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Autore: HobennYgh    01/11/2014    1 recensioni
" [...] felice perché finalmente, dopo secoli e secoli d'attesa avrebbero potuto amarsi; all'inferno dove esattamente come i loro corpi sarebbe arso il loro amore- questa volta per l'eternità."
Genere: Horror, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Nevicava in quella gelida mattinata d'inverno durante la quale, come ogni mattina prima di recarmi a scuola, cercavo di vendere qualche giornale.
Il capo quel giorno fu ancor più acido urlandomi contro che, se non avessi venduto l'intera pila di giornali, mi avrebbe licenziato e avendo bisogno di un lavoro quella mattina feci di tutto per convincere le anziane signore che si recavano al mercato a comprarne qualcuno, ricevendo in cambio, se mi andava bene, solo delle occhiatacce.
Non feci colazione quella mattina; mi sentivo debole e la pila di giornali pesava tanto da farmi cedere le gambe. Mi sedetti così in un angolo nella speranza che facessi pena abbastanza da addolcire i cuori di quell'avara gente e far qualche vendita; la gente in quel paese era più gelida della neve.
Feci per scaldarmi le mani indolenzite quando la mia attenzione fu richiamata da un uomo alla mia destra; i corti capelli color perla.
Sorrisi non appena mi disse che voleva acquistare un giornale, cominciando così a elencargli i vari argomenti che conteneva quando mi disse di voler comprare l'intera pila. Per un attimo supposi fosse pazzo, ma mi distolsi dai miei pensieri non appena mi chiese quanto dovesse pagare, cominciando a contare i giornali.
"Quaranta dollari" dissi, quasi affogandomi a causa di un colpo di tosse.
Intascai i soldi quando, d'un tratto, si voltò nuovamente; "..La pila è molto pesante; se ti do cinque dollari -che potrai spendere tutti per te- mi aiuti a portarli a casa? Vivo a tre isolati da qui" continuò poi schiarendosi la voce.
Annuii sorridente; in quella mattina le cose stavano stranamente andando bene e.. era molto raro che le cose mi andassero bene.
Divise la pila, porgendomene metà che afferrai tra le braccia.
"Volete che li porta tutti io?" sussurrai rompendo il silenzio, sforzando un sorriso.
L'uomo scosse la testa, "Voglio qualcuno che mi aiuti, non un facchino" ribatté, ghignando mentre faticavo a tenere il passo.
E prima che me lo potessi aspettare ci fermammo dinanzi una villetta gialla. Mi fece cenno di seguirlo dentro; esitai un istante ma, non volendo sembrar scortese lo seguii, poggiando poi i giornali al fianco di un mobiletto nel corridoio, come mi chiese di fare.
Lo seguii allora fino a quella che sembrava la cucina; era una casa molto accogliente. Mi invitò a prendere dei biscotti, indicandomi il piatto che adesso aveva poggiato sul tavolo. E quando azzardai ad afferrarne uno il brontolio del mio stomaco risuonò nell'aria.
"Non esitare a prenderne un altro; mangiane quanti ne vuoi" sorrise, versando del latte in un bicchiere, prendendone poi un sorso.
Annuii, mangiandone però solo un altro; non avevo voglia di apparire ingordo.
"Non vorrei essere scortese ma.. cosa ci fate con tutti quei giornali?" chiesi quando la curiosità prese il sopravvento, incapace di tener la bocca chiusa.
Mi indicò con un cenno della testa la parete alle mie spalle; notai solo allora che tutti i mobili posti su quel lato fossero incartati. Gli rivolsi uno sguardo confuso, in cerca di spiegazioni, "Devo dipingere le pareti" disse; un largo sorriso si fece spazio sul suo volto quando continuò, "Sai, ho bisogno di qualcuno che mi aiuti a farlo. Se ti pago all'ora dollari all'ora.. saresti disposto a farlo?"
E allora colsi l'occasione al volo, afferrando un altro biscotto, cercando di trattenere l'entusiasmo mentre la giornata cominciava alla grande.
Mi strinse la mano come se avessimo appena fatto un patto, rivolgendomi un sorriso prima di prendere un altro sorso dal bicchiere di latte.
"Io sono Jeliel" continuò tra un sorso e l'altro, rivolgendomi un sorriso.
"Io Frank e.. adesso dovrei andare a scuola"
E la mia felicità fu subito smorzata non appena posai lo sguardo sull'orologio. Di certo, la giornata non sarebbe continuata alla grande dentro quell'inferno.
L'uomo annuii, "Perché non resti qui e mi aiuti a dipingere? Te lo si legge in faccia che non hai voglia di andarci" sputò divertito, prima di gettare il latte rimanente nel lavandino.
Scossi la testa, sforzando nuovamente un sorriso, "Non posso, devo fare un test; devo recuperare" biascicai.
Alla mia affermazione annuì, poggiandomi una mano sulla spalla e accompagnandomi verso la porta.
Fui allora investito da un ondata d'aria gelida che mi fece rabbrividire quando d'istinto mi strofinai le mani screpolate, di tanto in tanto sanguinanti.
"Aspetta" sospirò, recandosi nuovamente in casa e uscendone poco dopo, "Metti questi, te li regalo" continuò poi, porgendomi un paio di guanti viola.
Sussurrai un 'Grazie', faticando ad indossarli prima di dirigermi verso l'istituto. Quasi sussultai non appena mi resi conto che mi stesse seguendo, o meglio, accompagnando. Rise alla mia reazione mentre un senso d'imbarazzo m'assaliva.
Ci trovammo allora, nel giro di cinque minuti, dinanzi la scuola; mi si contorse lo stomaco alla vista del solito gruppetto di ragazzi che m'additava, ridendo ad ogni mia azione, respirare compreso.
Alzai lo sguardo, osservando l'uomo al mio fianco, Jeliel, che mentre mi poggiava un braccio sulle spalle, stingendomi a se li osservava attentamente.
"Frank, gli ignoranti vanno ignorati; continua a guardare oltre le cose che la gente vede perchè, oggigiorno, la gente è accecata dalla cattiveria" sospirò, sforzando un sorriso e scompigliandomi i capelli.
"Sono troppo stupidi per rendersi conto che non si deve puntare il dito contro una persona se non si è nelle condizioni di poter giudicare" continuò dopo, dandomi una pacca sulla spalla prima di allontanarsi.
E mi voltai per osservarlo meglio, ma nel giro di un secondo sparì.
Alzai le spalle leggermente confuso, e continuai a chiedermi per un lungo tempo il perché avessi l'impressione di conoscere già quell'uomo; un qualcosa di familiare in lui, come se lo conoscessi da una vita dal momento in cui potevo già intuire quali fossero le sue passioni e il suo animo. Sospirai, prendendo posto al mio banco e, come puntualmente accadeva, cadendo dopo una mezz'oretta in un sonno profondo. Non avevo alcun test quella mattina, tantomeno voglia di studiare; avevo mentito, semplicemente perché dipingere richiedeva attenzione e impegno e, quella mattina, tutto avevo tranne voglia di prestare attenzione, tantomeno d'essere di impiccio a qualcuno; perchè ero d'impiccio alla gente ma, nonostante ciò la maggior parte del tempo mi demoralizzasse, alcune volte mi divertiva da matti, e adoravo veder la gente andar fuori di testa.
Sorrisi a quel pensiero, sussultando al suono della campanella.
Fui stupito da come, in quel giorno, il tempo trascorse tanto in fretta, recandomi di corsa a casa, dove il mio amato divano m'aspettava.

