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Autore: Lady1990    02/11/2014    2 recensioni
Archibald è un ragazzino di quindici anni quando compie la scelta che gli cambierà la vita. Col passare del tempo, accanto al suo maestro, il signor Fires, scoprirà su cosa si fondano i concetti di Bene e Male, metterà in dubbio le proprie certezze, cercherà di trovare la risposta alle sue domande e indagherà a fondo sul valore dell'anima umana. Tramite il lavoro di assistente del Diavolo, riscuoterà anime e farà firmare contratti, sperimenterà sulla propria pelle il potere delle tenebre e rinnegherà tutto ciò in cui crede.
Però, forse è impossibile odiare il Bene e l'unico modo per sconfiggerlo è amarlo. Proprio quando gli sembrerà di aver toccato il fondo, la Luce farà la sua mossa per riprenderselo, ma starà ad Archibald decidere da che parte stare. Se poi si somma un profondo sentimento per il misterioso e affascinante signor Fires, le cose non si prospettano affatto semplici.
[Revisionata]
Genere: Dark, Horror, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Sono da poco passate le due di notte e in giro non c’è nessuno, per mia fortuna. Anche se le persone non possono vedermi, mi sento a disagio a camminare in mezzo a loro in queste condizioni. Provo il medesimo disgusto di qualcuno che esce di casa lindo e profumato, con i vestiti puliti ed eleganti, e torna ricoperto di melma puzzolente: vorrei spogliarmi, togliermi di dosso il sudiciume e farmi una doccia rigenerante. Tale fastidiosa sensazione si ripercuote sulla pelle, sulle mani, sul palato, provocandomi l’allucinazione di aver fatto il bagno nel fango. Per quante docce possa farmi, l’acqua non purificherà il lercio che si è insinuato dentro di me, come un ripugnante veleno che mi logora dall’interno. Mi sento sporco, un essere rivoltante. Credo che se mi guardassi allo specchio, vomiterei. Ma non sono i miei abiti ad essere macchiati. È qualcos’altro. Che sia l’anima? No, impossibile.
Inoltre, confesso che non riesco ancora a liberarmi del disagio che mi porto dietro da quando il maestro mi ha aggredito. Cioè, lo ha detto anche lui di non sapere cosa gli sia preso: ha agito come se cercasse di divorare la mia anima, ma è strano perché si suppone che io non la possieda più. E se invece fosse sempre rimasta qui? E se non se ne fosse mai andata? Forse si è solo nascosta astutamente per anni eludendo la sorveglianza, come un carcerato che cerca una via di fuga e attende che le guardie si distraggano per cogliere l’occasione. Forse è quel “qualcosa” che ho tentato di ignorare per tutto questo tempo.
No, assolutamente no. Calmati, Archie, ragiona. Anzi, non ragionare affatto, cancella tutto. Cancella, cancella!
Non posso tornare all’appartamento, perché non so se Samael sia già rientrato: se lo fosse, per me sarebbe difficile schivare le sue domande, per quanto legittime. Non voglio che mi veda in questo stato. Voglio stare solo. Dove vado? Dove mi nascondo? Mi sono accorto di non possedere un rifugio personale, un eremo isolato in cui rinchiudermi per un po’, per staccare la spina e tagliare i ponti con il mondo. In teoria sono libero, potrei andare ovunque e fare qualsiasi cosa, eppure mai come adesso mi sono sentito così in gabbia. Questo perché mi sento in colpa e covo in me l’orribile sensazione di essermi comportato in modo sbagliato.
Bramo la libertà, ma cos’è la libertà se non un’illusione? Proprio quando penso di essere libero, le mura della prigione diventano più spesse e opprimenti, facendomi capire che sì, sono sempre state lì, invisibili ma reali. Nemmeno da morti si può assaporare questa sensazione: se sei un peccatore finisci all’Inferno, altrimenti vai in Paradiso. E quando precipiti nell’Abisso realizzi che per te non ci sarà mai la libertà, ma soltanto un’eterna agonia; e quando ascendi non te ne frega più un accidente della libertà, perché non possiedi più il concetto di prigionia. Libertà è solo una parola, che assume il suo significato solamente nel caso in cui esista la sua controparte, il suo opposto. Libertà e prigionia sono concetti che vanno a braccetto, si equivalgono, e quando si incontrano poi si annullano a vicenda, perché in verità non sono mai esistiti. Sono solo convenzioni create dall’uomo. 
Però non è veramente della libertà che ho bisogno. Piuttosto, il mio è un desiderio di liberazione. È una differenza sottile, ma c’è. Voglio essere liberato. Da cosa? Non lo so nemmeno io. Forse da “quel qualcosa”. Brancoliamo nel buio, sin dal giorno in cui nasciamo e fino a quello in cui spiriamo. Siamo schiavi. Schiavi del mondo, schiavi della vita e schiavi della morte. Sto brancolando nel buio. Mi sono perso.
Respiro affannosamente e Dio solo sa quanto sia potente e disperato il grido che preme per uscirmi dalla gola. Invece lo costringo a restare lì, incastrato, muto, spaventato dall’idea di attirare l’attenzione, in particolare quella di Samael. Non è qui con me, ma so che potrebbe udire le mie urla, anche a chilometri di distanza. Le lacrime, stille salate che pensavo evaporate del tutto anni fa, mi rigano le guance in scie calde e amare. Nel preciso momento in cui riprendono a scendere, percepisco uno strappo: qualcosa in me si rompe, ma dubito che si rivelerà qualcosa di buono. È solo un’intuizione, che però preme per tramutarsi in certezza. Così, una goccia fa capolino dalle ciglia, seguita a ruota da altre sue simili. A quel punto il cuore viene trafitto da milioni di spilli e il corpo viene attraversato da fiotti di lava bollente, che mi restituiscono la sensibilità agli arti intorpiditi. È come riemergere dall’apnea, per poi essere risucchiato in una pozza di melma ancora più densa. È doloroso. 
