Lancette
di carta
(I
fantasmi non
hanno consistenza, eppure loro sapevano di carta)
Il
Grande Orologio n.1 vantava di trovarsi più in alto rispetto
a tutti gli altri:
nemmeno il Grande Orologio n. 5, che si trovava sopra l’unica
credenza di quella
stanza, avrebbe potuto sperare di superarlo.
Non
che si trovasse in una posizione comoda – il Grande Orologio
n.3, sdraiato
sopra i libri della libreria ammuffita di Gazza, si rilassava
senz’altro di più
-, però faceva una grande quantità di smorfie
altezzose e superiori.
Gazza
aveva deciso di eleggerlo il n.1 proprio per quel motivo, e, prima di
dedicare
attenzioni a sé stesso davanti allo specchio, cercava di
raddrizzare quella
foto lungo la cornice scrostata, nonostante la piega curva che non
sarebbe più
tornata piatta.
Poi,
soddisfatto in una maniera un po’ bizzarra – il
Grande Orologio n.1 lo notava
dal sorriso ingiallito e l’accenno di rughe più o
meno profondo che andava
incurvandosi con il tratto del viso -, si guardava allo specchio e
riponeva su
una sedia una decina di creme, rigorosamente per ordine di altezza.
Dopo
quell’operazione si dedicava al vestiario, e che mai si
dicesse che non
cambiava l’abito!, abbinando sfumature di nero con altri neri
la cui differenza
era ben poco visibile.
Seguiva
la pettinatura, la scelta delle scarpe e, infine, un periodo che
variava da
un’ora e mezza alle tre ore che dedicava
all’ammirazione del proprio riflesso
nello specchio.
Dopodiché
veniva il turno del Grande Orologio n.2, sicuramente un po’
stufo e geloso, ma
certamente contento per la fine di quella patetica scena rituale.
Gazza
immaginava che fra i Grandi Orologi ci fossero contrasti di egemonia
sul tempo
loro dedicato, ed era contento di essere il Padrone-Non-Padrone. Solo
fra i
Grandi Orologi n. 3 e 4 c’era un rapporto sufficientemente
stretto da obbligare
Gazza a spostare fruste e chiodi affianco alla libreria.
Era
tutto un capolavoro, infine: ogni piccola cosa, ogni minuscolo
dettaglio.
Quella
stanza era la camera da letto di Argus Gazza
all’età di ventisette anni.
***
«Oh,
per Merlino, sono in ritardo!» Gazza lanciò uno
sguardo desolato a quello che
sembrava un quaderno sgualcito, di colore blu, che aveva sulla
copertina una
pomposa scritta argentata che indicava con una scrittura obliqua il
nome
“Album”.
Lo
afferrò con grande cura, infilandosi un cappotto nero di
stoffa da mercato.
Londra
sembrava ben contenta della pioggia, quel giorno. Gazza no, ovviamente.
Quando
pioveva il Grande Orologio n.2 s’intristiva e sembrava
chiudersi a riccio in sé
stesso, con ginocchia che non esistevano strette al petto, con braccia
invisibili a circondarle miseramente.
Gazza
lo proteggeva dalla pioggia sotto il suo cappotto scuro e sudicio.
Entrò
in un piccolo negozio dotato di una piccola vetrina, con piccoli
orologi
antichi all’interno di essa, e una piccola insegna spenta ad
indicare la sua
esistenza – sempre troppo piccola, per essere notata.
Gettò
uno sguardo sul banco prepotentemente spazioso che occupava buona parte
della
stanza; aprì la bocca e ne uscì un suono buffo e
gracchiante.
«…ne
avrà fatte ancora, signora! Ne sono certo, signora, le dico
che ne sono cert-»
Guaì
disperatamente, con un ché di assurdo negl’occhi
piccoli, anche loro.
Una
donnina vestita di rosso scosse il capo, senza capire il
perché di tanto
scalpore: - «Sono finite, signore, le ha prese tutte lei,
d’altronde…»
Gazza
strinse il braccio destro contro il fianco, sentendo la superficie dura
e
squadrata dell’album, pieno di foto ancora non appese.
Centinaia di Grandi
Orologi in attesa di entrare nella vita di Argus e spodestare i loro
nemici;
Gazza sapeva che il Grande Orologio n.2, che capeggiava tutti loro,
soffriva
più degl’altri per lo stesso motivo,
così spesso passeggiava con lui,
parlandogli con bisbigli sottili e privi di alcuna pausa.