. . .

Mi svegliai di soprassalto, terribilmente sudato. Notai solo allora che erano le quattro di notte, rendendomi solo allora conto che mi fossi addormentato sul divano, dal quale non mi mossi dal mio rientro da scuola.
E il mio respiro pesante risuonava nell'aria mentre continue reminiscenze si facevan spazio nella mia mente.
C'ero io con un lungo vestito stracciato, sotto un palco di legno; un uomo su di esso, la testa infilata in una ghigliottina. Delle urla risuonavano nell'aria mentre l'imponente figura incappucciata al suo fianco rilasciava la corda, decapitando così l'uomo; e persi un battito non appena realizzai somigliasse terribilmente a Jeliel, l'uomo incontrato la mattina precedente.
Sussultai non appena udii un rumore alle mie spalle.
Mi voltai, non c'era nessuno
; mia madre sarebbe stata fuori quella notte, mio padre all'inferno.
Sussultai nuovamente non appena un tuono risuonò nell'aria, realizzando solo allora stesse diluviando.
Squillò il telefono, mi diressi in fretta a rispondere; tutto ciò che potei udire dall'altra parte del telefono furono dei respiri quando cadde a un tratto la linea e la tempesta si calmò all'istante.
Spensi la televisione, accesi le luci; diedi uno sguardo intorno, mi sentivo osservato.
Fui sollevato non appena realizzai fosse solo una mia impressione e, lo fui ancor di più non appena riuscii a prender nuovamente sonno.

Credo fu l'unica mattina della mia vita in cui fui felice di udir il suono della sveglia dal momento in cui quella notte feci nuovamente lo stesso incubo, questa volta più dettagliato.
C'ero io, con un lungo vestito stracciato; ero su quel palco, tenuto fermo da due uomini incappucciati. E mi mordevo violentemente il labbro inferiore, cercando con tutta la forza del mondo di trattenere i singhiozzi.
Difronte a me un uomo, la testa infilata in una ghigliottina.
Quell'uomo. Jeliel. Stavo piangendo per lui.
E delle urla risuonavano nell'aria mentre l'imponente figura incappucciata, rivolgendomi uno sguardo malvagio, rilasciava la corda, decapitando l'uomo.
E il sangue schizzava ovunque, finendo in piccole macchie sul mio lungo vestito che, notai solo allora fosse un vestito da donna.

Scossi la testa, passandomi ripetutamente una mano fra i capelli prima di recarmi in bagno e vestirmi, per poi recarmi al lavoro.
E terribilmente scosso e con lo stomaco sottosopra nemmeno quella mattina feci colazione, correndo verso l'ufficio del capo.
Quella mattina fu stranamente gentile nei miei confronti, congratulandosi per il buon lavoro compiuto il giorno prima e, raccomandandomi di cercar di fare lo stesso anche oggi.
Annuii, "Ci proverò" esclamai entusiasta, mentre mi porgeva dieci dollari come ricompensa.
Arrivai allora al solito angolo; due vendite nei primi trenta minuti.
Le strade ancora bagnate dalla tempesta della notte precedente, le anziane signore stranamente cordiali. L'odore della pioggia mi inebriava quando fui distratto da una voce conosciuta alle mie spalle; mi voltai- Jeliel.
Le immagini dell'incubo della notte prima si ripeterono innumerevoli volte nella mia mente, come fossero un film velocizzato mentre afferrava tra le mani un giornale.
Mi porse due dollari, pagandolo prima di aprir bocca nuovamente; mi resi conto solo allora di non averlo nemmeno salutato.
"Hey, stai bene?" sussurrò, rivolgendomi un sorriso mentre intascava il resto.
Annuii, passandomi nuovamente una mano tra i capelli, cosa che spesso facevo quand'ero nervoso.
"Bene. Ne sono felice, ti va di venire a casa mia ad aiutarmi? .. O hai per caso un altro importantissimo test d'importanza vitale o roba del genere?" continuò enfatizzando la voce, alzando un sopracciglio.
Intuii solo allora che avesse capito fosse stata una bugia, abbassando lo sguardo, sforzando un sorriso quando giurai stessi arrossendo.
Notai stesse osservando quelli che adesso erano i miei guanti, sorridendo; "Sono felice che tu li stia usando. Sono molto affezionato a quei guanti e, tenerli chiusi in un cassetto era praticamente un peso sul cuore" ammise ridendo, cercando di smorzare quella tensione che si era venuta a creare.
Li fissai un istante, muovendo le dita; mi piacevano quei guanti, esattamente come mi piaceva la piega che anche quella giornata stava prendendo.
"Devo vendere ancora vendere qualche giornale; manca ancora un quarto d'ora alle otto e devo cercare di far più vendite possibile. Sai, il capo è molto rigido a riguardo, se non vendo minimo sette giornali al giorno va in furia" dissi porgendo un giornale all'anziana signora che poco prima mi porse dei soldi. La salutai cordialmente prima che andasse via, posando nuovamente la mia attenzione su Jeliel che adesso se ne stava accasciato a terra, nell'esatto punto in cui lo ero stato io il giorno prima.
Stava mordicchiando una caramella quando me ne porse una che andai ad accettare, imitando le sue azioni.
Era alla Coca Cola; adoravo le caramelle alla Coca Cola, mi ricordavano la mia infanzia.
Era strano come un semplice oggetto o, in questo caso, una caramella, potesse riportarti in mente tanti ricordi positivi e, di conseguenza, farti star così bene.
Capii solo allora l'importanza che quei guanti potessero avere per lui e decisi all'istante li avrei tenuti con cura. Mi chiesi allora il perché me li avesse donati se ci era tanto affezionato, dal momento in cui, solitamente, la gente quand'era tanto affezionata a un qualcosa 0la teneva con se -per se- in modo da non perderla o rovinarla e invece.. lui li aveva donati a me.
E lui aveva quel qualcosa di diverso e, mi piacevano le persone diverse dal momento in cui oggigiorno erano tutte così eque e acide.
Volle comprare i quattro giornali rimanenti nonostante non avesse il mio consenso; non volevo che comprasse i 'miei' giornali per farmi un favore e, semplicemente glielo dissi. Non volevo aver debiti nei confronti di nessuno, ma lui si giustificò semplicemente dicendo che gli sarebbero tornati utili per incartare ulteriori oggettini e allora feci finta di credergli, accettando i suoi soldi.
L'ora trascorse in fretta e, dopo aver fatto un salto in ufficio e aver lasciato i soldi e i giornali rimanenti al capo, ci recammo a casa sua.
Notai allora che adesso tutti i mobili fossero incartanti; svariati oggettini disposti sul tavolo.
"Visto che devo incartarli realmente?" ghignò poggiando i giornali su una sedia.
Annuii, sorridendo, dando uno sguardo intorno; tutto incartato, sembrava di stare dentro un libro; era buffo, mi piacevano le cose buffe.
Il mio sguardo si posò allora su un dipinto all'angolo di una parete; ritraeva una scena, quella scena.