Poi realizzo che pure il convincermi di non essere più capace di versare lacrime è stata un’illusione. Perché nella mia fantasia i veri demoni, come il maestro, non piangono. Anzi, il punto è che non so se ne siano in grado, o se il problema risieda nel fatto che è quasi impossibile commuoverli e provocare in loro quella scarica emotiva necessaria ad innescare il processo. So solo che Samael non ha mai pianto. Da qui e da quel sussurro di origini primordiali che suggerisce agli uomini pezzi di verità fin dall’alba dei tempi, altrimenti noto come istinto primitivo, ho sempre dato per scontato che i demoni non piangessero, perché le lacrime sono per gli umani, cioè per i deboli. Le emozioni sono per i deboli. I demoni non lo sono, non si abbandonano a quel flusso distruttivo, ne sono estranei. Di conseguenza non soffrono e, ancora di conseguenza, non possono nemmeno gioire. Non conoscono la felicità perché non hanno mai sofferto e non possono di certo conoscere né l’una né l’altra perché non possiedono un’anima, e le emozioni scaturiscono da lì. O almeno questo ho sempre creduto. Tra i mortali esistono pure coloro che attribuiscono l’emotività a dei semplici processi mentali, ad un mero scambio di endorfine. Ma è davvero assodato che i demoni non possano sperimentare le emozioni? Samael talvolta mi sembra fin troppo emotivo…
Mi sono sempre chiesto cosa ho di diverso dal maestro, perché non sono come lui, perché continuo a sentire quella forza indefinita e potente dimenarsi dentro di me. Mi sono chiesto perché soffro quando il maestro mi ignora o mi tratta male, perché gioisco quando mi bacia, perché provo solitudine quando lui non c’è. Mi sono sempre chiesto perché vengo colto da una rabbia, un rancore e una delusione così profondi quando scaravento un’anima colpevole all’Inferno. Non sono queste forse emozioni? Non ho mai smesso di provarle, ho solo finto di non vedere, finto di non sentire. 
E Samael cosa ne pensa? Perché non se n’è accorto? Perché non me lo ha fatto notare?
Io che mi ritenevo ormai un demone sotto ogni aspetto, o perlomeno sulla buona strada per diventarlo, ecco che ora vado a sbattere contro un ostacolo e l’impatto è considerevole. Sono rintronato. Il peso delle mie conclusioni è troppo schiacciante per permettermi di analizzarlo a mente lucida. Cieco e sordo: due aggettivi di cui mi sono appropriato senza accorgermene. 
Perché le lacrime e l’atto di versarle sono così importanti? Forse perché è una manifestazione fisica, concreta, della facoltà umana di provare emozioni. Puoi simulare felicità, odio, rabbia, serietà, ma è difficile simulare il pianto. C’è chi lo sa fare, certo, ma il vero dolore si riconosce. Come non si può fingere una vera risata, di quelle che scaturiscono dal cuore. Piango, ergo sono umano. Non sono più un “uomo diabolico”, ma solo un uomo. Eppure so volare, lanciare incantesimi… non sanguino! Sono immortale! Qualunque cosa io sia, non sono umano. Sono un ibrido, ma più demone che uomo. Eppure piango.
Prima non piangevo perché mi ero fatto da solo un lavaggio del cervello, e a regola d’arte aggiungerei. Ero convinto di essermi trasformato in un demone e che i miei occhi non fossero più in grado di produrre quel liquido salato. Come nel mito della caverna di Platone, mi sono sempre limitato a fissare le ombre proiettate sulla roccia, credendo che esse riflettessero fedelmente la realtà, senza mai fermarmi a considerare che ciò che è non è ciò che appare. Di quante altre cose mi sono illuso? Samael lo sa? Lo ha sempre saputo? Se la risposta è sì, significa che finora si è divertito a prendermi in giro e che per lui tutto questo è uno stupido gioco. Mi ha imbottito il cranio di menzogne e storielle e io le ho alimentate come uno sciocco. Oppure Samael non c’entra assolutamente nulla e ho costruito questo colossale castello di carte con le mie manine. Qual è la verità? Cosa sono? Il dubbio mi perseguita.
Ho acquisito dei poteri demoniaci e ho ricevuto il dono dell’eterna giovinezza. Sono Alastor! Non sono più umano. Ma, in fondo, cosa ci sarebbe di male ad esserlo? Cosa vuol dire essere umano? E cosa vuol dire essere un demone?
Marco era umano.
Rallento il passo barcollante e mi appoggio con un sospiro alla pietra gelida del muro di un palazzo in stile rinascimentale. I lampioni illuminano di una luce giallognola il lastricato delle strade deserte e il tempo sembra sospendersi. L’atmosfera è surreale e mi trasmette un inquietante turbamento, lo stesso che si può osservare in un quadro di Giorgio de Chirico. C’è qualcosa di strano in questa immobilità, in questo silenzio. Le forme che mi circondano sono familiari: non trovo nulla di strano nel profilo delle macchine parcheggiate a ridosso del marciapiede o in quello delle biciclette incatenate a sbarre di ferro, tutte allineate. Tuttavia, al mio sguardo allucinato appaiono mostri in procinto di divorarmi. Le finestre sono buie, alcune sono sprangate. I negozi hanno le saracinesche abbassate, i piccioni dormono sulle grondaie. Le stelle brillano nel cielo, ma è come se qualcuno le avesse dipinte sopra una tela. Sono lucciole prive di vita. Ho paura.
Colgo un movimento alla mia destra con la coda dell’occhio e un gatto nero si arresta a una decina di metri da me, squadrandomi freddamente con due piccoli fari gialli, una zampa a terra e l’altra sollevata a mezz’aria. Deglutisco, sforzandomi di distogliere l’attenzione. Faccio aderire la fronte madida di sudore alla superficie grigiastra e ruvida del muro e ce la strofino sopra, nell’intento di ferirmi fisicamente per attenuare il dolore spirituale. Una voragine si apre sotto i miei piedi e la mia coscienza vi affoga, mentre i ricordi freschi di due ora fa pongono la mia mente sotto assedio.

“Sei sicuro che i miei genitori non ci disturberanno?”
“No, stai tranquillo. La tua stanza, da quando sono entrato dalla finestra, è stata catapultata in un’altra dimensione. Se tu aprissi la porta adesso, vedresti solamente una fitta coltre di tenebra.”
