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Autore: StuckInTheFairyTaleWorld    31/10/2014    8 recensioni
Nei momenti in cui dobbiamo prendere decisioni importanti, la nostra mente elabora un complesso alternarsi di motivazioni per cui dovremmo dire di sì e di ragioni più che plausibili per cui dovremmo fare l'opposto. E intanto la nostra memoria è attraversata da ricordi, più o meno positivi o negativi, in un intricato complesso che si identifica in nient'altro che la coscienza, piena di dubbi e di ripensamenti, insidiosa e fastidiosa.
E proprio questo è il caso di Christopher, bloccato nell'attimo più delicato nella sua vita: una domanda molto semplice e la cui risposta non lo è affatto.
Storia partecipante al contest organizzato dal gruppo "EFP - We're Nothing Without Music"
Genere: Malinconico, Romantico, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Storia partecipante al contest organizzato dal gruppo "EFP - We're Nothing Without Music"
La canzone a cui mi sono ispirata è "Young and beautiful" di Lana Del Rey. Ne ho modificato alcune parti, per renderle più adatte alla storia, ma non ci sono cambi eclatanti del testo.
La storia è piuttosto semplice, ma spero davvero che possa piacervi. Quindi...buona lettura a tutti! ^^






“La coscienza è il caos delle chimere, delle cupidigie e dei tentativi,
la fornace dei sogni, l’antro delle idee di cui si ha vergogna; è il pandemonio dei sofismi,
è il campo di battaglia delle passioni. Penetrate, in certe ore, attraverso la faccia livida d’un uomo
che sta riflettendo, guardate in quell’anima, in quell’oscurità; sotto il silenzio esteriore, vi sono combattimenti di
giganti come in Omero, mischie di dragoni ed idre e nugoli di fantasmi, come in Milton, visioni ultraterrene
come in Dante. Oh, qual abisso è mai quest’infinito che ogni uom porta in sé e col quale confronta
disperatamente la volontà del cervello e gli atti della vita!”
-Victor Hugo-




“Hai girato il mondo, hai fatto e avuto tutto. Diamanti, brillanti, ogni ricchezza. Quelle notti di metà luglio, quando tu e lei eravate per sempre selvaggi. O le giornate folli, le luci della città e il modo in cui giocavi con lei come se fosse una bambina.


La mente di Christopher non era là, in quel luogo o in quel momento. Vagava lontana miglia e miglia da quella chiesa in mattoni grigi, stretti nella morsa di un’edera invadente. Svolazzava in tempi passati, in un preciso istante che non avrebbe potuto in alcun modo svanire dalla sua memoria.
La sabbia che si inseriva fastidiosa tra le sue dita, il suono delle onde che si ripeteva monotono, le luci lontane che riflettevano la vita notturna di una città sfrenata.
La sua mente riusciva a riprodurre tutto questo, accompagnata dal flebile suono di quella vocina che vi rimbombava dentro. Una parlata sicura, che avrebbe confuso e riempito di dubbi chiunque; anche il più forte degli esseri umani.
 Rivedeva la schiena nuda di Elizabeth, il suo viso voltato verso di lui, gli occhi azzurri ad indagare il perché della sua immobilità. Le spalle della ragazza fremevano all’eccitazione di quel gesto avventato, mentre i capelli scuri e scompigliati ondeggiavano sotto la forza del vento invernale.
Lui, invece, se ne stava fermo a congelarsi, incapace di muovere un solo passo verso quella loro piccola avventura consistente in un bagno gelato; non perché ci avesse ripensato, erano semplicemente le sue capacità mentali ad essere bloccate dalla vista di quella pelle scoperta, priva di ogni indumento, come mai gli era capitato di vederla.
Elizabeth aveva sbuffato, si era voltata ed era corsa in acqua, mandando al diavolo il desiderio di compiere quel tuffo insieme a lui. Chris, dal canto suo, non aveva potuto biasimarla, sentendosi più cretino di quanto dovesse realmente apparire alla ragazza.
In fondo, era stato con migliaia di ragazze prima di lei, aveva visto la prima donna nuda a cinque anni e avuto la sua prima volta a dodici. E allora perché adesso si stava comportando come un ragazzino inesperto? O, anzi, sarebbe meglio dire: perché il suo corpo si stava comportando come quello di un ragazzino senza nessuna esperienza?
Forse perché lei era bellissima, perché lei era rimasta stupenda anche quando, tremante e grondante acqua, si era lanciata tra le sue braccia calde, dimentica dell’arrabbiatura per non averla accompagnata in quel gesto pazzo.
Lei era bellissima; su questo non c’erano dubbi.