C'era lui, la testa infilata in una ghigliottina; e il suo volto era scuro, ma sapevo per certo fosse lui. Una grande figura incappucciata al suo fianco, che fissava, alla destra della ghigliottina, un ragazzo in un lungo vestito logoro, anche il suo viso ero scuro, ma sapevo fossi io.
Un brivido mi percorse la schiena, mi si contorse lo stomaco e persi un battito non appena quelle scene si ripeterono nuovamente nella mia testa.

"L-l'hai fatto tu?" chiesi con un filo di voce, richiamando l'attenzione di Jeliel adesso intento ad incartare oggettini.
"Si, ti piace?" ammiccò mentre un enorme ghigno si faceva spazio sul suo viso.
Notai allora gli oggettini sul tavolo, rappresentavano tutti le stesse persone, la stessa scena; io tenuto fermo dai due uomini incappucciati, Jeliel con la testa infilata nella ghigliottina e la grande figura mentre tirava la corda.
Indietreggiai, andando a sbattere contro un muro di cui non ricordavo l'esistenza.
"Ti piace?" ripeté nuovamente; un qualcosa di diverso nella sua voce che mi fece venire la pelle d'oca quando si fece scivolare allora una delle statuine che mi rappresentavano dalle mani, facendola finire in pezzi, esattamente come lo era finito il mio cuore non appena i suoi occhi divennero neri.
Deglutii rumorosamente mentre lentamente avanzava verso il mio corpo inerte adesso a terra. Fui in grado di reagire soltanto quando fu a un passo da me, mettendomi in piedi e iniziando a correre, correre verso quella porta che adesso bloccata.
Ogni mio tentativo di aprirla risultò invano quando il mio sguardo andò posarsi su una finestra del salotto, nel quale, nel giro di cinque secondi, mi precipitai.
Nemmeno essa s'aprì quando, in preda al panico, mi ci lanciai contro, facendo finire il vetro in pezzi e procurandomi un grande taglio sullo zigomo destro.
Scavalcai allora il davanzale, cominciando a correre nuovamente. Corsi come mai feci prima d'allora, senza mai guardarmi alle spalle.
E arrivai a casa nel giro di due minuti; mi precipitai dentro, chiudendomi rumorosamente la porta alle spalle. Mi resi conto solo allora che in cucina ci fossero mia madre e il suo ragazzo che, in quel preciso istante, dopo aver udito il forte tonfo della porta si era precipitato in corridoio per vedere cosa stesse accadendo.
"Frank, che succede?"  mi urlò contro mia madre allarmata venendomi in contro; poggiandomi un fazzoletto sullo zigomo sanguinante.
Il respiro pesante, le deboli gambe; sospirai, "Mi stava inseguendo un cane" dissi in un fil di voce, abbassando lo sguardo e mettendomi in piedi prima dirigermi in camera mia, dove credetti sarei stato lontano dalle loro occhiatacce e da qualsiasi altro mostro finché, nel bel mentre ero sdraiato nel letto, sforzandomi di focalizzare la situazione, potei notarlo farsi largo dai meandri dell'oscurità.
E mi sentii morire mentre sul suo volto si faceva largo un enorme ghigno.
E immobilizzato osservavo il suo viso adesso vicinissimo al mio; e potei giurare di sentire il suo respiro sul mio collo quando, incapace di controllare ulteriormente i miei movimenti, andai a poggiare una mano sul suo volto dall'aspetto in cancrena. Fu nel preciso istante in cui non tastai nulla che urlai; fu nel preciso istante in cui la mia mano attraversò il suo viso come fosse aria che urlai a squarciagola, indietreggiando fino a precipitare dal letto e, fu in quel preciso istante che sullo stipite della porta intravidi mia madre, in preda a quel panico che sapevo si sarebbe trasformato in ira.
"Frank, che-" fece una pausa, posando lo sguardo esattamente dove lo era posato il mio, o meglio su Jeliel, adesso nuovamente nell'oscurità, al lato dell'armadio.
Alzai un dito, indicandolo. Uno sguardo confuso si fece spazio sul suo viso mentre posava nuovamente la sua attenzione su di me, adesso in preda agli spasmi muscolari.
"Frank" sputò acidamente, portando le mani ai fianchi;
"Cosa diavolo hai fatto?" mi urlò poi contro lanciandomi un ceffone.
 Fu solo allora che scoppiai a piangere, nel panico più totale.
"Mamma, non lo vedi?!" gli urlai contro a mia volta balzando in piedi, indicando nuovamente quel Jeliel che adesso stava nuovamente avanzando verso me.
"Cosa dovrei vedere, Frank?" continuò; e persi un battito non appena percepii la presenza di Jeliel alle mie spalle, le sue mani sui miei fianchi.
"Loro non possono vedermi, Frank" sussurrò prima che mi voltassi.
E continuavo a balbettare frasi senza ne capo ne coda, con una frenesia quasi isterica quando d'un tratto la stanza divenne bianca e mia madre scomparì esattamente come i mobili e il letto. Mi resi conto di essere sdraiato solo quando mi trovai nuovamente il viso di Jeliel sul mio, estremamente vicino.
Notai solo allora che la sua pelle fosse in parte squamata.
Si mise nuovamente in piedi, reggeva una ciotola fra le mani; ero incapace di muovermi, incapace di parlare.
Si muoveva a tratti, respiravo a tratti; Il tempo sembrava fermarsi in continuazione mentre tirava fuori dalla ciotola degli aghi.
Un brivido mi percorse la schiena mentre mi si avvicinava nuovamente, strinsi gli occhi mentre mi sfilava la maglietta, urlai non appena mi conficcò un ago in corrispondenza del cuore. Allora la vista divenne sfocata, tutto ciò che potevo vedere erano i suoi occhi neri come la pece che, ogni volta che mi conficcava un ago, sempre più in profondità, sembravano dilatarsi.
E urlavo disperatamente mentre mi conficcava un ago al centro della sinfisi pubica adesso scoperta, nella speranza tutto ciò finisse al più presto.
Mi si avvicino al viso ancora una volta, facendomi voltare verso quello che sembrava esser l'enorme schermo d'un cinema, le mie memorie proiettate in esso.
Un ago sullo zigomo, uno sul mento, sul naso, per poi farmi voltare nuovamente.
"Ricordi, Anthony?"
Udire quel nome mi fece rabbrividire mentre quella scena si faceva nuovamente spazio nella mia mente; quella scena, seguita da nuove scene che mi fecero raggelare il sangue.
C'ero io e.. lui; seduto in una sedia, mi osservava mentre mi spogliavo.
C'ero io e.. lui; facevamo l'amore.
C'ero io e.. lui; questa volta su un carro, il volto ricoperto di sangue e io immobile, inginocchiato a terra mentre urlavo, singhiozzando.