“Meglio così. Beh, cos’altro vuoi sapere? Ti ho raccontato dei miei professori, dei miei nonni, di Claudio, dei videogame che mi piacciono, dei miei voti…”
“Cosa avresti voluto diventare da grande?”
“Ah! Bella domanda! Non ci ho mai pensato, perché sapevo che non sarei mai arrivato all’età adulta. Perché mai avrei dovuto preoccuparmene?”
“Pensaci lo stesso.”
“Mmm… forse l’astronauta!”
“Eh! Che sei, un bambino? O magari volevi fare il pompiere!”
“Sì, anche quello sarebbe stato figo. E non ridere!”


Per un’ora abbondante non abbiamo fatto altro che sghignazzare insieme per degli aneddoti scolastici. Abbiamo preso in giro i suoi professori e i suoi compagni di classe. Ad un certo punto Marco si è improvvisato attore e ha imitato i docenti, esagerandone alcuni tratti divertenti e alleggerendo la tensione. 
Un ragazzino deliziosamente normale, ma al contempo profondamente diverso dai suoi coetanei. Marco non aveva mai sognato il futuro, non se ne era mai dato la briga. Per questo motivo i suoi occhi erano in parte spenti, disillusi. Gli occhi di un condannato a morte. 
L’unica nota stonata che solo io potevo udire era il suo cane, che abbaiava e uggiolava disperato fuori dalla soglia, grattando la porta con le unghie. Gli animali percepiscono molte più cose rispetto agli uomini. Avrei voluto farlo entrare per permettere a Marco di salutarlo, ma non potevo rompere l’incantesimo sulla camera.
All’improvviso, le sue labbra si sono stirate in un sorriso sincero e si è alzato dal letto per venire verso la scrivania. Mi ha abbracciato di slancio, senza darmi l’opportunità di reagire per tempo. Avrei dovuto prevedere le sue azioni e scostarlo prima che il suo corpo magro si accostasse al mio, perché nell’esatto istante in cui ci siamo toccati tutti i suoi ricordi e le sue emozioni mi hanno travolto come un violento uragano. Non sono riuscito ad arginarli, così mi hanno invaso, mi hanno violato da capo a piedi e scombussolato. Hanno portato il caos, infrangendo l’equilibrio che avevo faticosamente creato. Per un attimo ho sentito il cuore scoppiare dalla tristezza. Sono rimasto senza fiato, perché nessun contraente mi ha mai dimostrato affetto finora. Ero spiazzato, senza parole, e ho dovuto combattere contro l’impulso di ricambiare, per non rendere la situazione ancora più straziante per entrambi.

“Ho solo un favore da chiederti. Se puoi, cancella a Lucky i ricordi di me. Non voglio che soffra. L’unico rimorso che ho è non averlo portato fuori a passeggiare stasera. Ero troppo concentrato a pensare al tuo arrivo e l’ho trascurato. Sarebbe un problema?”
“Cancellare i ricordi di un cane è facile, ma nella sua memoria olfattiva rimarrà sempre il tuo odore. Anche se intervenissi, lui saprà che in questa stanza viveva qualcuno a cui voleva molto bene, non potrò cambiarlo.”
“Va bene lo stesso.”
“Lo farò.”
“Grazie, Archie. Sei gentile.”


Vinto dalla compassione, gli ho pure domandato se desiderasse lasciare un biglietto ai suoi cari, gli avrei concesso il tempo per scriverlo. Ma lui ha replicato che non voleva procurare loro altro dolore, oltre a quello della scoperta del suo corpo. Gli ho parlato, l’ho avvertito della sofferenza che avrebbe patito e l’ho preparato a ciò che lo attendeva. Durante il mio discorso non ha mai fatto una piega.

“Quale sarà la causa della morte che risulterà dall’autopsia?”
“Insufficienza cardiaca.”
“Perché ho l’impressione che tu mi stia facendo un favore?”
“Non ti sto facendo alcun favore, è semplicemente così che si fa.”
“Capisco… beh, almeno avrò un funerale.”
“Non servirà a niente: la tua anima resterà all’Inferno, non verrà mai assolta.”
“Lo so, ma lo dicevo per i miei genitori. Avranno una salma su cui piangere.”


Dopodiché, ha afferrato spontaneamente il braccialetto, pegno del contratto. La sua anima si è subito separata dalle spoglie mortali, pur mantenendo la fisionomia di Marco. Fino all’ultimo, fino a quando non si è dissolto in minuscole particelle di cenere ed è stato risucchiato nel buco infuocato sottoforma di fumo grigio, non ha mai distolto lo sguardo colmo di gratitudine dal mio. Non ha pianto, ma sono sicuro che avrebbe voluto. Al contrario, prima di sparire mi ha regalato un sorriso. Quale peccatore sorride al demone che lo scaglia all’Inferno?
Quando il portale si è richiuso, sono crollato in ginocchio sul pavimento, accanto al suo cadavere, e mi sono rannicchiato su me stesso, artigliandomi la camicia a livello del cuore. Ho soffocato i gemiti, ho cercato di piangere per buttare fuori la frustrazione, ma lì per lì dalle mie ciglia non è sgorgata nemmeno una lacrima. Una dopo l’altra, hanno invece cominciato a cadere appena il venticello invernale mi ha schiaffeggiato la pelle.
Prima di andarmene, ho alterato la memoria del cane, come promesso. Infine, dopo aver sfiorato di nuovo il viso cereo di Marco in un tacito addio, ho rubato un portachiavi a forma di ippopotamo, che penzolava fuori da un cassetto della sua scrivania. 
I suoi occhi mi si sono impressi nella mente come un marchio indelebile e temo che non me ne libererò mai più. Il suo caso è stato il primo del suo genere, non potrò mai dimenticarlo. 
Torno nel presente e la solita immagine della strada illuminata dai lampioni entra nel mio campo visivo. Infilo una mano in tasca e tocco il portachiavi. Non so perché l’ho preso, so solo che a un tratto ho avvertito il desiderio di appropriarmene, come una sorta di souvenir.
