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Autore: ellatells    07/11/2014    0 recensioni
Una giovane studentessa universitaria in ritorno da uno scambio scopre la verità sulla sua famiglia e sulle sue capacità e si ritrova in un vortice di rivelazioni, emozioni e lotte di potere che la porteranno a un bivio decisivo.
Genere: Avventura, Fantasy, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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CAP. 1 - "Despair in the Departure Lounge"
Sembrava un minuscolo, banale mondo in cui vivere.
L'aereo iniziava il suo decollo, l'Italia era sempre più vicina, ma la verità era che non aveva voglia di tornare. Tutti si agitavano sulla sedia, contando i secondi per toccare suolo, mentre lei alzava il volume della musica. Era stanca, infastidita e aveva bisogno di un vero caffè, un espresso. Nei cinque mesi dello scambio nella capitale baltica l'unica cosa che aveva sognato era il suo profumo che invadeva la cucina la mattina. Ora poteva quasi sentirlo, sua zia che sapeva il momento esatto in cui spegnere la moca. 
Mancava poco.
Si tolse le cuffie proprio quando l'aereo toccò suolo italiano e venne invasa da una registrazione assordante di applausi a cui si unì la maggioranza dei passeggeri, e che ricevette con aria disgustata.
Che senso aveva applaudire? Applaudivano forse all'autista se li portava a destinazione?
La calca disperatamente si alzò e invase il corridoio, rischiando di decapitare i vicini coi loro trolley e borsoni. Spingevano, battevano i piedi, lanciavano sguardi assassini, tutto per risparmiare un minuto o due di tempo. Come se ne avessero bisogno.
Lei rimase lì, con lo sguardo vuoto, ad aspettare il passaggio della mandria. Quando abbastanza persone scomparirono dalla sua vista, si tolse la cintura, si alzò e trascinò fuori sul corridoio. Non riusciva a tirare fuori la sua valigia, era incastrata. Un italiano la guardava spazientito perché stava bloccando il passaggio, e lei voleva insultarlo ma era troppo stanca. Il signore russo davanti a lei invece, forse avendo pietà di una povera donzella in difficoltà, una di quelle che lei aveva sempre cercato di non essere, senza fare parola o cenno prese la sua valigia dal manico e la posò delicatamente a terra. Lei sorrise, lui sorrise, e insieme si incamminarono verso l'aeroporto.
 
La città l'accolse con pioggia e grigiore, ma non era quello a darle fastidio, non era mai stata una di quelle ragazze che si lamentano della pioggia poiché rovina i capelli. No, era qualcosa che aveva sentito ultimamente, una delle ragioni per cui era tornata in anticipo, qualcosa che non riusciva a spiegare. Non era una brutta sensazione, ma neanche una buona, e la tormentava, continuamente. Era come quel dolore alle ginocchia quando sta per cambiare il tempo, il presentimento che qualcosa presto sarebbe successo... e lei non vedeva l'ora.
***
Con il carrello portabagagli, su cui con molta fatica aveva ammucchiato le valige, attraversò la porta oltre cui l'aspettava sua zia. Ma sua zia non c'era.
Che strano, lei non è mai in ritardo.
Cercò di rilassarsi, in fondo i parcheggi erano giganteschi e sempre pieni, forse aveva appena parcheggiato e stava arrivando.
Stava dirigendosi verso il bar quando due occhi verdi incrociarono i suoi.
Sebastian.
Il colletto bianco della camicia di marca spuntava dal maglione nero, sopra cui indossava un cappotto nero aperto. Una sciarpa di lana bordeaux gli circondava il collo.
Nonostante l'età intorno ai quarant'anni, si manteneva ancora in forma. Più di una donna, lei notò, si soffermò sulle sue spalle e sui suoi occhi verdi. C'era qualcosa nella sua camminata sicura, nel suo sguardo dritto verso l'obiettivo, che catturava lo sguardo dei passanti.
Si toccò meccanicamente i capelli scuri, e l'abbracciò.
«Ben tornata, Irene».
Le stropicciò i capelli esattamente come quando era piccola. Forse era il profumo di brioche appena sfornate proveniente dal bar, o il fatto di sentire dopo mesi la propria lingua, o il vedere un viso conosciuto, o probabilmente tanti fattori insieme, ma si sentì a casa. Si guardò attorno cercando sua zia, che non vedeva l'ora di vedere e che non era lì.
«Dov'è la zia?», chiese, quando si liberò dalla presa di Sebastian.
«È rimasta a casa, le ho detto che ero nelle vicinanze e che non doveva disturbarsi.»
Irene fece cenno di capire, ma sentiva ancora quella sensazione. Ne ebbe conferma quando suo padre le porse un pacchetto dei suoi cioccolatini preferiti. Era una tradizione vecchia, tra loro due. Quando lui doveva dirle qualcosa che non le sarebbe piaciuto, le dava prima della cioccolata. Questa era ottima e costosa cioccolata svizzera, quella riservata alle occasioni più gravi.
Staccò gli occhi dal pacchetto, lo guardò negli occhi e lui capì che lei sapeva.
«Posso almeno sedermi e prendermi un caffè prima?», lei disse, rassegnata.
«Te lo concedo», disse lui, cercando di farla sorridere con la sua espressione buffa, ma fu inutile.
Irene voleva solo dormire. Sprofondare tra una quantità enorme di cuscini e svegliarsi tra dodici ore, magari con tutti i suoi problemi già risolti nel frattempo.
Si trascinò fino a un tavolo all'angolo, un po' nascosto, con lui che la seguiva col carrello portabagagli. Lo lasciò di fianco alla sua sedia e si girò verso di lei, aspettando il suo ordine.
«Il solito: espresso, liscio, senza zucchero», e si mise a cercare una connessione wi-fi, nella speranza di riuscire a scrivere alle sue amiche per dire che era arrivata sana e salva.
 