Urlai disperatamente come mai prima d'allora quando mi conficcò un ago nell'occhio, provocandomi un dolore allucinante.
Mi dimenai disperatamente quando aprii nuovamente gli occhi, ritrovandomi in un ambulanza, attaccato ad una flebo.
Il suono delle sirene mi stordiva ancor di più di quanto già lo fossi. Abbassai lo sguardo, notai di essere legato al lettino sul quale ero sdraiato.
Notai mia madre al mio fianco mentre mi trasportavano giù dall'ambulanza; stava piangendo.
Sentii lentamente le forze abbandonarmi, e crollavo allora in un sonno profondo, stremato.

. . .

Aprii nuovamente gli occhi, trovandomi di fianco una signora intenta a scrivere su un taccuino.
Notai di essere ancora legato al letto; feci per dimenarmi quando la sua voce mi distrasse.
"Ciao, Frank" sorrise quando, osservandola attentamente, mi rimettevo sdraiato, sistemandomi sul letto; notai indossasse una giacca grigia a righe bianche, una camicetta e degli orrendi occhiali sul naso.
"Come ti senti oggi?" continuò poi poggiandomi una mano in fronte, sistemandomi la testa sul cuscino.
"B-bene. Perché sono legato al letto?" chiesi infastidito, cominciando nuovamente a dimenarmi.
"Calmati Frank, dobbiamo parlare un istante" continuò calma, poggiandomi nuovamente una mano in fronte mentre sbuffando poggiavo nuovamente la testa sul cuscino.
Il mio respiro pesante risuonava nell'aria mentre mi squadrava dalla testa ai piedi, scrivendo nuovamente sul taccuino che, prima di aprir bocca per infastidirmi ulteriormente, ripose su un mobiletto posto alla mia destra.
"Frank, posso sapere cos'è successo ieri?" sussurrò lanciandomi un occhiataccia, afferrando da terra una cartella medica.
Voltai lo sguardo, rifiutandomi di rispondere; mi avrebbe anche lei dato del pazzo.
Fu allora che notai nuovamente Jeliel, adesso seduto sul davanzale del finestrone al lato della stanza.
Sussultai e, credo la signora al mio fianco notò la mia espressione di shock quando cominciando a scuotermi richiamò la mia attenzione.
Indicai con un cenno della testa Jeliel, guadagnandomi un altra occhiataccia.
"C'è qualcun altro oltre noi due nella stanza, Frank?" sussurrò.
Annuii, cominciando a sudare freddo.
"N-non lo vede?" urlai devastato, cominciando nuovamente a dimenarmi.
Sentii il panico nuovamente impossessarsi del mio corpo quando scosse la testa, prendendo nuovamente il taccuino tra le mani, appuntandoci su qualcosa.
"Descrivimelo" ammiccò, lanciandomi nuovamente un occhiataccia.
"Non servirebbe a nulla. Devo andare via, slegatemi" la supplicai, stringendo gli occhi e cercando con tutta la forza del mondo di mantenere la calma mentre un dolore atroce mi assaliva il petto.
E adesso Jeliel mi accarezzava i capelli; notai solo allora che la stanza era divenuta bianca.
"O-oddio, no; per favore" lo supplicai mentre sentivo nuovamente le forze abbandonarmi.
Annuì, ghignando.
"Frank," sussurrò al mio orecchio, mentre stringeva i miei capelli in un pugno, facendomi alzare il viso verso il suo.
"Guardami. Guarda come mi hai ridotto. Ricordi, Frank? .. o forse, dovrei chiamarti Anthony? Ricordi ciò che facesti rinnegando il nostro amore?" continuò; un qualcosa di malvagio trapelava dalla sua voce elettrica, potevo percepire il suo peso sul mio corpo mentre tirava fuori dalla tasca posteriore dei pantaloni un pugnale, che andò a poggiare sulla mia spalla sinistra, in corrispondenza del cuore.
"Ho il diritto di pretendere vendetta, Anthony. Mi hai maledetto e adesso voglio nuovamente il tuo amore, Anthony; nel peggiore dei modi, esattamente come tu mi facesti far fuori, senza far nulla." concluse a denti stretti, alzando in aria il pugnale con entrambe le mani.
Urlai nuovamente, cercando di dimenarmi ancora una volta; e mi resi conto d'esser stato slegato dal letto solo quando finì per terra. Notai allora che nella stanza oltre la signora che capii solo allora fosse una psicologa, c'erano parecchi infermieri che, adesso, mi stavano adagiando nuovamente sul letto, sollevandomi di peso. Fecero per infilarmi nuovamente una flebo, ma mi dimenai, urlandogli contro mentre la mia vista diveniva nuovamente sfocata e il respiro a mancare.