«Ora
potrebbe comprare qualche orolog-»
Offeso,
alzò il capo rosso e abbracciò il suo album tanto
caro, uscendo dal negozio
senza degnare la padrona di alcun saluto.
Marciò
sotto la pioggia come un soldato tornato da una guerra persa,
dispiacendosi
solo per quello strato di creme che sotto l’acqua andava
sciogliendosi.
Il
Grande Orologio n.1 non sarebbe stato felice di questo.
«Devo
tornare a casa, ma non permetterò loro di prenderti in giro,
n.2, lo prometto,
eh, non lo faranno o…» Due tozze dita ruvide
accarezzarono morbosamente la
copertina dell’album; tre, quattro, dieci carezze. Gazza
immaginò tutte le foto
tendersi come gattini coccolati, e non si trattenne dal ridere con un
certo
studiato compiacimento.
Entrò
frettolosamente nella sua abitazione sporca e poco illuminata; appese
il
cappotto gocciolante nell’esatta posizione in cui
l’aveva trovato all’inizio e
corse verso l’unica camera da letto quanto più
velocemente le sue gambe
potessero permettergli.
«Grandi
Orologi!»
Alzò
Album – assumeva un’importanza particolare, in quel
momento, e poteva essere
chiamato dunque per nome – sopra la sua testa, percorrendo
con un’occhiata
avida tutte quelle foto tranquille, sedute nella loro postazione
preferita.
«Non
avete paura, eh?» - sibilò ancora, gonfiando il
petto con un respiro raschiato
e triste.
Alzò
ancora Album, quasi fosse un trofeo camuffato, con le braccia tese
sopra il
soffitto basso; poi diede inizio alla strage.
Raggruppò
tutte le foto in ordine di numero – il Grande Orologio n.2 fu
tolto da Album e
infilato fra n.1 e n.3, perdendo ogni libertà acquisita in
quegl’anni -, tolse
tutte le foto senza nome e le affiancò ai Grandi Orologi.
Immaginò
una lotta di insulti che le orecchie umane non erano in grado di
percepire, una
sottile gelosia che andava scivolando come un serpente sulla carta
lucida che
dipingeva sempre lo stesso identico orologio; cambiavano solo le
lancette nere,
oltre il vetro e la foto stessa, dove lui non era mai riuscito ad
arrivare.
Infilò
i Grandi Orologi in Album, godendo nel rimproverarli quando essi si
lamentavano
e cercavano pietosamente di scusarsi. Nelle bustine vuote rimanenti
infilò le
foto senza nome, finché tutto l’album fu completo,
come un libro fitto e
vissuto.
Argus
Gazza uscì di nuovo, indossando il cappotto ancora bagnato,
e si portò via il
Ricordo, che non era altro che un insieme di piccoli ricordi simili a
biglie
colorate.
Le
sue, però, erano tutte nere.
***
Era
giovedì, un nebbioso giovedì mattina da gara di
trottole.
La
pista scavata nel terreno era diventata molle e inagibile, perdendo
anche
quella forma tonda che i bambini dei Giochi le avevano faticosamente
dato.
Quel
nebbioso giovedì mattina non c'era nessuno a gareggiare;
c'era però uno
spettatore teso che non aveva ancora staccato gli occhi dalla pista dal
primo
momento in cui era entrato nel campetto.
Era
un bambino dei Giochi: tutti l'avrebbero potuto facilmente riconoscere
dalle
unghie sporche di terra e da una piccola trottola bianca e blu
attaccata con
una cordicella ai suoi pantaloni.
Sembrava
in attesa di entrare in azione - le dita intrappolavano le ginocchia e
forse
sarebbe stato difficile valutare chi fosse diventato più
bianco -, convinto che
davanti ai suoi occhi febbricitanti centinaia di avversari si stessero
battendo
per poi sfidarsi con lui, campione in carica.
Il
pubblico rumoreggiava sempre più forte ad ogni trottola che
cadeva fuori dalla
pista o giaceva morta all'interno di essa, acclamando il vincitore e
paragonandolo a lui; ben inciso, per Gilderoy, che non c'era nulla da
mettere
al confronto, che ciò era totalmente superfluo, per quanto i
complimenti
fossero ben voluti.