Un gelo inaspettato mi penetra nelle ossa e un brivido di inquietudine mi serpeggia lungo la spina dorsale. Decido di scovare un posto caldo in cui pensare con calma, perché stare a bighellonare per le vie fiorentine a quest’ora di notte e con questo freddo mi mette a disagio. È tutto troppo statico, quasi come se le lancette dell’orologio abbiano cessato di emettere il loro ticchettio. Il silenzio è assordante, irreale. Avverto l’ansia montare e il suono del mio respiro misto al battito del cuore mi rimbomba nelle orecchie. In un certo qual modo, mi pare che i contorni delle cose siano distorti, grotteschi, come in un incubo.
È il senso di colpa. 
Ho tradito gli insegnamenti di Samael e disubbidito alla Legge, perché ho provato compassione per un peccatore. Quindi adesso è normale avere paura, non devo farne un dramma. D’altronde, se Samael lo scopre, è assai probabile che reagisca male ed io non voglio farlo arrabbiare. Mi viene quasi da ridere. L’Archie, detto anche Alastor, il cui unico sogno e scopo nella vita era compiacere il proprio mentore con cieca devozione, è scomparso. Ora un altro Archie si è plasmato da solo, uno che agisce di soppiatto, infrange le regole e poi si rintana in un angolo buio a tremare e pregare di non ricevere una punizione. Mi sono scisso. Da quando, mi chiedo? Quando ho cominciato a vergognarmi di ciò che sono diventato? Da quanto tempo ho sviluppato questa insofferenza? Da quanto ho cessato di sentirmi fiero di seguire le orme e i precetti di Samael? 
Mentre cammino a passo spedito verso Piazza Santo Spirito, vengo avviluppato dalla familiare e irritante sensazione di essere osservato. Non è la prima volta che mi succede. Questa cosa va avanti da anni, in particolare da quando io e Samael ci stabilimmo nella capitale francese. All’inizio era solo un’impressione vaga e ho ritenuto fosse il frutto della mia fantasia. In seguito allo scontro con gli Exurge Domine a Notre-Dame si è però fatta più forte e palpabile. Dopo Parigi, credevo di aver appurato che la causa di tale sensazione fosse riconducibile alla presenza di un nemico che mi stava spiando, ma ora, senza nessuno Spennato nei paraggi, non sono più tanto sicuro della mia ipotesi. O forse il mio radar è difettoso ed effettivamente ce n’è uno nelle vicinanze? 
Da qualche mese, anzi dal preciso giorno in cui sono giunto a Firenze, ho realizzato che c’è veramente qualcuno che mi osserva, nascosto nell’ombra. Non ho idea di chi sia, non so cosa voglia. Mi guarda e basta, tenendo i suoi occhi incollati alla mia persona, più precisamente alla mia nuca. Ne ho parlato con Samael qualche settimana fa e mi ha rimproverato per non averglielo detto prima. Per tale ragione si è fatto più circospetto e guardingo e ha iniziato a voler uscire separatamente per sondare il terreno e farmi da scudo. Mi ha ribadito con severità che non devo ignorare il mio istinto, che esso potrebbe salvarmi la vita quando meno me lo aspetto; ma, soprattutto, che gli devo raccontare tutto, anche i dettagli stupidi, perché si occuperà lui di classificarli come “stupidi”. Mi ha fatto promettere di confessargli ogni mio cruccio, vuole trasparenza tra di noi, ma quando mai gli ho spiattellato senza tanti fronzoli tutto ciò che mi frulla nella testa? Anch’io ho conservato dei segreti e continuerò ad accumularne. Per fare un esempio banale, so che non gli rivelerò mai del portachiavi e di Marco, o almeno non nel dettaglio: è una cosa mia e non voglio condividerla, ma più che altro manterrò il riserbo per timore delle conseguenze. Onestamente, non mi sento nemmeno in colpa per questa decisione, dato che il maestro non capirebbe e mi spingerebbe anzi a gettare il portachiavi nella spazzatura, insieme al ricordo di quel ragazzino. Nutro la sensazione che l’incontro con Marco non sia stato casuale, che si rivelerà fondamentale in futuro. Non so spiegarmelo meglio. E poi pure Samael ha dei segreti, non è che mi dice tutto. Insomma, è normale, è… ops, stavo per dire “umano”. Meglio “universale”, almeno per quanto riguarda le creature dotate di intelletto.
La pressione sulla mia schiena aumenta esponenzialmente e quasi credo di percepire un soffio caldo sul collo, che mi spedisce una scarica di brividi. Mi giro di scatto, ma dietro di me non c’è anima viva. La strada è ancora deserta e il silenzio ammanta gli edifici come una membrana collosa e asfissiante. Dalle finestre non filtra alcun timido raggio di luce, segno che tutti stanno dormendo. Forse sono solo paranoico.
“Chi c’è?” domando a voce bassa, i sensi vigili e i nervi tesi allo spasmo.
Serro le dita intorno al manico della valigetta e con l’altra mano stritolo il portachiavi, come se fosse un talismano capace di proteggermi dal pericolo. Non arriva risposta. Mi volto di nuovo e mi metto a correre, scivolando nei vicoli veloce come un lampo. Devo trovare un posto in cui rintanarmi, almeno per qualche ora. Devo riprendere il controllo di me stesso, quel controllo che si è sgretolato appena ho messo piede nella camera di Marco. Devo rimettere insieme i pezzi, ricucirli con cura, rattopparli in modo che tutto sembri tornato come prima.
Sfreccio accanto ai muri, un’ombra indistinta che si mescola ad altre ombre, il cuore che martella nel petto e l’ansia mista alla consapevolezza di essere braccato che mi dilaniano le viscere. I negozi sono chiusi, ma sono sicuro che qualche pub o qualche discoteca siano ancora aperti. Sono solo le due e mezza! 