Indossavo un lungo vestito da donna, sgualcito; mi trovavo in una capanna.
Notai di esser tra le braccia di Jeliel con il quale ridendo danzavo sulle note di una melodia proveniente dal villaggio vicino; e portava le sue labbra sulla mie, trascinandomi verso il letto.
Nuovamente tutto bianco, poi io a danzare intorno a un fuoco, Jeliel seduto in una sedia difronte un locale. Mi osservava, gli sorridevo.
Continuavo a ballare, saltellando, giravoltando quando la musica si interruppe e mi gettai a terra, mettendomi poi in piedi e facendo un inchino.
Tutto bianco, di nuovo e poi nuovamente io, in una casa che intuii fosse la mia, a danzare felice, portandomi puntualmente le mani al cuore quando un uomo si precipitò dentro, cominciando a distruggere tutto ciò che incontrava sulla sua strada.
Non conoscevo quell'uomo, non l'avevo mai visto prima d'ora in vita mia, ma sapevo fosse mio padre.
Cominciò ad insultarmi, a picchiarmi mentre in lacrime lo scongiuravo di non farlo.

Non fare cosa?
 
Nuovamente tutto bianco prima che quella scena si ripetesse di nuovo, questa volta ancora più dettagliata.

C'ero io, due uomini incappucciati mi trascinavano di forza verso un grande palco in legno, al centro di una piazza.
Una volta salito mi puntarono un coltello alla gola.
"E' vero che hai avuto una relazione con quell'uomo?" mi urlò contro uno dei due, indicandomi Jeliel adesso al fianco di una ghigliottina posta al centro del palco, tenuto fermo da un altro uomo, anch'egli incappucciato.
Annuii, mordendomi violentemente il labbro inferiore nella speranza che ciò mi avrebbe aiutato a trattenere i singhiozzi.
"E' vero che eri consenziente?"
Fu allora che rivolsi uno sguardo a Jeliel; la sua testa adesso infilata nella ghigliottina.
Notai una lacrima scivolare sul suo viso mentre abbassava nuovamente lo sguardo.
"No" mentii, voltandomi.
Delle occhiatacce prima di dare inizio a quella allora considerata una cerimonia.
Aprii gli occhi solamente quando innumerevoli urla risuonarono nell'aria, e ciò che vidi mi fece cedere le gambe.
L'imponente figura al lato della ghigliottina rilasciò la corda, del sangue schizzò ovunque mentre la testa di Jeliel finiva in una cesta e lentamente mi sentivo morire.

Allora che riacquistai la vista, Jeliel era scomparso.
"F-Frank, stai bene?" mi chiese allarmata la psicologa mentre mi accarezzava i capelli.
Non reagii, tantomeno respirai.

"Arthur" fu tutto ciò che dissi, con quel filo di voce che mi era rimasta, prima di perdere nuovamente i sensi.

Mi risvegliai nel mio letto.
Mi diedi uno sguardo intorno prima di lanciare un'occhiata alla sveglia; decisi all'istante che quella mattina non mi sarei recato al lavoro, tantomeno a scuola; avevo bisogno di riposare.
Mi resi conto solo allora fosse stato un orrendo incubo. Sospirai sollevato, dirigendomi in bagno dove aprii il getto d'acqua della doccia sotto il quale non appena spoglio mi gettai, nella speranza di scacciar via quelle terrificanti immagini che si ripetevano in continuazione nella mia mente.
Udì un botto provenire dalla mia stanza, sobbalzai, quasi scivolando; sangue, sangue ovunque.
Sgocciolava dal tetto, cadendo in pozze per terra. Scorreva sulle pareti, esattamente come sul mio corpo.
Mi alzai, urlare mi risultò impossibile; non avevo voce, non respiravo.
Mi precipitai fuori dalla vasca, finendo per scivolare, sbattendo violentemente la testa contro il lavandino.
Mi alzai, in preda allo shock quando vidi il mio riflesso sullo specchio; lo osservai incredulo per quelli che sembravano anni- gli occhi neri, le labbra terribilmente screpolate, la pelle bianca in parte squamata; notai solo allora di star piangendo; piangendo sangue.
Cercai nuovamente di urlare quando, senza fiato, finii per precipitare. Adesso del sangue scorreva dalla mia bocca, mentre mi dimenavo da una presa inesistente.
Mi si appannò la vista e, quando ricominciai a vedere chiaramente, notai che tutto fosse finito.
Mi precipitai allora giù dalle scale, mia madre non c'era quando tutto a un tratto la casa comincio a ruotarmi intorno, e tutto diveniva nuovamente bianco.