Sebastian posò le due tazzine sul tavolo e si sedette. Con un gesto meccanico, ripetuto in così tanti anni, scosse la bustina di zucchero, strappò un angolo, versò il contenuto nella tazza e mescolò rapidamente col cucchiaino. Poi alzò gli occhi e guardò sua figlia, che beveva il suo caffè amaro – come faceva doveva ancora capirlo – e con l'altra mano reggeva il cellulare e cercava di connettersi a internet, invano.
«Devi registrarti con la carta di credito», lui disse, sapendo esattamente la reazione che avrebbe avuto.
«Ma è totalmente stupido! Perché sono tornata nel Medioevo?», abituata alle tecnologie nordiche, tornare in Italia si stava rivelando un trauma.
Sebastian sorrise. La conosceva relativamente poco – non aveva mai vissuto con lei – ma si aspettava questa reazione. Poi la sua mente tornò alla realtà, al perché era venuto a prenderla impedendole di scomparire.
«Dai, andiamo», disse, alzandosi e prendendo le valige.
Irene si alzò e lo seguì.
 
***
Quando la macchina correva veloce e silenziosa per l'autostrada, e non c'era modo di fuggire, Sebastian si decise a spiegarle perché era venuto.
«Irene...», fece una pausa per catturare la sua attenzione, «ti devo dire una cosa».
«Lo avevo capito dai cioccolatini», lei rispose, cercando di fissarsi sulla strada e non guardarlo negli occhi.
«Vedi... ti devo chiedere una... una specie di favore».
Irene era enormemente sorpresa, anche se cercava di non darlo a vedere. Una situazione del genere non era mai successa. Cosa avrebbe potuto chiedere un uomo di successo, sia nel lavoro che con le donne, a sua figlia, studentessa ventunenne?
«Dovresti lavorare come... rappresentante della mia azienda, per un po' di giorni».
L'idea non sembrava male, e lei aveva ancora all'incirca due settimane libere fino all'inizio delle lezioni. Non trovò nessun motivo per opporsi, a parte la sensazione che ci fosse qualcosa di strano in quella richiesta.
«Come mai io? Non potevate trovare una di quelle rappresentanti professioniste?», lei chiese.
«Ci serve qualcuno che conosca molte lingue, e tu in quello sei la migliore». Con le sue cinque lingue, questo almeno era vero. 
«Va bene», disse, forse quella sensazione era solo un brutto scherzo della sua mente, «quanto mi pagherai?».
«Te lo dico quando arriviamo, manca solo un'ora», e poi cambiò totalmente argomento.
 
***
Sembrava un paese di campagna, di ubicazione incomprensibile, nel nord Italia. Il suo terribile senso dell'orientamento non aiutava per niente. Erano all'incirca un'ora e mezza da Milano, questo era certo, ma, considerando la velocità con cui erano andati, forse era di più. Non c'era nessun cartello all'entrata del paese, nessuna insegna, niente. Non vedeva neanche fermate del bus, o benzinai. Se la macchina avesse smesso di funzionare, sarebbero rimasti bloccati in mezzo al nulla.
Era domenica, a ora di pranzo – e il suo stomaco che brontolava da un pezzo glielo continuava a ricordare – così pensò che tutti gli abitanti si fossero rifugiati nelle case a mangiare. Non c'era altra spiegazione.
Sebastian girò su una stradina proprio mentre lei era immersa nei suoi pensieri, percorse cinquecento metri e si fermò di fronte a una grande villa.
Dalla facciata sembrava una normale casa di campagna, solo molto più grande. Tre piani, probabilmente anche una cantina, ma soprattutto una grande porta, su cui notò, quando scese dalla macchina e si avvicinò, una scritta in latino:“
protegere et erudire”.
   
 
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