2.
Cacciatori e Stregoni
Oh
cazzo. Oh grandissimo cazzo. Facciamo un breve riepilogo: sono scesa in
cantina
e ho trovato un perfetto sconosciuto accovacciato sul pavimento. E che
sconosciuto: alto, muscoloso come il David di Michelangelo, capelli
corvini
leggermente lunghi, labbra sensuali e due occhi blu come
l’oceano. O il cielo
di notte, quello che preferite. Resta il fatto che sia sexy,
dannatamente sexy.
Unica pecca: è ricoperto dalla testa ai piedi di armi e
questo mi mette un
pochino di ansia, se devo essere sincera. Oltre al fatto che parla di
magia
come se fosse la cosa più naturale di questo mondo. Ma con
tutti i malati
mentali che ci sono in giro, proprio un invasato di magia doveva
intrufolarsi
senza permesso in casa di mia nonna? Oh Dio, mia nonna!
Perché quella vecchiaccia
non mi hai ancora urlato dietro per chiedermi dove sono finita? Dove
diavolo
sparisce quelle rare volte in cui serve? Avrebbe giusto una cosuccia
piccola
piccola da spiegarmi, ad esempio che accidenti è quella
rientranza nella parete
che certamente fino ad un’ora fa non c’era. Almeno
credo.
Alec, il ninja intruso, mi fissa come se ciò
che ha appena detto fosse
una cosa ovvia.
«Ma sei scemo? O ti sei
fumato qualcosa di illegale in qualche pub di scellerati prima di
piombare
qui?» Ecco, brava cretina. Un applauso a
quell’unico neurone che abita nel mio
cranio e che ha appena firmato la mia condanna a morte. Lui invece
ghigna come
se la mia battuta l’avesse illuminato su un qualcosa di
particolarmente
piacevole (e sollevante?) per lui.
«Una mondana, eh?»
«Scusa?
Una che cosa?» Che fa questo, mi insulta? Lui mi ignora
bellamente (sai che
novità) e mi afferra per il braccio destro, trascinandomi
davanti alla
cavità.
«Ehi!»
esclamo sfuggendo via dalla sua presa. Spalanco la bocca davanti
all’evidenza:
nel muro c’è un buco. Un grosso buco. Abbastanza
da riuscire a stare entrambi
in piedi senza sbattere la testa. Ok, anche lui da solo, il suo metro e
novanta
batte il mio e settantacinque uno a zero senza fatica. Le pareti
saranno alte
poco meno di due metri, perché i suoi capelli sfiorano il
soffitto
impregnandosi di una leggera polverina bianca. Sul lato destro ci sono
vari
ripiani, che più che scaffali assomigliano a delle assi di
legno a malapena
levigate. Anzi, no: sono esattamente delle assi, e per nulla levigate,
ora che
guardo meglio. Alcune sono piene di libri vecchi che sembrano sul punto
di
cadere in briciole da un momento all’altro, su altre invece
ci sono solo pochi
fogli e papiri vari. Su tutte c’è almeno un
centimetro di polvere. Oh be’,
sempre meglio di due. L’altra facciata però sembra
più interessante: è
tappezzata di mensole ed è piena di polvere come la prima,
ma al posti di tutta
quella carta ci sono decine e decine di bottiglie e bottiglie di ogni
forma e
colore. Avvicino il viso per guardarne una grossa e trasparente dalla
forma
panciuta e per capire cosa c’è dentro. Sembrano
delle piccole palline bianche,
come…
«Aaaahh!» Prima che possa finire di
urlare, Alec mi circonda la bocca
con un braccio e sibila per dirmi di fare silenzio. Il mio respiro
accelera
all’impazzata e mi aggrappo alla prima cosa che trovo. Il suo
braccio, quindi,
che cerca di tenermi ferma.
«Adesso
ti lascio andare ma tu devi smetterla di urlare, ok?
Promesso?» mi chiede.
Annuisco in fretta, con gli occhi sbarrati. Lo sento stringermi la
vita, per
paura che io possa svenire. Cosa che potrei fare, visto che il
contenuto di
quella bottiglia sono…
«Occhi! Quei cosi sono dei disgustosissimi occhi viscidi! E
si muovono!»
esclamo disgustata, senza staccare lo sguardo da una di quelle piccole
schifezze che adesso si è girata, rivelando una piccola
pupilla gialla a
fessura.