Ero in un bosco, stavo raccogliendo delle bacche quando dalla strada sterrata, qualche metro distante, passò una carrozza.
La mia attenzione venne richiamata da un uomo che adesso mi stava venendo in contro; notai solo allora fosse il Principe della città vicina.
E in preda all'imbarazzo mi inchinai al suo cospetto quando una risata risuonò nell'aria mentre mi aiutava a rimettermi in piedi.
Restai di stucco non appena fu lui ad inchinarsi, baciandomi la mano.
"Posso sapere qual è il vostro nome?" sussurrò.
 "Frank" biascicai; giurai stessi nuovamente arrossendo.
 Sorrise, "Io sono Arthur, il Principe di Parigi; posso avere l'onore di accompagnarla durante la sua passeggiata?"
Persi un battito, scossi la testa, "Sto andando a casa" dissi con un filo di voce, abbassando lo sguardo.
"L'accompagno" ammiccò prima di dirigersi verso la carrozza, invitandomi a seguirlo.
E allora per non dimostrarmi scortese lo seguivo, prendendo posto nella carrozza.
"Posso chiederle che lavoro fa?" chiese sistemandosi sul sedile.
"Aiuto mio padre a badare i maiali" biascicai sforzando un sorriso.
"Bene, perché.. vorrei offrirle un nuovo lavoro, decisamente più degno di un ragazzo come lei.."
Annuii entusiasta, "In cosa consiste?"
Un ghigno si fece spazio sul suo viso mentre si passava una mano sul volto; sembrava nervoso.
Si avvicinò al mio orecchio, "Sarai la mia cortigiana" sussurrò quando bruscamente mi tirai indietro, facendo finire a terra il cesto colmo di bacche.
Feci per raccoglierle ma venni fermato, "Faccio io" disse facendomi nuovamente sedere al suo fianco.
Deglutii rumorosamente, incapace di sostenere il suo sguardo.
"Ho intenzione di pagarti; sarai tu a decidere quanto"
Strinsi allora gli occhi, riflettendo un istante; non avrei più dovuto star sotto le grinfie di mio padre e la gente avrebbe creduto avessi un lavoro nobile, portandomi così rispetto; e allora seguii la mia mente, lasciando per una buona volta il cuore e l'orgoglio da parte, accettando a denti stretti.
Gli spiegai allora dove vivessi e nel giro di dieci lunghi minuti mi trovai dinanzi casa, se si poteva definire tale.
Scesi dalla carrozza quando percepii una presenza alle spalle.
Mi voltai, ancora lui.
"Ti voglio oggi a corte; vieni quando puoi" disse prima di salir nuovamente in carrozza.
Notai solo allora mio padre a spiarci dalla piccola stalla; e convinto avessi combinato qualche guaio mi venne incontro urlando, minacciandomi con il pesante rastrello.
Fu solo quando gli spiegai cosa fosse successo che si calmò, abbracciandomi e precipitandosi in casa, urlando a mia madre che quel giorno avremmo fatto festa.
Ovviamente non gli raccontai come i fatti andarono realmente, dicendogli che mi era stato offerto di lavorare come aiutante in cucina.
Chiesi a mio padre di calmare l'entusiasmo, avvisando mia madre che non avremmo fatto alcuna festa dal momento in cui nel pomeriggio avrei dovuto già presentarmi al lavoro; e allora saltai il pranzo, concedendomi un riposino.
Le ore trascorsero velocemente; sussultai non appena fui richiamato da mio padre che, dopo aver lanciato uno sguardo all'orologio, mi fece notare fossero già le quattro e che se non avrei voluto perdere il lavoro e, di conseguenza i soldi, avrei dovuto sbrigarmi.
Così, nonostante fossi terribilmente contrariato al tutto, mi incamminai verso il castello, dall'altra parte della città.
Camminai due ore esatte, arrivando stremato alla porta nella quale bussai, quasi precipitando non appena il maggiordomo l'aprii.
Mi fece allora strada nel castello, invitandomi a seguirlo su per le scale.
Feci come mi fu detto, fermandomi dinanzi una delle tante stanze.
Il maggiordomo bussò alla porta, la quale fu aperta dal Principe; notai un gran disordine nella stanza quando mi prese per mano, guidandomi dentro la stanza e invitando poi il maggiordomo a lasciarci soli.
E quello prima di chiuderci la porta alle spalle annuii; notai solo allora innumerevoli vestiti da donna sul letto.
Mi invitò a sedermi sulla sedia della scrivania, prendendo poi uno dei vestiti, alzandolo in aria e osservandolo attentamente prima d'avanzar verso di me, poggiandomelo addosso.
Annuì, "Trovo che questo sia perfetto, ti piace?"
Lo osservai un istante. Era bello ma.. era da donna.
Annuii confuso quando me lo porse.
Osservai per un istante il vestito, poi lui che, dopo aver gettato gli vestiti per terra, si era seduto sul letto.
"Non lo indossi?"
Un'espressione confusa si fece largo sul suo volto, e capii solo allora le sue intenzioni.
Annuii, guardandomi intorno.
"Puoi indossarlo qui" continuò sospirando, abbassando lo sguardo.
 "Oh" mi guardai nuovamente intorno prima di chiudere gli occhi e lentamente cominciare a svestirmi.
"Non mi sono ancora presentato-" interruppe il silenzio, prendendomi per un braccio.
Quasi inciampai nel vestito mentre mi tirava a se, "Voglio che tu ti rivolga a me come Arthur" continuò, lasciandomi un bacio in fronte mentre tra le sue gambe mi faceva inginocchiare.

Un mese trascorse d'allora, un mese nel quale, mille cose cambiarono.
Persi la testa per Arthur; e oramai non ero più la sua cortigiana, ma il suo amante; il suo ragazzo.
Capii in quel mese che lui fosse diverso, non come gli altri nobili; umile, realmente speciale.