Il
vincitore delle tante sfide, infine, vinse anche l'ultima del torneo,
alzando
le mani che tenevano la sua trottola di plastica come un ambito premio.
Allock
sorrise.
Si
alzò finalmente da quella panchina arrugginita e fredda -
una postazione
d'onore, dove lui e solo lui poteva accomodarsi e godere di una vista
assolutamente invidiabile -, camminando come un eroe e lasciando
volutamente
che la sua trottola ondeggiasse avanti e indietro come un pendolo
vanitoso.
«Piacere
di conoscerti, Vincitore.»
Le
bambine dei Giochi starnazzarono nella sua direzione, tifandolo con le
loro
vocine stridule e le loro braccia alzate nella sua direzione.
«Piacere
mio, Campione.»
Quando
finalmente furono pronti per lanciare le loro trottole, un silenzio
eccitato
percorse tutto il pubblico fino al fischio dell'Arbitro; il piccolo
Allock
incitò la sua trottola ad attaccare l'avversaria e, quando
affondò nel fango e
smise di ruotare, finse che ciò non fosse successo e
iniziò a sognare uno
scontro leggendario, con scintille e attacchi da entrambe le fazioni.
Ovviamente
vinse.
Non
fece però in tempo ad essere travolto dal pubblico in
delirio e dalle esaltate
bambine dei Giochi, perché qualcuno si era impadronito della
sua panchina e
stava gettando a terra pezzi di carta colorata, sporcando il suo
territorio.
«Ehi!
Cosa sta facendo, signore?»
Sparì
tutto il gioco, sfumando via come gesso cancellato.
«Sto
salutando i miei Grandi Orologi, non lo vedi?»
Ne
aveva in mano un mazzo piuttosto spesso: Gilderoy si alzò in
punta di piedi e
vide immagini tutte uguali, vide tanti Grandi Orologi che potevano
essere
distinti solo per le lancette, quelle frecce precise che non sapeva
ancora
leggere.
L'uomo
strappava la carta in tanti piccoli pezzettini, poi li lasciava cadere
a terra
come i petali dei fiori delle Bambine dei Giochi, o come la terra della
pista,
o come le ceneri dei morti.
Quelli
erano, difatti, tanti cadaveri carbonizzati, tante foto che un tempo
erano
state vive e vivevano, tanti orologi che battevano un tempo non vissuto.
«Perché
li ha uccisi?» - si azzardò a chiedere il
piccoletto, sedendosi con un salto
accanto ad Argus.
Quest'ultimo
brontolò qualcosa - ogni volta un rumore strano usciva dai
suoi bronchi, come
il lamento di un mostro -, poi guardò i due ultimi Grandi
Orologi rimasti nelle
sue mani: il n.1 e il n.3, che mai erano stati amici e mai nemmeno si
erano
dichiarati guerra.
«Per
lo stesso motivo per cui tu stai lasciando affogare quel coso dentro il
fango,
ragazzino.»
Gilderoy
non rispose, guardando saldamente i lacci marroni dei suoi scarponcini
sporchi.
Avevano l'estremità consunta e bagnata, sfilacciata in
più punti.
Gazza
si rimise in piedi stancamente, guardando quella strage di vite senza
riuscire
a vederla davvero. Si tenne n.3 per sé, intascandola senza
farsi vedere da
nessuno, in modo tale da non scatenare vendette: da qualche parte, era
certo, i
morti lo osservavano, osservavano il Grande Orologio n.3 e ne sarebbero
stati
gelosi per l'ultima volta.
«Tieni,
bambino.»
Pose
il Grande Orologio n.1 al piccolo Gilderoy Allock, i cui occhi grandi
da
Campione-Non-Campione si allargarono come se avesse ricevuto il suo
primo
Trofeo-Non-Trofeo.
Poco
dopo tornò la pioggia, e le ceneri dei morti vennero
nascosti nel fango assieme
alla sua vecchia trottola.
Quando
il giorno successivo il campetto fu di nuovo pieno di bambini dei
Giochi,
nessuno chiese perché Gilderoy mancasse, nessuno fece caso
alla trottola
sepolta e nessuno, ancora, si era chiesto cosa fossero quei pezzettini
di carta
che emergevano nel terreno asciutto.