Lui li fissa con indifferenza, per poi riprodursi in una leggera
smorfia
infastidita. «È meglio se non sai di
cosa» dice macabro, tirandomi via da lì.
Da quello che ho visto in quel nanosecondo prima che mi salissero i
conati di
vomito sembravano occhi di un qualche rettile, ma non ne sono del tutto
certa.
Non che ci tenga particolarmente a dare una seconda occhiata, una mi
basta e mi
avanza per il resto della vita, grazie. Anche perché non
credo che Alec sia
così propenso a lasciarmelo fare. A proposito…
invece che alle bottiglie, la
sbirciata la rivolgo verso di lui, che naturalmente mi becca con le
mani nel
sacco. È di nuovo in posizione completamente eretta e tiene
lo sguardo fisso su
di me, non del tutto sicuro che io non possa ancora svenire o
ricominciare ad
strillare.
«Tutto bene?» chiedo. Al massimo dovrebbe essere
lui a chiedermelo. E
infatti…
«Sì. Tu, tutto
bene?»
Annuisco, passandomi una mano sulla faccia e prendendo un bel respiro.
«Sì, credo. Dammi ancora un attimo, per
favore».
Fa un cenno con la testa, mentre io mi chino sulle ginocchia, e si
avvicina alla parete incriminata. Con la coda dell’occhio lo
vede estrarre la
bacchetta di vetro che teneva in mano anche prima e disegnare uno
svolazzo
colorato, agitandola proprio come un mago.
«Puoi girarti adesso» mi chiama, sfiorandomi il
gomito e fissando gli
occhi nei miei. Ci potrei annegare, dentro tutto quel blu; altro che
quelle
pupille gialle malefiche. Brrr, solo al pensiero mi vengono i brividi.
Lentamente, resistendo alla tentazione di fuggire via, mi volto verso
il fondo
della cavità e resto a bocca aperta. Davanti a tutte quelle
boccette adesso c’è
una specie di patina che si muove a rilento, all’apparenza
come se fosse fatta
d’acqua, che sfoca tutto quello che c’è
dietro pur lasciandolo intravedere.
Come una barriera per impedire di vomitare per il voltastomaco.
«Ma
che cosa sei tu? Un mago?» chiedo sorpresa, allungando un
braccio e guardandolo
sfocarsi dietro quella patina. Lo ritraggo, rivolgendomi verso di lui.
«Uno Stregone, al massimo - un sorriso gli illumina il volto
come un
breve lampo, forse per un ricordo felice che deve collegare a quella
parola –
Ma comunque no, neanche quello. Sono uno Shadowhunter, un…
»
«Un cacciatore d’ombre. O di mostri, se la parola
è usata in senso
figurato».
Mi guarda con un sopracciglio sollevato, cercando comunque di
nascondere
la sorpresa. Ti ho colpito, eh? Sarà anche inglese, ma
frequento un liceo
linguistico e, modestamente, è la lingua in cui vado meglio.
Forse anche
l’unica in cui vado bene.
«Demoni, se vogliamo essere precisi. Ma sì, ci hai
azzeccato,
brava».
«Cos’è
quello?» domando, indicando il bastoncino trasparente con un
cenno del capo.
Per tutta risposta me lo agita davanti al naso, producendo una scia
luminosa,
che però non compie nessun incantesimo o strana magia.
«Uno stilo. Serve per concentrare i poteri delle
rune» lo muove verso la
barriera della parete e subito un disegno di linee contorte ed
intrecciate si
illumina per pochi secondi. Wow, e io che pensavo scherzasse, questo fa
sul
serio. «Perché hai sorriso prima?» gli
chiedo sorridendo anch’io. E così tenero
quando lo fa, sembra molto più… rilassato, meno
teso. Di colpo arrossisce.
Ecco, ho parlato troppo presto.