Quella sera ci sarebbe stata una festa al villaggio, ci saremmo incontrati li, mi sarei travestito in modo che la gente non mi avrebbe riconosciuto.
C'era un grande fuoco al centro della piazza sterrata; danzavo, saltellando giravoltando quando la musica si fermò e stremato mi lasciavo cadere a terra, alzandomi poi giusto il tempo per inchinarmi.
Lui era seduto difronte un locale, mi sorrideva.
Stavo danzando per lui.
Gli corsi in contro quando si alzo dalla sedia, correndo a sua volta, puntualmente guardandosi alle spalle e rivolgermi uno dei suoi migliori sorrisi.
Fece un giro intorno un albero, ridendo prima di fermarsi dinanzi una capanna.
Estrasse allora da una tasca una chiave, aprendo poi la porta che tornò a chiudere non appena fummo dentro.
E quando notai d'aver perso la bandana che portavo in testa venni assalito dal terrore.
"Tranquillo, non ti avrà visto nessuno. L'avrai persa mentre correvamo nel bosco" biascicò.
Sospirai, abbassando lo sguardo mentre mi sedevo sul letto, portando le ginocchia al petto.
Si sedette al mio fianco, accarezzandomi la schiena, consapevole di quanto tutto ciò mi devastasse.
"Vedrai che un giorno tutto questo troverà una fine" continuò poi, stringendomi a se.
Annuii contro il suo petto, "Sono stanco di nascondermi" sospirai.
Ebbene il nostro amore era proibito.
La gente sosteneva che due uomini non potessero amarsi; era sbagliato e chi compiva atti sbagliati finiva alla ghigliottina; e il sol pensiero di uno di noi due in quella piazza mi fece rabbrividire.
Per vederlo in paese ero obbligato a travestirmi; avevo i lineamenti terribilmente femminili perciò, con un po' di trucco, un vestito da donna e una bandana in testa per coprire i capelli corti sarei passato all'occhio.

Si alzò di scatto, tirandomi verso se, per poi cominciare a danzare sulle note della melodia proveniente dal villaggio mentre mi stringeva fra le sue braccia, tra le quali mi sentivo finalmente al sicuro.

In quel mese, provai per la prima volta una sensazione mai provata prima. Una sensazione che non credevo esistente, una sensazione meravigliosa che non potevi scacciare nemmeno se lo volessi. Una sensazione che ti scaldava il cuore: L'amore.

E mi ritrovavo in quella mattina solo, a casa, a danzare, portandomi puntualmente le mani al cuore.
Quel giorno mi avrebbe portato nei campi di lavanda; avevo sempre desiderato andarci e mentre ci riflettevo su, in un istante, la mia serenità venne interrotta da un botto.
Mio padre si precipitò in casa, infuriato, facendo finire in pezzi qualsiasi cosa intralciasse il suo cammino verso il mio corpo adesso immobilizzato dal terrore.
Qualcosa era andato storta e, il mio presentimento fu confermato non appena cominciò a scagliarmi ripetuti pugni sul viso.
Fu allora che cercai di proteggermi, girandomi di schiena e portando le mani al viso, peggiorando solo le cose dal momento in cui mi scagliò un pugno sul collo, facendomi piegare in due dal dolore.
Fu allora che trascinandomi dai capelli mi scagliò contro il tavolo; sbattei violentemente la faccia contro quel vaso che finendo sulla mia testa mi ridusse a sangue.
"So tutto" sputò acidamente, lanciandomi un ceffone e facendomi finire a terra, stremato.
"Finirai all'inferno per questo" urlò poi, puntandomi un dito contro mentre si dirigeva nuovamente fuori.
"No, ti prego" lo scongiurai in preda al panico, notai solo allora mia madre sulla porta, in lacrime.
Il mio respiro pesante fu l'unica cosa che risuonò nell'aria per le successive due ore; e venne smorzato quando qualcuno bussò alla porta.
Ed esitai ad aprire, venendo non appena lo feci assalito da due uomini incappucciati che, di forza, mi trascinarono sopra una carrozza.
E mi sentii morire non appena la carrozza andò a fermarsi nel bel mezzo di una piazza, difronte un grande palco con al centro l'ultima cosa al mondo che in quel momento avrei voluto vedere: una ghigliottina.
Sarei morto?

Mi trascinarono su per le poche scale che distanziavano il palco dal terreno; al fianco della ghigliottina notai Arthur, tenuto fermo da un uomo, anch'egli incappucciato.
Uno dei due mi puntò un pugnale alla gola, facendomi sussultare.
Cercai di fare un passo indietro, ma venni fermato.
"E' vero che hai avuto dei rapporti con quell'uomo?" mi urlò contro, puntando il pugnale contro Arthur.
Gli lanciai uno sguardo; lui scosse la testa, stringendo gli occhi.
"Si" dissi con un filo di voce. Percepii una lacrima scivolarmi lungo il viso.
"E' vero che eri consenziente?"
A quella domanda persi un battito; la risposta che l'avrebbe seguita avrebbe definitivamente segnato il mio destino.
Gli rivolsi un ultimo sguardo, notai solo allora mi stesse fissando, in lacrime. Il suo sguardo era indescrivibile, esattamente come la sensazione che in quel preciso istante m'assalii.
Scossi la testa, "No" dissi duramente, mordendomi violentemente il labbro inferiore nella speranza di poter trattenere i singhiozzi.
La bocca di Arthur si spalancò mentre, dopo svariate occhiatacce, i due uomini diedero inizio a quella che veniva allora considerata una cerimonia, un rito, trascinando così Arthur nella ghigliottina.
Non riuscii a sostenere ulteriormente il suo sguardo, voltandomi indietro mentre innumerevoli urla risuonavano nell'aria e l'uomo incappucciato lasciava la corda, facendo finire la grande lama dritta sul collo di Arthur.
Mi voltai solamente quando le urla cessarono, ciò che vidi mi fece cedere le gambe.
Sangue, sangue ovunque, persino sul mio vestito.
La sua testa in una cesta, mentre trascinavano il suo corpo morto in un posto a me sconosciuto.
Non riuscii allora a trattenere le lacrime in puro stato di shock dal quale ne uscii solo due settimane dopo, quando i sintomi della tanto temuta malattia d'allora si fecero presenti. Fu solo quando venni visitato da un dottore che i miei presentimenti furono confermati: Avevo la peste; e così, insieme alle forze e ai miei rimorsi di coscienza, mi abbandonò, dopo un lungo mese di lotte, anche la vita.

Ma tutto sarebbe ricominciato, perché l'amore va oltre l'immaginabile.