“La amerai lo stesso quando non sarà più giovane e bella? La amerai lo stesso quando non avrà nient’altro che la sua anima dolorante? La amerai lo stesso quando non sarà più bella?”


La voce continuava insistente, come a voler smentire ogni immagine che si prospettava alla memoria del ragazzo, quasi a voler cancellare ogni sua convinzione.
Adesso il ricordo era più buio, quasi nero, se avesse voluto esagerare.
Una luce al neon traballante, la metropolitana che tardava ad arrivare e il cui passaggio sarebbe stato comunque ignorato, tanta era la rabbia che riempiva parole ed espressione della ragazza. Gli occhi pieni di un guizzo ribelle e disperato e il corpo tremante per il furore, quest’ultima non avrebbe rinunciato ad aggredire Christopher neppure se ciò avesse comportato non tornare a casa prima delle sei del mattino.
Non era stata colpa sua, non era assolutamente stato Chris a decidere che lo spacciatore si facesse arrestare proprio quel giorno, proprio nel giorno esatto in cui Elizabeth necessitava di una dose; e anche piuttosto consistente, a considerare dalle condizioni del suo corpo, sconvolto da tremiti convulsi ogniqualvolta la sua agitazione lasciava spazio ai sintomi dell’astinenza da eroina.
E intanto gridava; urlava e piangeva, alternando pugni sul petto del ragazzo ad abbracci spontanei, che rivelavano la sua necessità di supporto, il suo bisogno di essere tirata fuori da tutto quello schifo che era la sua vita.
Il suo viso bianco era rigato dal mascara nero, che colava inesorabile sulla purezza di un’adolescenza bruciata da una madre poco presente e da un padre dipendente dall’alcol, più di quanto lo fosse stata a causa della droga e di tutto il resto.
La sua faccia si contorceva sotto l’irruenza del pianto isterico, rendendo i suoi occhi due fessure e le sue labbra simili a carta appallottolata, da buttare nel cestino più vicino.
Ma lei era bella, lo era quando si avvinghiava perfino con le unghie alle sue braccia; era stupenda quando gli gridava contro insulti che non credeva potessero esistere.
Era bellissima, a rimproverarlo e ad amarlo più che mai.


“Hai visto il mondo, l’hai illuminato come fosse il tuo palco. Quelle calde giornate d’estate, il rock’n’roll; il modo in cui suonavi per lei durante il tuo show e tutti i modi in cui hai conosciuto il suo bel viso e la sua anima elettrica”


Che la voce volesse fare un confronto? Che stesse cercando di portarlo all’apice della contentezza per poi mostrargli che tutti gli attimi di gioia erano inconsistenti davanti a quelli di dolore e tristezza?
Poteva anche essere, ma ciò non significava che lui gliel’avrebbe data vinta o che avrebbe mai ammesso a lei, e quindi a se stesso, che quella che voleva propugnarli era la verità; perché non lo era, e lui lo sapeva. Non poteva esserlo se ripensava a quella serata, a quella canzone e alla prima volta in cui aveva potuto concretamente affermare di averla posseduta, anche se solo per poche ore.
Christopher sapeva di aver stonato alcune note; era a conoscenza di avergli dedicato una canzone smielata e di aver stonato nel ritornello, certo. Tuttavia, a quanto pareva, Elizabeth non doveva essersene accorta, nemmeno quando una ragazzina aveva ridacchiato per l’errore.
Probabilmente la sua testa era concentrata su altro: il gesto romantico e “non da Christopher McClair”, le proprie lacrime incastonate negli occhi, oppure le labbra contratte nel tentativo di non cedere alla smorfia tipica dei momenti in cui si commuoveva.
Quando la musica era finita, il cantante alle prime armi era scomparso dal palco, trascinato da un braccio esile quanto pieno di forza. Si era ritrovato sul sedile posteriore di un vecchio taxi, sporco e maleodorante, tanto da fargli adorare lo scompiglio della propria casa, dove il mezzo li aveva accompagnati.
Elizabeth aveva gentilmente ignorato i piatti sporchi ornati da residui di cibo e voltato la testa davanti a paia e paia di mutande abbandonate ai lati di quella che doveva essere una cesta dei panni sporchi. Chris non aveva mai avuto modo di ringraziarla, ma le era davvero riconoscente per non aver preso in considerazione quei dettagli e per essersi concessa a lui, nonostante tutto.
Eppure, non ricordava minimamente come fosse andata, o, perlomeno, come fosse stato sentirla gridare di piacere per i suoi movimenti studiati ed esperti. Non ricordava niente di tutto questo, nemmeno un singolo secondo di quella che era stata la prima di tante notti di sesso.
Il suo nasetto leggermente all’insù, le sue sopracciglia forse un po’ troppo spesse, le sue labbra sottili e le fossette agli angoli della bocca: gli unici dettagli impressi nella sua memoria, vividi come lo erano stati quel mattino, mentre, allontanando l’impetuosità della notte, aveva avuto modo di soffermarsi sulla donna che amava; che in quel momento si era accorto di amare, per la precisione.
Ed era bellissima, più di quanto lo sarebbe potuta essere qualsiasi creatura angelica o divina.


