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Autore: Kaspar Hauser    30/10/2014    1 recensioni
Una scomoda passeggiata in campagna, o un rito di passaggio? Il rifugio bianco è un luogo che abbiamo già cercato; ecco da cosa fuggivamo.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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In quei tempi, il bianco era l'utopia dell'uomo. Bianco come gli spazi vuoti dei testi, unico rifugio della mente dalle fitte pagine, oppressivamente sature di quelle scarne realtà da cui l'unica difesa era l'indifferenza. Bianco come le vesti che l'uomo indossava, brutte nella loro funzionalità, scomode e fastidiose nei loro futili orpelli, e tuttavia così indispensabili nella loro funzione di nascondere alla vista il corpo, quel corpo così vergognoso, così sporco. Persino il proprio stesso sguardo mortificava quel corpo; nasconderlo sempre era necessario, necessario quanto era necessario il lavoro, unico mezzo per avere parte alla distribuzione di tutti i beni, necessario quanto era necessaria la società, fuori dalla quale nessuno poteva sopravvivere. Era del tutto irrilevante se il problema, perché di certo c'era un problema, fosse insito nello sguardo o nel corpo, che pareva incarnare solamente quel grottesco, volto sbagliato del sublime. Il bianco era l'unico riparo della mente da quello strano terrore avito.

E lo sguardo si nascondeva nel bianco del cielo cinereo riflesso dai fossi, durante quell'odiosa processione. Le cose più terribili erano quell'ansia, quell'ambiguità,; così dovevano sentirsi i criminali, condotti da mani crudeli alla forca, e che ancora potevano essere salvati, già sul patibolo, dalla grazia della volgare folla, ma a cui molto meglio sarebbe parso essere ormai perduti, senza il tormento di quella tremenda speranza. Ma l'ansia e l'ambiguità non potevano non essere in quel cammino; erano ad esso legate come la cera alla corda della candela, che non è possibile che non vengano consumate se non insieme; e tutto ricadeva sull'unico uomo ch'era causa e centro della processione, e anzi erano i suoi accompagnatori, che già sapevano, la vera fonte dell'ansia e dell'ambiguità.

Essi camminavano attorno a lui, quasi come se cercassero di tenerlo d'occhio, di impedire che scappasse; eppure non sembravano prestare a ciò la minima attenzione, anzi l'uomo, se solo avesse tentato, sarebbe probabilmente riuscito ad andarsene tranquillamente. Ma egli non tentava. Non era forse lì di sua spontanea volontà? Non aveva forse scelto da solo di far parte di quella terribile processione? Forse era stato spinto dalla tradizione, dai consigli di chi gli stava vicino, ma di certo era stato lui, infine, a decidere: e proprio per questo non sarebbe mai andato via. Era quella consapevolezza della sua libera scelta a incatenarlo mille volte più che non un'esplicita costrizione. Se fosse stato solo, sarebbe forse stato ancora lì, a camminare verso un luogo ignoto, nel mezzo della campagna autunnale, cupa, fredda e umida? No, questo no di certo; ma tutte queste fantasie erano vane, anzi peggio, erano ridicole, infantili. Ormai lui era lì, e non era solo: queste erano le realtà dei fatti, e non potevano cambiare, e non potevano essere diverse.

Non era solo; non riusciva a ricordare un tempo in cui lo fosse stato. Anche se fisicamente era lontano dagli altri, anche se oggetti materiali lo proteggevano dai loro sguardi, essi erano sempre lì, nella sua testa. Non riusciva a impedirsi di pensare agli altri, a cosa avrebbero fatto, detto e pensato se fossero stati con lui; e non riusciva a liberarsi dal loro giudizio, terribilmente realistico anche se non reale, non riusciva a non censurare automaticamente qualsiasi cosa sapeva sarebbe stata disapprovata da loro. Perché lui doveva integrarsi, doveva conoscere, avere amici, essere popolare: questi erano imperativi che non necessitavano altri fini né alcuna motivazione. Egli aveva bisogno dell'approvazione degli altri, non poteva non pensare in base al loro giudizio; questo era giusto, così doveva essere. Anche quando era fisicamente solo, essi erano con lui, nella sua mente.