Svolto a destra, poi a sinistra, poi di nuovo a destra. Procedo alla cieca, cercando di mimetizzarmi con le tenebre e azzerare la mia presenza ai minimi storici. Adesso più che mai desidero trasformarmi in un fantasma. Sorpasso un gruppetto di adolescenti ubriachi, che ciondolano in mezzo di strada ridendo sguaiatamente, ma l’unico cambiamento che avvertono è un piccolo spostamento d’aria e non ci fanno nemmeno troppo caso. Solo una ragazza si ferma, bloccandosi a metà di un passo, e si volta indietro per scrutare l’oscurità con le sopracciglia aggrottate, finché non viene richiamata dai suoi amici. Allora torna a scherzare con gli altri.
Per un attimo mi viene la pelle d’oca, ma giro l’angolo prima che possa realizzare di aver “visto” qualcosa. Strano. Si è davvero accorta di me? Mi ha percepito, lo so. I miei poteri si sono indeboliti? Come? Quando? Perché? 
Non ho tempo per pensare, devo mettermi al riparo. Subito.
Pochi minuti dopo scovo un piccolo pub, incassato tra un negozietto di bigiotteria e una bottega di anticaglie. Ha il classico design di un pub inglese, con arredamento di legno e stampe vintage affisse alle pareti. Da un vecchio jukebox proviene un pezzo di un gruppo rock degli anni ottanta. L’illuminazione è tenue e buona parte del locale è immersa nella penombra, tanto da conferire all’ambiente una confortante atmosfera di intimità. Gli avventori sono pochi, una decina al massimo, e tutti un po’ attempati. Dietro il bancone un ragazzo sta lavando dei boccali di birra con aria assorta. 
Appena entro, la porta tintinna, ma nessuno bada a me. Gli sguardi dei presenti rimangono puntati altrove e in qualche modo mi sento sollevato. Sebbene l’agitazione non sia del tutto scemata, adesso sono più calmo e riesco a far lavorare il cervello. Mi siedo a ridosso del muro, sulla destra rispetto alla porta. Poso la valigetta sulla panca di legno ed esalo un sospiro stanco, chiudendo gli occhi e prendendomi tutto il tempo per raggranellare i residui del contegno perduto nelle ultime ore. In confronto al calore dentro il pub, le mie guance fredde pizzicano in maniera piacevole, essendosi ghiacciate durante la corsa. Le lacrime si sono asciugate, ma gli occhi sono ancora irritati. Devo avere un aspetto sconvolto in questo momento, ma non mi importa.
Passa forse un minuto e all’improvviso sbarro le palpebre, mentre vedo i tentacoli neri fuoriuscire dalla valigetta per avvinghiarsi al mio busto e alle mie gambe. Comprendo immediatamente che il loro intento è quello di consolarmi e tranquillizzarmi, però l’effetto che ottengono è mettermi sempre più in allarme. Quei “cosi” sono senzienti, diciamo. Sono la manifestazione materiale del Male e della bruttezza degli uomini e ora, per la prima volta, mi domando se siano dalla mia parte o se debba considerarli dei nemici. Non ho idea se abbiano avvertito il mio turbamento, né se siano in grado di comunicarlo ad altri, per esempio a Samael. Anche se “comunicare” è un verbo che non ci incastra niente. Forse “trasmettere” sarebbe più adeguato. Attraverso il carico di emozioni negative di cui sono fatti, potrebbero spifferare al maestro ciò che è successo… devo fidarmi? Bah, magari mi sto solo facendo paturnie inutili e questi tentacoli non hanno alcun potere. Finora li ho sempre etichettati come innocui.
Una coppia esce dal pub. Siamo in sette, barman escluso. 
Mi gira la testa. Vorrei soltanto addormentarmi e non svegliarmi più. La mia mente è instabile, i miei sensi sono alterati e non riesco quasi più a discernere la realtà dalla fantasia. Infatti, gli occhi dolci di una ragazza ritratta su una stampa vintage si trasformano in orbite cave che mi scrutano intensamente. Percepisco sulla pelle il peso di quello sguardo vuoto e diabolico. Chiudo di nuovo le palpebre e faccio respiri profondi. Dopodiché mi alzo e mi dirigo al bancone per chiedere una pinta di birra. Odio l’alcool, ne detesto sia il sapore che l’odore, ma forse mi aiuterà a dissipare la coltre di inquietanti allucinazioni che mi appanna la vista. 
Il giovane mi rivolge un’occhiata distratta e mi serve in dieci secondi. Torno al mio tavolo e inizio a sorseggiare con palese disgusto il liquido ambrato. Tracanno la pinta in meno di un quarto d’ora. La mia testa si è alleggerita e le allucinazioni sono scomparse, ma in compenso i contorni delle cose si sono fatti nebbiosi. Comunque, meglio questo che le visioni. Non mi occorre molto per realizzare di essere alticcio, dato che non sono abituato a bere.
Controllo l’orologio che ho al polso e noto che sono le tre e mezza di notte. Gli altri clienti hanno lasciato il pub da un po’. Sono rimasto solo io, ma è come se non ci fossi. 
Il barman si accinge a chiudere il locale.
Mi alzo sbuffando ed esco senza pagare. Cammino leggermente a zig zag. Più tento di procedere in linea retta, più il mio baricentro si sbilancia da un lato o dall’altro. Le strade sono deserte e il panorama che mi si presenta davanti è il medesimo di poco fa. Stessi lampioni giallognoli, stesso silenzio, stesso alone spettrale, stesse ombre. Non è cambiato niente all’esterno, sono io ad esserlo: sono ubriaco. Però non così tanto. Sto male. Le raffiche di vento invernale mi tengono sveglio e stimolano i miei nervi a restare vigili, almeno il necessario per ritrovare la via di casa.
Firenze è un città bellissima, piena di arte e cultura, ma di notte assume dei connotati perturbanti, da incubo. Con le sue viuzze strette e non illuminate, i suoi palazzi di pietra, i negozi sigillati, le fontane spente, sembra che venga catapultata in una dimensione parallela, un limbo da cui non esiste via d’uscita. Un labirinto in stile rinascimentale, con statue e monumenti, piazze, portici, logge, un groviglio di vicoli dalle tinte oscure, quasi gotiche. L’unico suono che giunge alle mie orecchie è il sibilo del vento. Dove sono finiti i colori delle decorazioni natalizie? Perché mi appare tutto così lugubre e desolato?