“La amerai lo stesso quando non sarà più giovane e bella? La amerai lo stesso quando non avrà nient’altro che la sua anima dolorante? La amerai lo stesso quando non sarà più bella?”


Le dita corsero veloci a torturare la cravatta, in un’immediata preoccupazione che fosse al posto sbagliato o che si fosse spiegazzata in qualche maniera invisibile agli occhi.
In realtà, era solo un movimento impulsivo, teso più a nascondere il nervosismo di quell’attimo decisivo, indirizzato a scacciare con violenza un nuovo ricordo, che portava con sé un’altra sofferenza, ancora più dolorosa della precedente.
La porta di casa accostata, evidentemente non come l’aveva lasciata prima di uscire per recarsi al night club in cui lavorava. Doveva decidersi ad aggiustarla, dato che, sebbene non tenesse niente di valore in quel minuscolo appartamento, l’idea che qualcuno ci curiosasse dentro non lo elettrizzava minimamente.
Fece pressione con la spalla sul rettangolo di legno dalla vernice scrostata in più punti, le mani troppo impegnate a sorreggere il cartone della pizza calda che sarebbe stata il suo spuntino-cena di mezzanotte.
Nessuna luce: “Bene” pensò confortato “perlomeno so che non mi ritroverò strana gente in casa”.
Almeno in parte si sbagliava, ed ebbe modo di accorgersene non appena giunto in salotto, quando scorse il profilo di una figura nera che si stagliava con perfetta armonia contro il blu scuro del cielo notturno, punteggiato da sprazzi di stelle.
Una sigaretta in bilico tra le dita, Elizabeth se ne stava con lo sguardo fisso oltre il davanzale, a fissare un mondo che si muoveva senza coinvolgerla, tenendola lontana da tutto quel trambusto, estranea dalla sua stessa realtà.
Chris non riusciva a distinguerne nemmeno i lineamenti, ma sapeva con esattezza che il suo viso doveva essere privo di espressione, con il trucco sbavato e gli occhi riflettenti tutte le stelle del cielo nella loro luminosità. Era sempre così quando la trovava nel suo appartamento, senza che lo avesse precedentemente avvertito; era sempre in lacrime e distrutta quando la trovava appoggiata a quel davanzale.
L’unica cosa ancora da definire era cosa fosse successo questa volta, ma anche questa informazione non tardò a manifestarsi, senza neanche essere richiesta. «Mi hanno cacciata di casa, perché sono una drogata e un’alcolista o alcolizzata- non ne so nemmeno la differenza, in realtà, ma poco conta.»
Christopher non aveva risposto, nessuna parola, che, di fatto, sarebbe stata del tutto inutile e non necessaria. L’aveva semplicemente tenuta stretta tra le braccia, con la tacita promessa di entrambi di smetterla con quella merda, di dimostrare al resto del mondo che loro potevano sopravvivere anche senza la dose successiva, che loro ce l’avrebbero fatta a superare tutto, insieme.
E Liz era bellissima, dannatamente perfetta. Christopher lo sapeva che non sarebbe potuto essere altrimenti; anche con una maschera di trucco distrutta, con il fiato imbruttito dal fumo e con gli occhi alterati dagli stupefacenti, quella ragazza era l’essere più bello e prezioso che esistesse su tutta la Terra.


“Ti ricordi ancora quando pregava Dio? Quando gli chiedeva di lasciare che ti portasse con lei in Paradiso? Come sperava che Dio potesse permetterti di entrare là e di raggiungerla? Quanto ti odiava e quanto, allo stesso tempo, non riuscisse a smetterla di pensare alla tua grazia, al tuo corpo o al tuo viso che le faceva venire un’insana voglia di festeggiare?.”