Ma adesso le loro presenze fisiche lo circondavano, ineluttabili. Forse era meglio così: forse, se gli amici lo controllavano da vicino, gli avrebbero impedito di fare cose sbagliate ancora prima che lui potesse anche solo tentarle; e così dopo non avrebbe dovuto soffrire della loro disapprovazione. L'uomo era l'inverso d'uno specchio: come uno specchio esiste solo quando riflette qualcosa, così l'uomo esisteva solo quando veniva riflesso da qualcosa. Costantemente qualcuno lo esaminava, lo giudicava in ogni suo minimo gesto, presente e passato; e senza questo ineluttabile giudizio, così terribile e opprimente, egli sapeva che sarebbe morto, avrebbe semplicemente cessato d'esistere. Perché ormai l'uomo non era altro che un involucro, era solo apparenza, e perciò doveva sempre guardare fuori da sé, doveva costantemente osservarsi riflesso nel giudizio di qualcun altro, per accertarsi d'esistere ancora. E distogliere lo sguardo, e volgerlo all'immenso vuoto oscuro che era dentro di lui, avrebbero significato la pazzia e il terrore più profondo. Lui non aveva scelto d'essere così; semplicemente non poteva evitarlo. E d'altronde, ciò era giusto, ciò era buono, perché era ciò di cui la società aveva bisogno. Quale membro d'una società è più utile di colui che annulla la propria interiorità nella massa e si autoimpone costantemente il più severo autocontrollo? E così, ormai non poteva più essere altrimenti.

I suoi accompagnatori, tuttavia, con lui sembravano liberi dal terrore del giudizio. Ma questo era ovvio: in una società i membri della quale sono solo vuoti involucri, gli unici rapporti interpersonali che possono esistere sono rapporti di potere; e il potere si stabilisce solo in base al giudizio, e a chi teme il giudizio di chi. Dunque quando uno teme il giudizio di un'altro implicitamente dà a questo il permesso di non curarsi affatto del suo giudizio, e riconosce la sua superiore potenza; ma d'altronde è necessario temere il giudizio di una persona, se si vogliono mantenere i rapporti amichevoli con essa... e l'uomo aveva tanto bisogno di rapporti amichevoli. Li supplicava, li elemosinava pietosamente; sapeva che questo stesso gesto era quello della sua condanna, che lui stesso si rendeva schiavo, ma non poteva fare niente per evitarlo. Ormai era così: per colui che non è interiorità, ma solamente involucro, cambiare questo involucro è praticamente impossibile, poiché significherebbe annullare tutto se stesso.

I suoi accompagnatori erano quattro. Essi camminavano attorno a lui, guidandolo, con calma e rilassatezza; ma in realtà sembravano nascondere una grandissima agitazione interna, che traspariva raramente dai rapidi gesti del collo e delle dita, e, cosa peggiore, era del tutto inspiegabile. Essi sapevano, non c'era dubbio. Tutti sapevano qual era la meta del loro scomodo viaggio, che cosa li avrebbe aspettati alla fine; l'unico a non sapere era l'uomo. Gli accompagnatori atteggiavano la loro bocca a mezzi sorrisi, che si sforzavano d'essere disinvolti, ed erano stranamente ironici. Ma a cos'era rivolta l'ironia? Ai loro stessi sorrisi, e all'atteggiamento tutto, che cercava di nascondere senza ben riuscirci la grande, misteriosa agitazione? O forse alla celata meta, come a sfatarla già prima di svelarla, poiché indegna di tutta la falsa solennità e di tutto il mistero. O forse -pensiero terribile!- l'ironia era rivolta all'uomo, alla preoccupazione che cercava di nascondere, ma doveva risultare evidente agli occhi di tutti, e dunque ridicola, perché non poteva essere che infantile e stolto angustiarsi tanto per una cosa così banale come una passeggiata in campagna.

Ma no, quella passeggiata aveva uno scopo ben preciso, non poteva essere altrimenti. Perché se no tutta quella solennità eterea e inafferrabile, che però traspariva ineluttabilmente da una sorta di rigidità nell'atteggiamento degli accompagnatori? E perché, perché nessuno parlava? Forse temevano di tradire il loro segreto se avessero cominciato a parlare? O semplicemente volevano che l'atmosfera mantenesse quella strana, scomoda solennità, e temevano di rovinarla, se avessero pronunciato anche una sola sillaba? Ma a che pro indurre all'uomo tanta agitazione? Forse tutto non era altro che un raffinatissimo scherzo? Forse, dopo aver camminato qualche chilometro -o, chissà, anche tutta la notte, o finché lui non avrebbe chiesto qualcosa, quindi per molto più tempo- gli avrebbero semplicemente detto che si era trattato solo d'una burla, che ora sarebbero tornati indietro ridendo e scherzando? Ma proprio per questo lui non poteva chiedere niente, o avrebbe dato l'impressione esplicita di essere preoccupato sullo scopo della passeggiata, e dunque sarebbe caduto nello scherzo. Meglio allora continuare a camminare, e tacere.