Nessuno
voleva la nebbia di quel giovedì mattina.
***
«E'
solo un Gratta e Netta, suvvia, ragazzo!
Spiegam-»
Ancora.
Spalancò
la bocca in un gesto che gli era usuale per esprimere il proprio
contrappunto,
poi gemette e afferrò una vecchia e tozza bacchetta.
La
impugnò come se fosse una spada leggendaria, o la bacchetta
di un eroe, o un
righello babbano, tenendo conto della distanza fra le dita con
meticolosa
precisione.
«Gratta
e Netta! Gratta e Netta! Gratta e Netta! Gratt-»
«Riuscirà
a fare ben poco, se non tiene conto della postura del suo corpo, signor
Gazza.»
Argus
sentì il proprio viso piegarsi nella stessa precedente
smorfia, prima di gemere
e degnare dell'inopportuno ospite di uno sguardo.
Era
un insegnante, un professore.
Un
novellino che insegnava per di più Difesa contro le Arti
Oscure.
«E
il sorriso, signor Gazza; l'espressione facciale, la contrazione dei
muscoli e
la bellezza corporea sono fondamentali per la riuscita di un buon
incantesimo!»
Parlava rapidamente, ruotando attorno al vecchio come un felino.
«Su, riprovi!
O vuole che le faccia vedere...?»
Sbatté
un attimo le ciglia, capendo. Subito dopo si piegò in un
elegante inchino,
sorridendo con quei suoi denti bianchissimi e privi di imperfezioni.
«Cosa
stava pulendo, prima?»
Gazza
indicò il pavimento, immobile ed imbarazzato per quella
situazione così
propizia. Per rimediare, porse l'unica cosa che portava sempre con
sé e che, in
aggiunta, non era nemmeno pulita.
«Oh,
un album di foto!»
Non
c'era più nessuna scritta sulla copertina ormai grigiastra;
Gazza sembrava
essersi dimenticato il suo nome e ciò che era stato il suo
contenuto.
«Bene,
mi stia a guardare, allora...»
Gilderoy
puntò la flessibile bacchetta in un punto particolarmente
sporco di quel grigio
già sporco di suo, poi, con un sorriso ancora largo nei
canoni della larghezza,
scandì: - «Gratta e Netta!»
Ci
fu un rapido suono – il rumore di uno strappo – e,
quando l’insegnante porse
l’album al proprietario, quest’ultimo
notò il segno di una riga che spaccava la
copertina in due parti, proprio dove tanti anni prima troneggiava il
nome
Album.
In
compenso, quei due lembi erano perfettamente puliti.
«Posso
prenderlo, signor Gazza?»
Le
dita callose di Argus accarezzavano il cartone consunto nascosto dal
grigio che
era tornato blu; cercava qualcosa, un incisione, un graffio, una piega
del
tessuto.
Non
trovò nulla.
«M'insegni
ancora, m'insegni la magia!»
Il
professor Allock distese il suo volto in un'espressione soddisfatta ed
orgogliosa, come se il maganò che si ritrovava davanti
avesse chiesto il
tatuaggio del suo nome sulla sua fronte sudaticcia.
«Solo
se mi regala questo album, signor Gazza.» - propose, tendendo
un palmo aperto
dalla pelle morbida tipica degli studenti. «E poi magari...
magari le lascio il
mio autografo, che ne dice?»
Gazza
sembrò contemplare la risposta, perché ci fu una
pausa di silenzio più o meno lunga
che interruppe ogni suono. In realtà stava semplicemente
cercando di ricordare
cosa mancasse in quello strano strappo.
«Lei
m'insegni la magia, mi faccia diventare un mago. Io le darò
questo, certo.»
Chiuse gli occhi e tenne con la punta delle dita l'angolo
più piccolo
dell'album, come un oggetto schifato. Il professore se ne
appropriò, sollevato.
«Ci
daremo appuntamento in questo stesso posto, allora, signor Gazza. Le
insegnerò
la bellezza della magia, senz'altro.» Parlò
frettolosamente, abbracciando Album
- di nuovo, di nuovo assumeva quel ruolo protagonista, che gli era
stato negato
per tanti anni - e dirigendosi a grandi passi verso la sua camera.