Gli occhi di tutti puntati sulla sua nuca, sulle sue guance, nelle sue iridi. Bruciavano, con la stessa intensità delle fiamme dell’inferno. Eppure lui non poteva sentirli, perso com’era nell’amarezza di un’altra memoria, la più brutta che avesse della sua vita.
Odiava gli ospedali, li aveva sempre odiati con tutto il cuore. Odiava le persone malate, odiava i parenti che piangevano come dei deficienti e odiava i dottori che non facevano che correre avanti e indietro. Era là soltanto perché vi ci si trovava anche Elizabeth, per giunta a causa sua, almeno in parte.
In realtà, lui non c’entrava proprio niente e non era stata colpa sua se la ragazza aveva deciso di violare il loro accordo. Che responsabilità poteva avere lui del fatto che Liz si fosse riempita fino a scoppiare di Rum e di ogni tipo di droga presente in quella discoteca?
Tuttavia il senso di colpa non se ne andava, persisteva imperturbato davanti alla ragazza che continuava a sputargli addosso le sue colpe, che insisteva nel ricordargli che era stato lui a portarla in quel posto e che dipendeva anche da lui il fatto che adesso si trovasse in quella stanza orribile e bianca, il colore che più detestava al mondo.
Scampata da un’overdose quasi fatale, Elizabeth non aveva perso la sua vivacità e il suo vigore, a discapito del povero Christopher, che non poteva far altro che ringraziare un Dio in cui aveva smesso di credere da un bel po,  per avergli permesso di avere la ragazza ancora lì con sé, sulla Terra e lontana dalla morte.
Lei, invece, in quel Dio ci credeva e non smetteva un attimo di invocarlo, citando anche la morte che sentiva imminente sulla sua testa. E alle offese più disparate rivolte al ragazzo aggiungeva le preghiere più sincere che Chris avesse mai sentito. Altro che “rendimi forte” o “aiuta i miei cari”, il “fai morire anche lui e fa che venga con me in Paradiso” di Elizabeth era tutt’altra cosa; soprattutto se si pensa che lui il Paradiso non se lo meritava affatto, non dopo tutti i casini che aveva combinato in vita.
Ma Christopher sorrideva, assaporando il dolore di una ragazza che avrebbe voluto smettere di amarlo e che, allo stesso tempo, sapeva bene che non ci sarebbe mai riuscita. Non per cattiveria, non lo faceva con l’arroganza con cui aveva desiderato spezzare il cuore ad ogni essere vivente di sesso femminile esistente.
Questa volta si trattava d’altro, riguardava i sentimenti e la consapevolezza di non poter sopravvivere senza quella figurina fragile che adesso gli stava rivolgendo la più favolosa ramanzina che avesse mai sentito. E il problema più grande era che lui era felice di riceverla, di venire rimproverato e offeso per qualcosa che non aveva fatto. Era sereno davanti a quello sfogo, che era al momento stesso la più profonda confessione d’amore di sempre.
Aveva smesso di ascoltarla e l’aveva baciata, ricevendo in cambio nient’altro che un doloroso morso sulle labbra. Non aveva mugolato o messo il broncio, limitandosi ad indietreggiare con uno sguardo vagamente malizioso, mentre gli occhi di lei lo guardavano con una tenerezza malcelata e una rabbia pressoché svanita, tanto che Chris non riuscì a trattenere un sorrisetto soddisfatto.
Come biasimarlo? Aveva avuto paura, tantissima paura. Di perderla; di rimanere solo ad affrontare ostacoli che non avrebbero fatto altro che farlo inciampare; di non aver più qualcuno con cui dividere una pizza o delle coperte spiegazzate di un letto devastato dai ricordi di una passione passata da poco. Vederla così, sana e capace di rimproverarlo come lo era sempre stata, era un sollievo, una boccata d’aria dopo una nottata passata senza respirare, nel timore che farlo non avrebbe fatto che lasciarlo vivo in un mondo che non aveva più spazio per lei.
Per quello era stato il giorno più orribile della sua vita, non per i rimproveri, non per le grida o per il morso sulle labbra; o i morsi, se si considerano quelli che ricevette quando provò e riprovò ancora a baciarla.
Realizzare che quegli attimi erano stati orribili solo per il terrore di non poterla più avere al proprio fianco, fu per Chris il dissolversi di ogni dubbio, la completa realizzazione che quella che stava per prendere era la decisione giusta. Perché Elizabeth era bella, solo questo, bella.
Non doveva essere posta alcuna motivazione a questa affermazione, perché era così e l’importante era che Christopher McClair lo sapesse; che lui sapesse che lei sarebbe stata bella anche con centinaia di rughe e una voce roca e detestabile; che lei sarebbe stata bella anche con la scomparsa della camminata sensuale che le era tipica, o con gli improperi da signora di una certa età, che sicuramente non sarebbero mancati.
La sua Liz era bellissima, lo era dentro, fuori, sui bordi e in ogni punto del suo essere. Era bella e punto, niente da aggiungere, niente da spiegare.