Mi svegliai, ero nuovamente nel lettino dell'ospedale.
Tutto ciò che vidi fu Jeliel, o meglio, Arthur, questa volta con le sue sembianze normali mentre mi si avvicinava.
"Arthur, ti prego, perdonami" urlai in preda alla disperazione mentre ancora legato al letto cercavo di dimenarmi.
Annuì a testa bassa.
"Cosa posso fare per rimediare? Oh, Arthur, ti prego" Continuai mentre il mio pianto disperato risuonava nella stanza.
Mi porse allora un bisturi, poco prima preso da sopra un mobiletto, anch'esso bianco, esattamente come la stanza e l'abbagliante luce intorno ad Arthur.
Gli rivolsi uno sguardo mentre tutto diveniva adesso nero e lentamente la sua presenza scompariva.
Fu allora che me lo piantai dritto al cuore, mentre un estremo senso di piace assaliva il mio corpo.
Pace interiore: fu quella che provai non appena mi trovai a mia volta nel vuoto; mi sentivo libero e, mi sentii felice come mai prima d'allora non appena vidi Arthur in lontananza; le mani lungo i fianchi, mi sorrideva.
Cominciai a corrergli incontro, e più avanzavo verso lui, più si allontanava finché con un salto riuscii a raggiungerlo, aggrappandomi alle sue gambe.
E ancora una volta finivo ai suoi piedi.
Mi si sciolse il cuore non appena potei finalmente abbracciarlo; non appena, finalmente, potei nuovamente toccarlo, sentire nuovamente il suo profumo di pepe nero.
Fu allora che, lentamente, scomparimmo nel buio, fondendoci in una singola anima prima d'esser inghiottiti in quel pozzo di fiamme nel quale saremmo arsi di passione, finalmente dopo secoli, liberi di amarci.

 

In quel preciso istante, dopo due mesi di coma vegetativo, il suo cuore si fermò.
Fu in quel istante che nell'ospedale calò la malinconia.

I telegiornali ne diedero il triste annuncio: Frank, il giovane ragazzo coinvolto in un incidente stradale, non ce l'aveva fatta.
Per un ultima volta intervistarono il ragazzo che assistette all'incidente, e adesso in preda all'eccitazione d'essere nuovamente in televisione e, di conseguenza al centro dell'attenzione, quello raccontava nuovamente ciò che aveva visto.

"Ero difronte al cancello della scuola" racconta,
"Vidi Frank in lontananza, era con un uomo, sorrideva mentre quello gli scompigliava i capelli. Non ho mai visto quell'uomo prima d'allora in città, così, una volta che se ne andò via corsi in contro a Frank per informarmi quando venne capovolto da un auto guidata da un uomo, palesemente sotto l'effetto di droghe, che sfrecciò via. Non feci nemmeno tempo di vedere la targa che già era scomparso, esattamente come tutte le persone nei dintorni che erano già entrate a scuola. Perciò chiamai un ambulanza.
Se non fosse stato per me sarebbe-"
"Okay, bene, il tempo è scaduto" lo interruppe bruscamente il giornalista, prima di chiudere il collegamento.

E mentre la gente lo piangeva, nessuno poteva immaginare ciò che in un altro secolo avvenne e che in un altra dimensione stava avvenendo.

"L'amore non esiste" diceva la gente, convinta.
Ma è proprio la convinzione a fregare la gente.

Tutto cominciò in quella gelida mattina d'inverno quando il giovane Frank stava distribuendo giornali.
Fu allora che un uomo dai corti capelli color perla gli si avvicinò, chiedendo di poter acquistare dei giornali. Fu allora che in Frank, scattò qualcosa.
Era come se quell'uomo lo conoscesse già da una vita, inconsapevole del fatto che fosse esattamente così.
Inconsapevole del fatto che quello fosse l'uomo della sua vita.
Fu allora che qualcosa nel subconscio di Frank scattò e quel qualcosa si manifestò soltanto quando, dopo essere stato investito da un auto, entrò in coma vegetativo.
Fu allora che cominciò a ricordare, fu allora che i sensi di colpa per ciò che in una vita passata aveva fatto cominciarono a divorargli l'anima, manifestandosi sotto forma di orribili incubi nei quali il suo Arthur era sempre presente e cercava vendetta.
Fu allora che, in preda ai sensi di colpa nel vedere il suo Arthur sotto un aspetto mostruoso a causa sua, si piantò un bisturi dritto al cuore, o almeno, così sognò di fare.
E in quel preciso momento in cui nell'incubo il bisturi gli conficcava il cuore, esso, nella vita reale si fermava lentamente.

Sentiva un pianto risuonare nell'aria, ma nessuna lacrima scorreva sul suo viso perché a piangere non era lui, ma tutte quelle persone che fin troppo tardi avevan capito l'importanza di quel giovane ragazzo dagli immensi ideali.

Si dimenava da una presa inesistente, quella presa era la paralisi.

E fu nel preciso istante in cui il suo cuore smise di battere che incontrò nuovamente il suo Arthur.

Jeliel, l'uomo dai corti capelli color perla mai visto in città, era appunto sceso li per accompagnare il giovane nella sua morte, prima di poterlo aver nuovamente al suo fianco, questa volta per sempre.
E nonostante ciò che in una vita passata gli aveva inflitto, costringendolo così a non trovar mai la pace eterna, lo perdonò all'istante, cogliendo al volo l'occasione non appena nacque in una nuova era; e dopo lunghi sacrifici e un patto col diavolo gli fu consentito d'essere il suo angelo custode, accompagnandolo in quel giorno, dopo averlo segretamente accompagnato per ben diciassette anni della sua vita, fin troppo presto verso la sua morte; ma felice perché finalmente, dopo secoli e secoli d'attesa avrebbero potuto amarsi; all'inferno dove esattamente come i loro corpi sarebbe arso il loro amore- questa volta per l'eternità.
Perché Arthur, presentatosi a lui sotto il nome di Jeliel, sapeva avrebbe ricordato; sapeva il loro amore non fosse finito li.

Perché Arthur sapeva che l'amore andasse oltre ciò che la gente vede, oltre l'immaginabile, esattamente come sapeva che senza il suo Anthony, adesso Frank, non avrebbe mai trovato la pace.
Perché sapeva molte cose, esattamente come sapeva ciò che li avrebbe aspettati: un eternità di torture; ma grazie al loro amore, finalmente insieme, avrebbero superato anche quelle.

   
 
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