Perdo l’orientamento e vago barcollando confuso, come una falena in cerca di un bagliore in grado di squarciare lo spesso velo di tenebra. Mi immetto in una strada più grande, ma la sensazione di claustrofobia che provo si acuisce. Mi sento pesante. La testa pulsa dolorosamente, mi pesa sulle spalle. Le gambe pesano. Strascico i piedi sull’asfalto, stravolto dalla stanchezza. La valigetta pesa. La lascio cadere e compio altri quattro passi, prima di appoggiarmi esausto ad una vetrina di un negozio di scarpe. 
Riprendo fiato, ma è difficile respirare. Perle di sudore freddo mi costellano la fronte e ogni fibra del mio corpo è scossa dai brividi. Stupito, porto una mano al viso e la ritraggo umida di lacrime: non mi ero reso conto di aver ricominciato a piangere. Quanto sono patetico? Ho toccato il fondo e sto sguazzando nelle sabbie mobili. È proprio vero che non c’è mai fine al peggio. 
Le palpebre si fanno di piombo, tanto che diventa un’impresa ardua tenere gli occhi aperti. Mi specchio nella vetrina, spinto da una curiosità malsana, ma la vista è sfocata e non vedo niente.
Ad un tratto, una luce si accende alle mie spalle. Attirato da essa, volgo lo sguardo e mi rifletto nella vetrina del negozio dall’altro lato della via. Lì per lì non registro niente, ma poi un particolare inquietante mi pietrifica sul posto e il cuore manca un battito. Rimango folgorato per alcuni istanti. La luce in questione è quella del lampione sopra la mia testa. Scorgo la mia sagoma, un’ombra nera che si staglia solitaria di fronte alla boutique. La mia faccia è oscurata per via dell’alone giallo che viene dall’alto e che riesce a illuminare solo i contorni della mia figura. Peccato che, quando sollevo il capo, noto che il suddetto lampione è spento, come tutti gli altri. Alzo un braccio e il mio riflesso mi imita subito. Muovo una gamba, scuoto una mano, alzo il dito medio. Sì, quello sono io. Ma il lampione acceso, che nella realtà è spento, fa nascere in me un pensiero: c’è qualcosa di sbagliato. E il non sapere perché è sbagliato mi innervosisce. Si tratta di un’allucinazione causata dai fumi dell’alcool? Probabile. Però non temo nulla, perché i tentacoli neri mi proteggeranno. Devo solo stringere la valigetta ed essi usciranno per… la valigetta. Dov’è la valigetta? I miei occhi saettano febbrili a destra e a sinistra, ma della mia valigetta non c’è traccia. È caduta prima sul marciapiede, ho mollato io la presa, ho udito il tonfo. La valigetta è viva, non abbandona mai il suo padrone. Il suo padrone sono io. Dov’è la mia valigetta?
“Valigetta…?” chiamo con voce roca e smarrita.
Mi sento idiota.
Il mio riflesso si muove, ma stavolta non copia i miei movimenti. Piega il braccio destro verso l’alto e mi accorgo che stringe nella mano sinistra la valigetta. Guardo la mia mano: è vuota. Deglutisco. Il sangue mi defluisce dal volto e so di essere impallidito. Mi appiattisco contro la vetrina con un groppo in gola. L’altro Archie, in risposta, compie un passo in avanti e solleva la testa, incatenando il mio sguardo stralunato al suo. Tuttavia, al posto degli occhi ci sono due orbite cave, le stesse che ho visto su quella stampa vintage al pub. Mi fissano, mi trafiggono e mi violano. Sembra che mi stiano stuprando l’anima. 
Mi sento esposto, vulnerabile, debole. Il terrore mi annoda lo stomaco, ma i muscoli si rifiutano di obbedire ai comandi del cervello. 
Il mio alter-ego distende le labbra in un sorriso grottesco e sghignazza. 
“Archie, Archie… stai facendo il birichino.” sussurra divertito.
La sua voce non ha niente di simile alla mia: è più metallica e fredda, ha il potere di ghiacciarmi le ossa.
“C-chi sei?” gracchio.
“Sono te, che domande.”
“No… no, tu non sei me…”
“Io sono Alastor. Sono te.”
“Il mio nome è Archie.”
“Mmm, dipende dai punti di vista.”
“Cosa vuoi da me?”
“Voglio aiutarti.” 
Il ghigno si amplia quasi fino agli zigomi e la bocca diventa una mezzaluna orripilante, mostruosa. Non ci sono denti, solo una voragine nera.
“Di’, cosa dovrei farne di questa?” chiede e brandisce in aria la valigetta.
“Ridammela!”
“No.”
“Si può sapere chi diavolo sei?!” esclamo alterato, ma più che altro è la paura a parlare.
“Diavolo… che bella parola, non trovi? Hai fatto una scelta interessante di vocaboli: avresti potuto dire 'diamine', 'cavolo', 'accidenti', o addirittura 'cazzo'. Invece hai usato 'diavolo'. Perché?”
“Non… non lo so, chi se ne frega! Lasciami stare!”
“Immagino debba tagliare corto.” sospira fingendosi afflitto, “Devi stare attento, Archie. Sin dall’inizio ti sei guadagnato un bel pubblico, ma adesso sei famoso. Ti trovi proprio sotto le luci della ribalta!” spalanca le braccia con fare teatrale e si scioglie nell’ennesima risatina canzonatoria.
“Che intendi? Eri tu ad osservarmi per tutto questo tempo?”
“No.” il sorriso di attenua un poco, “Ripeto: hai molti fan. Però sappi che io sono il tuo ammiratore numero uno!”
“Non capisco…”
Ha schivato l’argomento. Perciò qualcuno mi sta effettivamente spiando? Se non è lui, chi è?
“Capirai quando sarà il momento.” si schiarisce la gola e prosegue, “Comunque, non sono qui per fomentare il tuo ego. Se devo essere franco, stanotte non mi sei piaciuto. Anzi, non ci sei piaciuto. Per niente.”