La campagna era fredda, rigida e bagnata in ogni angolo, in ogni interstizio. Dava l'impressione di essere un cadavere, un'unica grande creatura organica in ormai avanzato stato di decomposizione. Tutto il cielo era occupato da una sterminata coltre di nubi bianche, immobili e uniformi; e la luce del sole, filtrata da quelle nuvole, appariva pallida e smorta, e copriva tutti gli oggetti come un lurido sudario polveroso, rubando loro il poco colore che ancora rimaneva. Tutto era piatto. Solo, a un lato della strada, cresceva un cipresso mal curato e piegato dal vento, che sembrava sorgere come un dito levato verso il cielo. Cosa indicavi, cipresso? Il tuo era forse un gesto d'accusa contro il sole insensibile e remoto, contro l'intero cosmo, o contro Dio, il tiranno responsabile di quell'esistenza, che altro non era se non l'obbligo di soffrire? O forse stavi indicando il cielo, oltre le orribili nuvole, in un pietrificato gesto di terrore? Cosa vedevi laggiù? Era forse giunto il brulicante orrore che si nascondeva fra le stelle nel suo sonno di morte, preparandosi a portare la distruzione con la sua cosmica coscienza di sogno? Ma no, così ci sarebbe almeno stata la consolazione dell'annientamento cosciente, dello scopo. Forse era proprio quel nulla interstellare che ti spaventava, quell'immenso vuoto insensato pronto ad assorbire un giorno nella sua cava mole infinita ogni piccola affermazione d'umanità, ogni principio, ogni futile desiderio, ogni emozione? L'utopia dell'asetticità era tutto ciò che rimaneva a quel mondo scomodo e disgustoso.

Quel cielo, quel cielo pallido e morto, era la prova più valida del fatto che non esiste dio alcuno. Ed infine il viaggio ebbe termine. Quella fu la parte più angosciante. A un lato della strada, distante, come isolato al centro dell'orizzonte piatto, stava un capannone vuoto e scrostato, con le finestre buie, che giaceva come una grande bestia malata, morta o addormentata. Si stagliava dove il cielo era ancora più chiaro come una squadrata e minacciosa macchia nera, così da essere ben visibile già da lontano. L'uomo avrebbe voluto che non fosse così; avrebbe voluto che gli comparisse davanti all'improvviso, pur di non dover soffrire quel senso d'attesa, quella trepidazione. La cosa peggiore, però, era non sapere se quella fosse o no la meta del viaggio. Ma forse saperlo per certo sarebbe stato ancora più terribile. Una parte di lui desiderava che quel brutto e inquietante capannone non fosse la loro meta. Quale sollievo sarebbe stato passarci accanto e superarlo, lasciarlo alle spalle! Ma d'altronde ciò avrebbe significato che il viaggio non era ancora finito, che forse c'era ancora tanta strada da fare, in quella scomoda e orribile campagna, e un'altra parte di lui sperava così solo di arrivare a destinazione il prima possibile, qualunque essa fosse. Ma se ciò che seguiva il giungere a destinazione fosse stato ancora ben più terribile del viaggio? Allora forse era meglio continuare a viaggiare ancora, per sempre, senza avere mai pace, pur di non fare i conti col futuro. L'uomo si trovava così stretto fra due orrori, fra i quali non sapeva decidersi, e che dunque gli pesavano entrambi addosso; e il peggio era che la scelta non toccava neanche a lui, era già stata decisa, e lui ne sarebbe rimasto nell'ignoranza fino a un momento prima della fine. Ma ormai si erano avvicinati, non rallentavano, continuavano a camminare. Allora non era quella la meta, l'uomo poteva tirare un sospiro di sollievo, e prepararsi ad affrontare di nuovo la stessa angoscia al prossimo edificio. Ma no, un attimo prima di superare il capannone gli accompagnatori, conducendo con loro l'uomo, curvarono e in pochi passi furono davanti ad esso. La porta, composta di vetri opachi e sporchi, era aperta; l'interno era in penombra, e non si poteva vedere bene, ma appena entrati uno degli accompagnatori spinse un interruttore, che scattò con uno schiocco secco.