«S-stavo pensando ad una persona, Magnus. Magnus
Bane». Come se si
dovesse nascondere dopo aver rivelato un segreto di stato si accovaccia
di
nuovo al suolo, nella stessa posizione in cui l’ho trovato
poco fa. Cielo,
sembrano passate delle ore, chissà cosa starà
pensando mia nonna. È molto
strano che non mi abbia ancora chiamato, ma di certo non
sarò io a preoccuparmi
di tornare in cucina. E soprattutto non lascerò Alec qui in
cantina. Si
avvicina alla terza parete, quella di sinistra, che è
completamente vuota.
«C’è qualcosa che
non quadra» sussurra, camminandoci davanti in su e in
giù e tenendoci lo
sguardo fisso sopra.
A me sembra un normale muro
bianco, per quanto possa essere normale un muro sbucato dal
nulla» minimizzo
con un gesto della mano. In pochi secondi, però, Alec tira
fuori lo stilo con
uno scatto e disegna rapido una runa sulla vernice.
Come se stesse riemergendo
da una nuvola di fumo, in mezzo a tutto quel bianco compare una piccola
porticina quadrata tutta arrugginita. Si alza con un sorriso
trionfante. «Ah!
Te l’avevo detto che mancava qualcosa».
Approfittando del momento di distrazione, tiro fuori la
domanda che mi
ronza da un po’ nel mio piccolo cervellino: «Chi
è Magnus?»
Il suo sorriso scompare, cedendo il posto ad una maschera
di puro
terrore. «Il Sommo Stregone di Brooklyn» risponde
in fretta. Troppo in fretta,
per i miei gusti. Di certo il ragazzo non sa mentire.
«E…
» lo spingo a continuare con un ghigno sornione. La sua
faccia cambia colore
dal pallido stile cadavere al verde della nausea fino al rosso. Oh-oh,
rosso.
Dopo dieci secondi buoni trascorsi a boccheggiare risponde:
«Il mio compagno».
Poverino, sta per mancargli il fiato. Meglio approfittarne allora.
«Il tuo compagno… d’armi?»
chiedo con aria innocente. Se possibile, pass
dal rosso al viola. Questo vuol dire che esiste davvero un compagno
d’armi, e
che deve avere un ruolo bello grosso in tutta questa storia.
«N-no,
no. Il mio compagno d’armi è Jace!»
«Quindi hai anche un compagno d’armi»
ripeto, giusto per rilassarlo un
po’. Che è quello che succede. Povero caro, pensa
di avermi depistato. Oh, ma
quanto si sbaglia.
«Si chiama Parabatai»
spiega,
già più a suo agio.
«Parabatai.
E mi stavi dicendo che questo Magnus è il tuo compagno
di…?» Boom, sganciata la
bomba. Accidenti, sembra che voglia scoppiare. Prima di domani mattina
forse ce
la faremo.
«Il mio compagno, il… il mio
fidanzato». Tira un lungo sospiro, come se avesse lasciato
cadere un macigno di
due tonnellate dalle spalle. Ah-ah! Lo sapevo io, lo sapevo che era
qualcuno di
importante!
«Tu
sei gay?!» esclamò sorpresa. La sua faccia ritorna
prima rossa, poi si fa
improvvisamente seria.
«E allora? È
forse un problema?» chiede con tono di sfida.
«Assolutamente no, ma non me lo aspettavo. Non ne hai la
faccia». Lui
sbuffa, spostando una ciocca di capelli neri dagli occhi. Gli rivolgo
il
migliore dei miei sorrisi, anche per nascondere un pizzico di
delusione, lo
ammetto.
«Perché stavi pensando proprio a lui,
scusa?»
Alec
si passa una mano tra i capelli. Ha proprio l’aria di un
innamorato, in
effetti.
«Vedi, gli Stregoni si differenziano dai Mondani, ovvero gli
umani come
te, e dagli Shadowhunters per alcune caratteristiche fisiche, che
variano per
ognuno di loro. Magnus… be’ vedi, lui ha gli occhi
da gatto. Dorati e verdi»
aggiunge con aria sognante.
Mi fermo un momento a pensare come sarebbe avere gli occhi da gatto e
poi…
«Ma che figo! Ma proprio da gatto? E quando ha paura gli si
allargano le
pupille?» chiedo eccitata.
Mi
fissa un po’ confuso. «Ehm, no, quello no. Sono
delle semplici fessure».