“Che-”
“Marco. Quel ragazzo. Ti sei fatto accalappiare dal suo bel faccino e dai suoi modi innocenti, come un dilettante alle prime armi. Sono rimasto sorpreso, perché non credevo fosse così facile metterti in crisi. Fai questo lavoro da anni e Samael ti ha insegnato molto. Mi domando… no, nulla. È stata sufficiente una lacrimuccia… sei forse un debole? I demoni non piangono perché sono superiori alle emozioni. Tu cosa sei, invece? Umano come Marco?”
“Marco è… era…” balbetto, ma non possiedo argomenti per ribattere.
“Dilla ad alta voce, la domanda che ti sta consumando dall’interno. Dilla.”
Non c’è neanche bisogno che ci pensi, essa rotola fuori dalle mie labbra come se non avesse aspettato altro: “Vendere l’anima per salvare qualcuno è un peccato?”
Il “me” nella vetrina sorride beffardo e all’improvviso imita la mia voce: “Non esiste una scappatoia dal contratto? Ho fatto bene a spedire all’Inferno un’anima come la sua? D’accordo, non era candida, perché il sangue che ha versato l’ha macchiata irrimediabilmente, ma, a mio avviso, il ragazzo avrebbe potuto riscattarsi senza sforzo. Era una persona buona, come se ne vedono poche, non meritava una condanna così irreversibile. E se avesse domandato perdono a Dio? Se si fosse pentito? Ha detto chiaramente che, se fosse tornato indietro, non avrebbe firmato nessun patto, perciò forse non era impossibile.”
Oddio, mi legge nel pensiero?
“Io sono te, è ovvio che abbia accesso alla tua mente.”
“Cosa vuoi? Ti prego, basta…” gemo e mi accascio al suolo, privo di forze.
Quell’essere che ha assunto le mie sembianze getta il capo all’indietro e la sua risata riecheggia nella mia testa con un fastidioso stridio. Poi comincia a danzare sul marciapiede, muovendosi come se stesse ballando uno swing.
“Basta, smettila di giocare!” sbraito.
Sono pericolosamente vicino all’orlo del collasso. Sto per svenire. Il dolore alle tempie si fa più martellante e non riesco ad incamerare abbastanza ossigeno. Il cuore pare voglia sfondarmi il petto.
“Non sai divertirti, Archie. Mh, no, penso che non ti sia mai divertito in vita tua. Di certo non ti divertivi quando tuo padre di montava, giusto?”
In un istante il suo aspetto muta e quello successivo mio padre è lì, a guardarmi con scherno. Ma gli occhi sono ancora due buchi tondi color pece.
“Che ne dici, Archie, rivanghiamo i vecchi tempi?”
Il mio corpo intorpidito riceve una scossa elettrica che lo fa sobbalzare. Scatto in piedi, sbarro le palpebre e senza accorgermene evoco dalle mani delle fiamme nere.  
“Stammi lontano!” ringhio, mentre un’ondata di rabbia cieca si riversa nelle mie vene.
“O-ho! Quanta energia!” fischia ammirato, “Tranquillo, non serve che mi avvicini. Posso fare tutto da qui.”
Le sue mani, che ora sono quelle del maiale che chiamavo “papà”, scivolano sul suo torace e finiscono nei pantaloni. Mi gelo e squittisco quando avverto quei tocchi sulla mia pelle, come se fossi io stesso ad accarezzarmi. Dita invisibili mi esplorano tra le gambe, superano i genitali e si insinuano prepotenti nell’ano, in una fedele riproduzione di ciò che accadeva realmente allora. Grido e scaglio un vortice di fiamme contro la vetrina. A dispetto di ogni mia aspettativa, l'attacco viene risucchiato al suo interno, senza intaccare la fragile superficie trasparente. Mio padre è scomparso, ma il mio riflesso mi scruta sornione.
“Ti ho spaventato? Sì, ti ho spaventato. Bene. Come ti senti ora?” piega la testa di lato e poggia una mano sul fianco, in una posa annoiata.
“Sparisci.” sibilo tra i denti, facendo fatica a trattenere la collera crescente.
“Non posso, mio caro. Sono legato a te.” sospira e leva gli occhi al cielo, “Veniamo al punto, che ne dici? Sei tornato lucido, piccolo Archie? Ti sei ricordato perché hai scelto questa strada? Prova a ripescare dalla memoria le emozioni che ti hanno convinto a rinunciare alla tua parte umana, coraggio.”
Le emozioni? Ah, sì. L’odio verso mio padre, mia madre, i miei fratelli, i dottori. L’odio verso gli uomini e la consapevolezza che sono tutti marci fino al midollo, tutti quanti. Non ce n’è uno pulito.  Lo schifo che germogliava in me al cospetto di qualunque creatura dotata della facoltà di respirare.  La sofferenza e l’umiliazione che ho subito senza che nessuno si degnasse di ascoltare le mie urla e le mie preghiere. L’ira. Il desiderio di vendetta e quello di far patire il medesimo dolore agli infami peccatori. 
La vittima che diventa carnefice.L’incubo che diventa realtà. Sono un messaggero del Diavolo per scelta e sono fiero di esserlo. Scaraventerò all’Inferno tutti i vermi che strisciano su questa terra, la purificherò e la renderò un paradiso. 
Le gambe tremano e crollo in ginocchio sul marciapiede ansimando, incapace di gestire e arginare la rabbia che ruggisce dentro di me, come una belva inferocita tenuta in catene per troppo tempo, senza niente di cui cibarsi.
Non devo dimenticare. Non posso dimenticare. Sul serio, cosa mi è preso? Farmi tante seghe mentali per un singolo ragazzino! Marco non era innocente, non meritava la mia pietà. Mi sono fatto abbindolare dai suoi occhioni azzurri come uno stupido. Non sono più un novellino. Non avrei dovuto abbassare la guardia. A mia discolpa, posso dire che i clienti con cui ho avuto a che fare finora erano criminali incalliti, alieni al rimorso. Marco invece era diverso. So che lui aveva una chance, una chance che, con ogni probabilità, non aveva nemmeno preso in considerazione, troppo concentrato sulla punizione che avrebbe ricevuto allo scadere dei tredici anni. 