La luce malata, accendendosi a scatti e rantoli, illuminò una scena scabrosa e incomprensibile. L'interno del capannone era completamente vuoto, le pareti erano luride e scrostate tanto da aver perso il loro originario colore bianco, e al centro della grande e fredda stanza c'era un tavolaccio di legno, solido e pieno di schegge. Nell'aria gelida e ricca di polvere sembrava di soffocare come sott'acqua, intrappolati sotto il ghiaccio della coscienza. E sul tavolo c'era uno strano oggetto. Era di un colore singolare, un misto di rosa e arancione slavato, un po' grigio, ma irregolare, in modo che alcune zone fossero più rosse, altre quasi bianche, ma mai del tutto; sembrava in qualche modo organico, eppure non era una creatura, ed era completamente immobile e freddo. Aveva una forma tondeggiante, simile ad un sacco gonfio, ed era lungo poco più di trenta centimetri. La sua superficie era in qualche modo simile alla gomma, pareva vellutata, ma al contempo irregolare, fredda e scabrosa. E al centro, verso l'alto, c'era un lungo e stretto taglio, una fenditura verticale che sembrava far parte dell'oggetto sin dall'inizio. Era un po' rigonfia alle estremità, lunga circa dodici centimetri, e curvava dolcemente verso l'interno, ricoperto, per quel poco che si poteva vedere, da una pelle uguale a quella esteriore, ma più soffice e più ricca di irregolarità simili a collinette.

I quattro accompagnatori si disposero attorno al tavolo a ventaglio, in modo da guardare tutti verso l'uomo. I loro sguardi parevano contemporaneamente soddisfatti e trepidanti, e sembravano schernirlo e incoraggiarlo nel medesimo istante, come se fossero già pronti a godere del suo fallimento, ma non volessero farglielo capire. Le loro bocche erano ancora atteggiate a quei mezzi sorrisi accennanti e incomprensibili, come di complicità. Ma complicità con chi? Fra loro, o con l'uomo? Questi non riusciva in alcun modo a capire che cosa dovesse fare, e tutti sembravano attendere che lui facesse qualcosa, ma lui non poteva chiedere consiglio, o sarebbe passato per stupido, che era ciò che più egli cercava di evitare. Cosa doveva fare con quello strano oggetto? Egli continuò a guardarlo, tenendosene un po' discosto, e ad un tratto gli ispirò un senso di disgusto quasi insopportabile. Pretendevano forse che lo toccasse? Sentiva di non essere in grado di fare una cosa del genere. Lo schifo che quella cosa gli ispirava rasentava il terrore, era del tutto irrazionale, ma egli non si chiedeva neanche che cosa lo provocasse. C'era, e ciò era sufficiente. Ad un tratto l'oggetto gli parve simile ad un pollo crudo e spennato a cui fossero stati tagliati ali, zampe e testa; questo pensiero glie lo rese ancora più ributtante, ma si accompagnò a una inquietante intuizione. Forse volevano che lo mangiasse? Sentiva che solo avvicinandolo alla bocca avrebbe vomitato; in più sembrava duro e compatto, ben difficile da fare a pezzi a morsi. Gli pareva ora certo che quel corpo rigonfio contenesse degli organi, delle interiora che sarebbero fuoriuscite mostrando le loro appendici disgustose. Eppure non c'era sangue: la cosa ne sembrava del tutto priva, come prosciugata. Forse era essa stessa un organo; di certo, aveva tutto l'aspetto di qualcosa di morto, e morto da tempo. Non c'era su essa nessuna traccia di decomposizione, e l'odore nell'aria fredda nulla rivelava, ma l'impressione rimaneva. Gli sguardi degli accompagnatori lo fissavano, lo sentiva, e non riusciva a ricambiarli. Tutti erano delusi e spazientiti, non poteva essere che così. Ma perché non gli dicevano cosa volevano? Lui l'avrebbe fatto qualsiasi cosa fosse, qualsiasi cosa pur di far finire quell'incertezza e quell'imbarazzo insopportabili, pur di poter poi tornare a casa, rintanarsi a soffrire in pace per quei momenti scabrosi e umilianti. Ma tutti si limitavano a fissarlo, delusi, quasi divertiti dalla sua ignoranza e inettitudine. Lo fissavano, e tacevano. E al centro della scena c'era quella cosa, sul tavolo, ad aspettarlo. La cosa, realizzò d'un tratto, sembrava essere un utero umano; ma era troppo grande, innaturalmente grande. Forse era generato in laboratorio, frutto di un esperimento? Ma chi poteva aver creato quell'orrore? No, era impossibile che quello fosse davvero ciò che sembrava.

E poi, ad un tratto, finalmente capì ciò che gli altri si aspettavano che lui facesse con quella cosa, ed era un pensiero ben più disgustoso di tutti quelli che aveva avuto in precedenza, e lo riempì di orrore.

   
 
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