Meno male, perché in tal caso mi avrebbero fatto un
po’ effetto, ad
essere sincera. Ma questo me lo tengo per me.
«Be’… un giorno dovrai
presentarmelo, sappilo. Ma per adesso,
occupiamoci di quella porta».
Mi guarda con la bocca spalancata, poi, come ricordandosi quali siano i
suoi compiti, porta di nuovo tutta la sua attenzione al passaggio
ossidato.
Prova ad afferrare la maniglia, ma come prevedibile quella non si apre.
Perciò,
afferrato lo stilo, disegna una piccola runa nell’angolo in
alto a
sinistra.
«Runa del
Silenzio» spiega concentrato senza staccare gli occhi. Poi
passa al centro del
pannello, dove ne disegna una molto più grossa. Appena
l’ha finita, si alza di
scatto.
«Giù!» urla e mi si getta
addosso, schiacciandomi contro il pavimento.
In meno di tre secondi un pezzo quadrato di ferro arrugginito ci vola
sopra le
teste, andando a sbattere contro la parete di fronte e buttando
giù un paio di
libri. Tutto senza il minimo rumore.
«Fammi
indovinare – sbuffo da sotto il suo petto – Runa
dell’Esplosione?»
Lui sorride con aria complice.
«Già». Si alza con un unico movimento
felino e mi porge una mano per aiutarmi, che accetto con una smorfia.
Diciamo
che tutti quei muscoli non sono leggerissimi.
«Non è che potresti insegnarmi la
prima? Sai, sarebbe perfetta per
tornare a casa la notte all’ora che mi pare senza svegliare
nessuno» domando
controllando di avere ancora tutte le ossa della schiena intere.
Sorride divertito. «No, non credo».
Alzo
le spalle in risposta. «Peccato, sarà per
un’altra volta».
La porta saltata per aria giace a terra, ancora
incredibilmente intera.
Dal buco che ha lasciato adesso si intravedono delle altre pareti
bianche e la
rampa di una scala. Arrugginita, ovvio. Alec si accovaccia e attraversa
senza
esitare, guardandomi poi per invitarmi a fare lo stesso.
«Allora,
vieni o resti lì?»
Ok, non è che abbia tutto questo grande
coraggio, ma non riesco a
resistere. «Certo che vengo» rispondo infilandomi a
mia volta nel
passaggio.
Il soffitto è altissimo e, secondo i miei primitivi calcoli,
ciò è una
cosa alquanto anormale. Per il semplice fatto che, in linea
d’aria, non solo
dovrebbe uscire fuori dalla cantina, ma anche superare la soffitta. E
questo è
semplicemente impossibile, mi rifiuto di credere a una cosa come
questa. Tutto
ma non questo. Nello spazio sotto la scala c’è un
sacco di sporco e una macchia
scura, come di un liquido ormai seccato e ce ne sono dei piccoli
schizzi anche
sui muri. Faccio un paio di passi per guardare meglio,
quando…
«No
– mi ferma Alec, trattenendomi per un braccio – Non
ti avvinare». Ha uno
sguardo serio e questo non mi piace per nulla.
«Perché?»
chiedo con un vago sospetto. All’improvviso non sono sicura
di voler sentire la
risposta.
«Vuoi
davvero saperlo?» Appunto, dicevamo.
«È quello che penso io, vero?» Sento la
nausea salirmi dallo stomaco, oh
Dio che schifo….
«Sì, se credi che quello sia…»
«Sangue».
«Già».
«È di animale?» Ti prego
di’ di sì, di’ di
sì…
Si china per controllare, ma noto lo stesso che ha in faccia
l’espressione di chi sa già la risposta. E non
è positiva.
«No».
Mi guarda preoccupato, in attesa della mia reazione. Quindi quel sangue
non è
di un animale… Bene, questo vuol dire che è
di… che è di… Oh cazzo, adesso
svengo, me lo sento. Forza Rebecca, resisti, non fare la figura della
mollacciona. Oh no, oh no, perché gira tutto? Fissa un
punto, qualcosa di
stabile… Alec, fissa Alec, i suoi occhi…
«Rebecca!
Ehi!» Lo vedo correre verso di me e avvolgermi la vita con un
braccio per
sostenermi, mentre tutto si fa buio.