Il
vecchio Argus lasciò che le dita scivolassero sul dorso
della bacchetta,
chiedendosi se quello fosse stato uno scambio equo.
***
Il
Grande Orologio n.1 vantava di essere il più colorato di
tutti, e il più amato,
e il più osservato; tutto sommato, forse, era semplicemente
il più autografato.
C'erano,
sulla sua superficie ancora lucida, i segni dei colori a pastello
utilizzati
dai bambini: per l'esattezza, tre righe rosse e gialle in alto a destra
e uno
scarabocchio verde in fondo alla fotografia.
Le
firme di Gilderoy Allock, in ogni caso, erano in quantità
smisurata, e
ricoprivano il retro come un'enorme chiazza nera. Lasciavano libero
solo lo
spazio delle lancette, che indicavano imperterrite le sei e trentasei.
Tuttavia,
poiché di Grandi Orologi ne era rimasto solo uno - fantasmi
invidiosi a parte
-, Gilderoy dedicava tutte le ventiquattro ore alla cura del proprio
corpo,
allo specchiarsi e al sorridere con il miglior sorriso fra tutti i
sorrisi.
Allock,
sedutosi sul suo letto, prese fra le gambe Album e riscrisse il suo
nome sulla
copertina, esattamente laddove i lembi andavano staccandosi. Non lo
autografò,
lasciò solo quella scritta pomposa e nuova sulla superficie
ormai vecchia del
quaderno.
Il
Grande Orologio n.1 fu infilato nella prima bustina, a capeggiare
fantasmi
invisibili che spesso, la gente, ritrovava nelle fotografie.
Eppure, per
loro, erano le stesse fotografie ad essere fantasmi - piccoli mostri
invisibili, contenitori d'invidia, che volevano tempo, che volevano
autografi.
Mostri di cui loro erano Padroni-Non-Padroni.
Più
tardi, Gilderoy riuscì a riempire nuovamente Album, per poi
stracciare le foto
e regalare un altro Grande Orologio al bambino Campione che sarebbe
venuto.
Si
era tenuto per sé il n.1, ovviamente - orologio tondo, con
il quadrante bianco
e i numeri romani, le lancette ferme che si muovevano freneticamente a
battere
un tempo senza suono, orologio tondo appeso in un posto che non
esisteva,
attaccato al nero dei ghirigori che ricordavano quelle decorazioni
antiche
nelle case borghesi.
Orologio
tondo che aveva scandito tutta la sua vita in un tempo che tempo non
era.
Più
tardi, Argus si trovava sempre negl'angoli più impensati di
Hogwarts a chiedere
agli studenti di insegnar lui qualche incantesimo per principianti. Era
sempre
lì a spiare le lezioni con le orecchie tese al muro, le mani
frementi di
mettere in pratica quanto sentito. Era sempre lì a
stringere, nella tasca
nascosta del suo logoro cappotto, il Grande Orologio n.3, che tanti
anni prima
aveva iniziato a scandire la sua vita secondo i ritmi del Mondo Magico,
in un
tempo che non era altro che un'eterna veglia sulla magia altrui.
Chissà
come sarebbe stato se, invece di essersi tenuto per sé il
n.3, avesse
conservato il n.4...
Fine
(?)
N/A
Un
paio di precisazioni, ecco.
Il
n.4 è, ovviamente, l’orologio “della
frusta e dei chiodi”, tipico comportamento
del Gazza della Rowling.
Il
mio What if è, dunque, “E se Gazza non fosse stato
tipo da frusta e chiodi?” xD
La
differenza d’età fra Gazza e Allock l’ho
inventata io (31 anni, per la
precisione), anche perché di materiale su quei due non ne ho
trovato.
I
vari “Padrone-Non-Padrone”,
“Campione-Non-Campione” ecc. non credo sia
propriamente inventato da me, anche perché capita di
sentirlo (no?), ma sempre
meglio specificare.
Che
dire, senza angst e auto-vietandomi la commedia è uscito
questo, che non so
esattamente come definire.
Oh,
ho vinto la scommessa con Macrì, per questo: ho scritto una
Gazza/Allock
introspettiva, leggermente triste che snobba la commedia. xD
Qui i risultati
del contest; inoltre vi consiglio
di visitare lo stesso forum: interessante sotto molti punti di vista e
senz'altro di alto calibro.
Love ya,
L-