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Autore: BookMovieDreamer    31/10/2014    1 recensioni
l'altra faccia dell'amore.
Genere: Dark, Drammatico, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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~~Quindici anni e una vita piena di sogni.
Venti anni e un amore con cui condividerli.
Poi sono cresciuta.
Ho aperto gli occhi e mi sono accorta che il mondo fa schifo.
Non che non lo sapessi già.
Grassa, brutta e residente in... meglio non usare il gergo locale. Mi limiterò a dire, nel bel mezzo del nulla.
Oh, comprendo che che una ragazza che non si sente bella è un cliché, ma io lo sono veramente.
Non ci posso far niente. Ho imparato ad accettarlo tanto tempo fa.
Ormai sono vecchia, molto vecchia, e riesco a guardare con occhio critico la mia vita.
Non dirò che è stata perfetta che se con qualche incertezza. Non dirò che non cambierei nulla di quello che ho fatto, che non mi pento i nulla perché è una bugia.
Mi pento, cambierei tutto, ed è stata un incubo.
Ciò non nega che non ci siano lati positivi : i miei figli.
Che si sono dimenticati della loro vecchia madre ormai. 

Sono nata in Macedonia. Sono Macedone tutt'ora.
Ho trascorso una vita frustrata in una cittadina in cui l'acqua, mancava a periodi di tempo indeterminato, e no non porto il velo ma mia mare sì. Sono mussulmana non araba.
Ero un idiota. Ho cominciato con l'adolescenza ovviamente, quando il gene dell'idiozia si risveglia in noi. Ero frustrata col mondo, e a ragione purtroppo. Nella mia scuola c'era una minoranza di donne, soprattutto donne di origine albanese. Io non parlo macedone ma albanese, o meglio ora le parlo tutte e due ma è molto complicato a capire.
In macedonia ci sono i macedoni che parlano macedone e non sono mussulmani, poi ci siamo noi, gli albanesi.
Senza patria. Ne di qua me di la.
Essendo una minoranza la discriminazione era più che all'orine del giorno. Studiavo come una matta per una lurida sufficienza. Per anni ho passato le giornate chiedendomi se avrei 'avvero avuto un futuro diverso dallo sposarmi e fare da cameriera al resto della mia famiglia acquisita.
Sognavo l'università. Sognavo un titolo. Ma non ero nessuno, e mio pare non poteva darmi una mano. Lui era in Germania. Emigrato per garantirci un futuro migliore.
Eravamo tutti degli illusi.
Non persi mai la speranza, e mi iscrissi ai più vari corsi esistenti. Informatica, lingue. Tanti pezzi i carta che avevano una valenza.
Poi, dopo l'inizio della guerra, la mia migliore amica con cui avevo condiviso bulimia e compiti in classe, mi presentò il cugino, venuto alla Bosnia, a quel tempo si chiamava Jugoslavia. Un giovane rockettaro piegato dalla guerra e al dolore, annebbiato dall'alcol, con i capelli lunghi più dei miei e che non spiccicava una sola parola i albanese.
Un anno dopo ci sposammo.
Era tutto perfetto. Era tutto un sogno. Era tutto un programma, i viaggi, i vita con la V maiuscola. Prima tappa Italia.
Lì cominciò il vero sogno. Un incubo.
Dopo un matrimonio culturale non valido legalmente come scoprii solo molti anni dopo, nel 1996, a vent'anni, e con il pancione, il mio dolce maritino, mi convinse a salire a bordo della macchina dei suoi amici, per attraversare le Alpi e arrivare in Italia, lui avrebbe preso un altra strada.
Accettai. Cos'altro potevo fare. Durante quel buio viaggio tra i monti con la nausea che mi saliva alle orecchie, i dubbi divennero i migliori amici della mia emicrania.
Non conoscevo neanche quelle persone, e qualcosa mi diceva che non li conosceva neanche Lui.
Mi costrinsi a calmarmi. Mi costrinsi ad addormentarmi, non potevo mostrarmi debole e lacrimate davanti a gente che avrebbe potuto benissimo vendere me e il feto, a dei trafficanti i organi. Le possibilità che questo accadesse erano vergognosamente alte.
Verso l'alba, l'autista ci fece scendere tutti. In mezzo al bosco. In inverno. Aveva paura del blocco stradale. Lì sola, il pensiero i mio figlio mi tenne attiva, non mi lasciò andare, e con la speranza i un utopica Roma, affrontai il freddo dei fantasmi dei raggi del sole ostacolati dai rami degli alberi, le stesse fruste che il mio corpo non dimenticherà mai.
Beata speranza che trova dimora nel cuore dei giovani. Beata che sei il loro salvagente, il loro schermo protettivo per la realtà. Filtri il male e permetti di sognare.
Non racconterà mai come sono riuscita a sopravvivere, perché si si trattava di sopravvivenza. Posso soltanto dire che non miravo alla mia i vita ma alla sua
Ottant'anni suonati e ricordo ancora perfettamente quella notte nei boschi.
La paura che provai fu così forte, che credevo di averle viste, tutte che il peggio era passato.
Quello era solo il prologo.

Calma e sangue freddo.
Calma e sangue freddo.
Tutto si sistemerà.
Questo era il motto che mi ripetevo un giorno si e l'altro pure per conservare la sanità mentale, in quel manicomio in cui “abitavo”.
Dopo esserci ricongiunti miracolosamente, mi condusse verso quella che lui chiamò casa nostra.
Roma, la città delle città. La Caput mundi. Bellissima e imponente.
La odio con tutta me stessa.
La nostra casa era la casa di sua mare. Abitata dalla proprietaria e dalla figlia. Credevo che la fortuna si prendesse beffa egli uomini ignari ella sua potenza, ora so per certo che si prende beffa della loro enorme stupidità.
Mio marito era un idiota totale e le nostre mirabolanti avventure verso la sopravvivenza fisica e mentale, accumularono così tante esperienze a aggiungere al curriculum, che alla fine scoppiai. Letteralmente.
Ma procediamo con orine.

Appena arrivati venni fatta accomodare in quella che per i prossimi anni sarebbe stata la mia lussuosa camera da letto matrimoniale di due metri per due, con due materassi singoli ravvicinati, senza lenzuola, con finestra a vista muro. Locus amoenus petrarchesco.
Tra occhiatacce e insulti in bosniaco, che credevano non capissi, mi chiusi lì dentro, e piansi a dirotto. Come non facevo da anni. Tutte le lacrime soffocate dal momento del viaggio a quello, sgorgarono come il Gangi in piena, annacquando il mio giaciglio.
E' qui che la mia storia ha inizio.
E' qui che comincerà il vero racconto.

 

  
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