terrore. «Il Sommo Stregone di Brooklyn» risponde in fretta. Troppo in fretta, per i miei gusti. Di certo il ragazzo non sa mentire.                                                                                  
«E… » lo spingo a continuare con un ghigno sornione. La sua faccia cambia colore dal pallido stile cadavere al verde della nausea fino al rosso. Oh-oh, rosso. Dopo dieci secondi buoni trascorsi a boccheggiare risponde: «Il mio compagno». Poverino, sta per mancargli il fiato. Meglio approfittarne allora.                                                                                                                                            
«Il tuo compagno… d’armi?» chiedo con aria innocente. Se possibile, pass dal rosso al viola. Questo vuol dire che esiste davvero un compagno d’armi, e che deve avere un ruolo bello grosso in tutta questa storia.                                                                     
«N-no, no. Il mio compagno d’armi è Jace!»                                                                                                   
«Quindi hai anche un compagno d’armi» ripeto, giusto per rilassarlo un po’. Che è quello che succede. Povero caro, pensa di avermi depistato. Oh, ma quanto si sbaglia.                                                   
«Si chiama Parabatai» spiega, già più a suo agio.                                                                                         
«Parabatai. E mi stavi dicendo che questo Magnus è il tuo compagno di…?» Boom, sganciata la bomba. Accidenti, sembra che voglia scoppiare. Prima di domani mattina forse ce la faremo.                          
«Il mio compagno, il… il mio fidanzato». Tira un lungo sospiro, come se avesse lasciato cadere un macigno di due tonnellate dalle spalle. Ah-ah! Lo sapevo io, lo sapevo che era qualcuno di importante!                                                                             
«Tu sei gay?!» esclamò sorpresa. La sua faccia ritorna prima rossa, poi si fa improvvisamente seria. 
«E allora? È forse un problema?» chiede con tono di sfida.                                                                          
«Assolutamente no, ma non me lo aspettavo. Non ne hai la faccia». Lui sbuffa, spostando una ciocca di capelli neri dagli occhi. Gli rivolgo il migliore dei miei sorrisi, anche per nascondere un pizzico di delusione, lo ammetto.                                                                                                                   
«Perché stavi pensando proprio a lui, scusa?»                                                                                                 
Alec si passa una mano tra i capelli. Ha proprio l’aria di un innamorato, in effetti.                                   
«Vedi, gli Stregoni si differenziano dai Mondani, ovvero gli umani come te, e dagli Shadowhunters per alcune caratteristiche fisiche, che variano per ognuno di loro. Magnus… be’ vedi, lui ha gli occhi da gatto. Dorati e verdi» aggiunge con aria sognante.                                                                               
Mi fermo un momento a pensare come sarebbe avere gli occhi da gatto e poi…                                                
«Ma che figo! Ma proprio da gatto? E quando ha paura gli si allargano le pupille?» chiedo eccitata.                                         
Mi fissa un po’ confuso. «Ehm, no, quello no. Sono delle semplici fessure».                                              
Meno male, perché in tal caso mi avrebbero fatto un po’ effetto, ad essere sincera. Ma questo me lo tengo per me.                                                                                                                                            
«Be’… un giorno dovrai presentarmelo, sappilo. Ma per adesso, occupiamoci di quella porta».                   
Mi guarda con la bocca spalancata, poi, come ricordandosi quali siano i suoi compiti, porta di nuovo tutta la sua attenzione al passaggio ossidato. Prova ad afferrare la maniglia, ma come prevedibile quella non si apre. Perciò, afferrato lo stilo, disegna una piccola runa nell’angolo in alto a sinistra.                                                                                                                                     
«Runa del Silenzio» spiega concentrato senza staccare gli occhi. Poi passa al centro del pannello, dove ne disegna una molto più grossa. Appena l’ha finita, si alza di scatto.                                           
«Giù!» urla e mi si getta addosso, schiacciandomi contro il pavimento. In meno di tre secondi un pezzo quadrato di ferro arrugginito ci vola sopra le teste, andando a sbattere contro la parete di fronte e buttando giù un paio di libri. Tutto senza il minimo rumore.                                                             
«Fammi indovinare – sbuffo da sotto il suo petto – Runa dell’Esplosione?»                                                                  
Lui sorride con aria complice. «Già». Si alza con un unico movimento felino e mi porge una mano per aiutarmi, che accetto con una smorfia. Diciamo che tutti quei muscoli non sono leggerissimi.   «Non è che potresti insegnarmi la prima? Sai, sarebbe perfetta per tornare a casa la notte all’ora che mi pare senza svegliare nessuno» domando controllando di avere ancora tutte le ossa della schiena intere.                                                                                                                                          
Sorride divertito. «No, non credo».                                                                                                               
Alzo le spalle in risposta. «Peccato, sarà per un’altra volta».                                                                            
La porta saltata per aria giace a terra, ancora incredibilmente intera. Dal buco che ha lasciato adesso si intravedono delle altre pareti bianche e la rampa di una scala. Arrugginita, ovvio. Alec si accovaccia e attraversa senza esitare, guardandomi poi per invitarmi a fare lo stesso.                                   
«Allora, vieni o resti lì?»                                                                                                                                
Ok, non è che abbia tutto questo grande coraggio, ma non riesco a resistere. «Certo che vengo» rispondo infilandomi a mia volta nel passaggio.                                                                                          
Il soffitto è altissimo e, secondo i miei primitivi calcoli, ciò è una cosa alquanto anormale. Per il semplice fatto che, in linea d’aria, non solo dovrebbe uscire fuori dalla cantina, ma anche superare la soffitta. E questo è semplicemente impossibile, mi rifiuto di credere a una cosa come questa. Tutto ma non questo. Nello spazio sotto la scala c’è un sacco di sporco e una macchia scura, come di un liquido ormai seccato e ce ne sono dei piccoli schizzi anche sui muri. Faccio un paio di passi per guardare meglio, quando…                                                                                                                   
«No – mi ferma Alec, trattenendomi per un braccio – Non ti avvinare». Ha uno sguardo serio e questo non mi piace per nulla.                                                                                                                         
«Perché?» chiedo con un vago sospetto. All’improvviso non sono sicura di voler sentire la risposta.                                     
«Vuoi davvero saperlo?» Appunto, dicevamo.                                                                                                
«È quello che penso io, vero?» Sento la nausea salirmi dallo stomaco, oh Dio che schifo….                            
«Sì, se credi che quello sia…»                                                                                                               «Sangue».                                                                                                                                                   
«Già».                                                                                                                                                           
«È di animale?» Ti prego di’ di sì, di’ di sì…                                                                                                    
Si china per controllare, ma noto lo stesso che ha in faccia l’espressione di chi sa già la risposta. E non è positiva.                    
«No». Mi guarda preoccupato, in attesa della mia reazione. Quindi quel sangue non è di un animale… Bene, questo vuol dire che è di… che è di… Oh cazzo, adesso svengo, me lo sento. Forza Rebecca, resisti, non fare la figura della mollacciona. Oh no, oh no, perché gira tutto? Fissa un punto, qualcosa di stabile… Alec, fissa Alec, i suoi occhi…                                                                         
«Rebecca! Ehi!» Lo vedo correre verso di me e avvolgermi la vita con un braccio per sostenermi, mentre tutto si fa buio.

  
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