Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: Gio_Snower    07/11/2014    2 recensioni
Fanfiction dedicata alla JeanMarco weeks.
Day One: Zero Gravity : In origine c'eravamo solo noi e l'Universo.
Day Two: Olympus : Ad un tratto spuntò una nuova razza che ci mise su un piedistallo e iniziò a chiamarci Dei.
Day Three: Homecoming : Ci siamo rincontrati ed è stato come ritornare a casa.
Day Four: Candlelight : Questa nuova vita è come la fiamma di una candela.
Day Five: Ash : E' il nostro destino, poiché siamo come cenere nel vento.
Day Six: Uniform : Non stiamo commettendo nessuna atrocità, è il volere di Dio.
Day Seven: Dreams : Sarà l'ultima volta? Sperarlo è come sognare, e noi siamo fatti della sostanza dei sogni.
Genere: Romantico, Sentimentale, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi, Slash | Personaggi: Jean Kirshtein, Marco Bodt, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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Glossario
 
Obermann – corrisponde al grado di Assaltatore nelle SS.
Totenkopf – è l'emblema simbolo delle SS.
Mein Kampf – « La mia battaglia » è il saggio attraverso il quale Hitler espose il suo pensiero politico, che delineò in seguito il programma del Partito Nazista.
Prinz Alberecht Strasse 8 - Luogo dove vi era situato lo Stato maggiore personale del Reichsführer-SS, il vero e proprio centro d'influenza nel comando delle SS.

Rottenführer – Comandante di squadra.
Meine Ehre heißt Treue! - « Il mio onore si chiama fedeltà! » è il motto delle SS. 

 
 