“Sei sempre stato il suo sole, sei tuttora l’unica cosa che possa farla brillare, nonostante tutto. La amerai lo stesso quando non sarà più giovane e bella? La amerai lo stesso quando non avrà nient’altro che la sua anima dolorante? La amerai lo stesso quando non sarà più bella?”


Anche gli occhi di Elizabeth raggiunsero i suoi, indagando sul perché di quell’esitazione, che si stava ormai prolungando per minuti infiniti. Nel suo sguardo c’era una punta di preoccupazione, unita ad ansia e a tanta voglia di tirargli un calcio sul posteriore se avesse combinato un casino a cui non aveva voglia di rimediare.
Il ragazzo spostò l’attenzione sugli spettatori di quella cerimonia, deglutendo evidentemente quando i suoi occhi incrociarono quelli della madre di Elizabeth, così languidi e distaccati, tanto che quelli di una rana sarebbero stati più espressivi. Tuttavia, servirono a riportarlo alla realtà, alla comprensione di non poter più sfuggire a quel momento, che era lui stesso ad essersi cercato.
Rintrecciò lo sguardo con quello della ragazza che aveva amato più di qualsiasi cosa e lasciò che, ancora una volta, le loro diverse tonalità di azzurro cadessero l’una dentro l’altra. E fu in quel preciso istante che arrivò la decisione, la sicurezza che il “sì”fosse l’unica risposta che poteva essere data a tutte le domande che gli venivano poste in quel momento.
Era ovvio che lui fosse l’unica cosa che facesse risplendere Elizabeth, la sola persona che era realmente in grado di toglierla dall’oscuro abisso della vita, per portarla in un universo che era solo il loro, a cui potevano accedere soltanto insieme. Lei aveva bisogno di lui, come lui ne aveva di lei, e questo era un fatto innegabile. Lo era quasi quanto quello che lei fosse bella e che, almeno ai suoi occhi, lo sarebbe stata per sempre, rughe o non rughe, seno cadente e capelli bianchi e candidi come la neve.
Quel “sì” scivolò dalle sue labbra come avrebbe fatto su una chiazza d’olio. Le reazioni degli altri furono istantanee, ma a chi avrebbe potuto interessare quando le labbra di Elizabeth si trovavano sulle sue, intrecciate alle sue? Quel tenue sapore amaro di rossetto, accompagnato dall’aroma di arancia del suo usuale profumo, si confuse con i pensieri, vinse la sua coscienza e qualsiasi altra cosa stesse regnando e parlando nella sua mente.
Lui non aveva fatto alcun male a Liz, loro si erano migliorati a vicenda, con l’amore e ancor di più con la pazienza. Avevano superato crisi, allontanato i problemi di adolescenti difficoltosi e la seccatura di famiglie che non facevano che danneggiarli.
Loro avevano vinto, trionfato sul mare sconfinato della vita, trovando la giusta rotta tra le onde tempestose. E adesso stavano navigando su mari tranquilli; almeno per quel giorno, almeno per un paio d’ore, le loro esistenze non sarebbero state scombussolate dall’impeto casuale dei venti del Nord. Per qualche attimo avrebbero potuto godere della serenità e di un cielo soleggiato, come mai era loro capitato di vederlo in tutti i lunghi anni che si erano lasciati alle spalle.
Christopher lo sapeva, di aver fatto la scelta giusta, di aver fatto bene a smorzare la vocina dentro di sé, di non aver sbagliato a lottare contro se stesso, per ottenere ciò che realmente desiderava e necessitava. Lo sapeva, come sapeva che l’avrebbe amata per sempre, nonostante la droga, nonostante l’alcol e le sigarette, che adesso non c’erano più, ma che sarebbero comunque potuti tornare.
L’avrebbe amata, e al diavolo il mascara sbavato, i capelli arruffati e gli occhi arrossati dal pianto. Erano solo cose futili, le cadute da cui l’avrebbe aiutata a rialzarsi, i colpi da cui l’avrebbe protetta e curata, nel caso non fosse riuscito ad evitarli.
L’avrebbe amata per sempre e di questo era consapevole.
«So che lo farai.»
La voce di Elizabeth colpì il suo orecchio destro in un sussurro, con la tranquillità di una ragazza finalmente felice.
«Farò cosa?»
«Mi amerai, finché morte non ci separi. So che lo farai.»


“Sì, so anche io che lo farai, Chris. La amerai, anche quando non sarà più giovane e bella, io so che lo farai.”
   
 
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