Ora che ci rifletto bene, l’anima della gente che stipula contratti è putrida, arida. I motivi che la muovono concernono soprattutto il denaro e il potere, sia esso un potere da esercitare su una persona, su una cosa o quello di passare attraverso i muri. Per tale feccia non esiste un Dio che potrebbe perdonarli. È come se inconsciamente sapessero sin dal principio di essere destinati al fuoco eterno. Eppure, quando si trovano di fronte al portale, pregano e implorano me di risparmiarli. Non Dio, me. Ma se avessero supplicato Dio? Se si fossero pentiti dal profondo del cuore e avessero invocato la misericordia divina? Se Marco avesse invocato il Signore? Il contratto è davvero così vincolante? Non c’è un modo per spezzarlo?
La mia risata infrange il silenzio che permea i palazzi e le strade e rimbalza per le viuzze deserte. Come un folle a cui un grande segreto è appena stato rivelato, mi sganascio fino alle lacrime, ma non sto ridendo di gioia. Rido perché è divertente. È un meccanismo congegnato in maniera talmente geniale e minuziosa, che mi sorprendo di esserci arrivato. È così evidente da passare inosservato.
“Beh? Ti esalta, Archie?” torna alla carica il mio doppio.
“Da morire.” sghignazzo, sbattendo ripetutamente il pugno sull’asfalto per sfogare l’ilarità.
“Vuoi scervellarti ancora dietro inutili congetture sull’innocenza delle anime mortali?”
“No, ho già capito tutto. Avevo perso di vista il sentiero. L’insicurezza è stata solo l’ovvia conseguenza della mia immaturità, segno che non sono ancora pronto per reclamare la mia indipendenza. C’è molto da imparare, Samael non ha finito con me.” sbuffo e focalizzo l’attenzione sulla vetrina, “Hey, tu!”
“Sì?” sorride diabolico, ma stavolta il suo ghigno mostruoso è speculare al mio.
“Sembri tanto informato, quindi puoi rispondere ad una semplice domanda.”
“Sicuro.”
“È questa la ‘tentazione della Luce’ di cui mi ha parlato Samael?”
“No, Archie. Quando la Luce cercherà di indurti in tentazione, lo capirai immediatamente. Ciò che è successo con Marco è stata una piccola deviazione e menomale che sono intervenuto subito per salvarti. Altrimenti qualcuno avrebbe potuto cogliere la palla al balzo e accelerare i tempi. Non c’è bisogno di affrettarli.”
“Cosa intendi?”
Decide di tacere.
“D’accordo. Allora, dimmi chi sei.” 
Attraverso la strada, raggiungo il marciapiede opposto e fronteggio il mio riflesso senza più alcun timore. Anzi, non provo niente. Mi sento vuoto, come se tutte le emozioni mi avessero abbandonato. Le mie dita formicolano e in un battito di ciglia vengono avvolte dai familiari tentacoli neri. Ah, quanto mi sono mancati! E il manico della valigetta è di nuovo ben stretto nella mia mano. Le orbite cave del doppio si illuminano nel centro. Una scintilla rossastra, come una minuscola fiammella che arde in fondo a un mare di tenebra, rifulge timidamente.
Sorride per l’ultima volta e dichiara: “Sono il tuo ammiratore numero uno.”
Infine scompare, inghiottito dall’oscurità. Il lampione si spegne e il vetro torna finalmente a rispecchiare la realtà. Ci sono io, Alastor, e c’è la valigetta, che fa le fusa nel mio palmo; c’è il lampione grigio e c’è il negozio di scarpe. Ci sono i miei occhi, di una singolare sfumatura violetta. E c’è il mio ghigno: il ghigno di un messaggero del Diavolo. Mi pare quasi di aver vinto una specie di sfida. Mi sento rinato e al contempo morto. Realizzo di aver salito un altro importante scalino e digerito un’epifania.
Io sono Alastor, non Archie. Devo chiedere a Samael di non pronunciare più quel nome. Più che altro, voglio diventare Alastor a tutti i costi, anche se dovesse significare calpestare e ridurre a brandelli Archie. Il mio vecchio io è ancora dentro di me, sopravvive ostinato, lotta strenuamente contro l’inevitabile distruzione, ma d’ora in avanti non cederò più alle sue lusinghe. Non lo ascolterò più e inizierò ad ignorarlo, sperando che così smetta di esistere. Alastor è venuto al mondo davvero e da oggi camminerà sulla terra.
Quanto sono figo! Samael sarà orgoglioso, lo so.
“Grazie, Archie. Sei gentile.”
Scrollo il capo con stizza e scaccio la voce di Marco, un blando tentativo di ribellione della mia parte “bianca”.
Il cielo è più chiaro. Sta per spuntare il sole.
Poi, come un lampo, la consapevolezza di essere osservato con insistenza mi travolge. Giro di scatto la testa, scandagliando le ombre più rade, infastidito da quella costante pressione sulla schiena. Non noto nulla, tutto è immobile. Ruoto lo sguardo verso il cielo, sulle tegole rosse dei tetti, e all’improvviso mi imbatto in una sagoma minuta, accucciata sui piedi. La fisionomia è umana, o almeno mi sembra tale. 
Il cuore fa una capriola. La mano destra corre nella tasca del cappotto a stritolare il portachiavi a forma di ippopotamo, senza che la mia coscienza registri il gesto. Subito dopo vengo distratto dal rumore di una saracinesca che viene alzata, assordante in mezzo al silenzio. Un piccolo stormo di piccioni si leva repentino dalla grondaia di una casa e una manciata di piume bianche e grigie ricade mulinando sul lastricato. Avendo interrotto il contatto visivo con la figura sul tetto, quando torno a scrutare lassù non c’è già più. 
Un momento più tardi, un gattone bianco fa capolino da dietro il comignolo di quel tetto. Miagola, si siede e si lecca una zampa, assumendo la stessa posizione della sagoma che ho scorto dianzi.
Sono paranoico. È stata una lunga notte. Ho proprio bisogno di una doccia e un po’ di riposo. Magari anche qualche coccola da parte di Samael non guasterebbe.
Il portachiavi è ancora incollato alle mie dita.
“Io sono Alastor… sono Alastor…” mormoro come un mantra.










 
  
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