Uniform
 

I raggi del sole filtravano dalla finestra inondando di luce la sedia posta vicino a un tavolo grezzo. Sulla seggiola, sopra lo schienale, era appoggiata una divisa nera con una mostrina sul colletto che indicava il grado di Obermann, mentre il berretto nero con sopra il Totenkopf era collocato sul tavolo.
Indaffarato a sbarbarsi canticchiando, guardandosi allo specchio tutto soddisfatto, c'era un ragazzo di diciott'anni. Era alto, magro, le spalla larghe e la schiena dritta, un volto allungato e una pelle bianca tipicamente europea, occhi ambrati orlati da ciglia scure, sopracciglia marroni, capelli color stoppa più scuri alla radice.
Il suo nome era Jean Kirshtein, tedesco per nascita ma di discendenza francese in parte, e quel giorno era entrato ufficialmente nelle SS. Indossava i calzoni neri dell'uniforme che gli fasciavano le lunghe gambe e una camicia dello stesso colore. Un sorrisetto arrogante gli arricciava le labbra fini e ben cesellate, nascondendo la dentatura bianca e perfetta che unita al suo viso allungato gli era valsa il soprannome di Faccia-da-Cavallo. Quell'epiteto infantile e azzeccato non urtava minimamente lo spropositato ego del ragazzo, evidente difetto – o pregio, a seconda dei punti di vista – del suo carattere che pendeva facilmente verso l'ira e il cinismo.
Il motivo della sua felicità era appunto l'essere riuscito a entrare nelle SS, visto che il sogno della sua vita era servire il suo Führer, Adolf Hitler.
Dopo aver letto e ascoltato gli ideali trascritti nel Mein Kampf, s'era convinto della verità delle parole contenute in esso e aveva voluto servire la causa di quell'uomo che ai suoi occhi era un idolo, un uomo nato per guidare l'umanità verso una nuova era.
Dopo essersi infilato la giacca dell'uniforme, le varie fasce e aver indossato il berretto con sopra il teschio simbolo del suo nuovo stato, uscì dal suo appartamento di Berlino e si diresse verso Prinz Albrecht Strasse 8, dove vi si trovava il vero centro delle SS.
Cercò il Rottenführer, trovandolo ancora prima che lo indirizzassero verso di lui, osservando con attenzione le mostrine sulle maniche e quando vide la Sig runica – uguale a quella che aveva anche lui – e le due lineette sulla seconda mostrina capì d'aver fatto centro.
Aspettò di essere chiamato mentre osservava con curiosità il suo diretto superiore, pensando che, una volta avanzato di grado, avrebbe potuto curarsi nell'aspetto e avere una vita stupenda come la sua.
Una volta chiamato, si fece avanti pieno di energia. Il Comandante fece un lungo discorso, congratulandosi con le nuove truppe e accennando brevemente al tatuaggio che presto si sarebbero dovuti fare, lodando il loro coraggio quasi come lo stesso Führer e recitando il motto con tanta convinzione ed emozione che quando toccò a lui non poté reprimere lo scintillio d'orgoglio che gli emerse nello sguardo.
«Meine Ehre heißt Treue!».
Dopo una giornata di addestramento, in cui dimostrò il suo valore come Obermann, fu invitato dal gruppo a bere qualcosa.
Cambiando idea verso metà del tragitto, lasciò i compagni con un leggero cenno del capo e un'occhiata fredda data dal suo carattere scontroso e poco socievole. Svoltando l'angolo, vide un ragazzo accasciato a terra e si avvicinò più per curiosità che per altruismo, mentre il suo buon senso e il suo egoismo gli dicevano a chiare lettere “Cambia strada, non fare l'idiota”.
Il ragazzo era accasciato fra i rifiuti in una posa scomposta, i capelli neri erano tagliati corti e la pelle era leggermente scura, come notò con disgusto Jean. Stava per girare i tacchi quando lo sconosciuto gemette.
Il suono di quella voce gli fece gelare il sangue nelle vene e un piccolo brivido gli percorse la schiena. Si voltò nuovamente verso il ragazzo e lo tirò su, notando subito che era più alto e massiccio di lui. Si soffermò a esaminarne il volto, notando così i lineamenti dolci e tondi, la pelle scura costellata di lentiggini, le labbra piene – sensuali, disse una voce dentro di lui, che ignorò prontamentee il naso leggermente arrotondato e a patata, differente dal suo naso romano un poco all'insù. Era il suo esatto contrario.
«Stai bene?», domandò allo sconosciuto, non riconoscendosi; nella sua mente c'era un conflitto in corso che sembrava stesse perdendo. Dopo aver sbattuto le palpebre, il ragazzo aprì gli occhi, neri come la notte, e lo fissò confuso.
«Cosa ti è successo?», chiese Jean, sentendosi lievemente preoccupato e sconcertato dall'influenza che quello sguardo esercitava su di lui.
«N... Non lo so», mormorò l'altro tossendo.
«Come ti chiami?».
«Io non...», provò a rispondere lo sconosciuto, ma subito emise un verso di dolore che gli fece serrare gli occhi, togliendogli la possibilità di rispondere.
Svenne, ma Jean, vedendo il suo malessere, lo sorresse, preoccupato che sbattesse la testa addosso al muro o sulla strada. Non capiva nemmeno lui la gentilezza che stava riservando a quel ragazzo né l'interesse che sentiva di provare nei suoi confronti.
Sospirò bruscamente quando sentì delle voci, chiedendosi cosa diavolo facesse là, con un uomo privo di sensi fra le sue braccia. Decise in pochi attimi, lo sollevò e lo trascinò nel suo appartamento che, per loro fortuna, non era lontano.
Nonostante Jean abitasse al secondo piano, grazie al fisico dato dall'addestramento, riuscì a portare il ragazzo su per le scale sforzandosi un poco. Cercò la chiave con una mano palpandosi nelle varie tasche mentre teneva l'altro stretto a sé con un braccio e, quando la trovò, emise un verso d'esultanza e soddisfazione – tipicamente maschile – e girò la chiave nella serratura con un sorrisetto stampato sul volto.
Aperta la porta, s'introdusse nell'appartamento, trasportando l'altro verso il grande letto vicino al muro. Lo appoggiò sulle lenzuola dapprima con trascuratezza poi, osservandolo un po', lo sistemò bene. Da quando era così altruista? Quello sconosciuto era impressionante solo per la gentilezza che riusciva a far emergere in lui.
Si spogliò, togliendosi con cura la divisa nera e si buttò nel grande letto, poggiando fra sé e il ragazzo un cuscino come barriera.
Un conto era soccorrerlo, ma dormire con un uomo non era di certo una sua aspirazione.
Nonostante tutto, quando si stese nel letto, si addormentò ascoltando il respiro regolare del ragazzo, non prestando attenzione ai pensieri offuscati dal sonno su lontani ricordi.
Quando aprì gli occhi, vide due profondità nere fissarlo, simili a una notte senza stelle. Si ritrovò risucchiato dalla dolcezza che traspariva in loro, una cosa del tutto innaturale per lui.
«Buongiorno», disse il ragazzo con un leggero imbarazzo, le guance piene di lentiggini arrossate.
Jean si tirò su di scatto.
«Stai bene oggi», affermò, cercando di sembrare freddo e distante com'era sempre stato prima d'allora, anche se in quel momento si sentiva l'esatto contrario.
«Grazie a te, mi hai salvato!», mormorò l'altro.
«Cosa ti è successo?», gli domandò Jean, sentendo la curiosità crescere in lui.
«Sono stato aggredito».
«Da chi?», chiese, sentendo la rabbia bruciargli in petto.
«Non lo so».
«Perché?», continuò insistendo.
«Sono ebreo», fu la risposta del ragazzo.
In quell'esatto momento Jean sentì il mondo cadergli addosso, schiacciandolo con il suo enorme peso. Dalla pelle scura aveva subito pensato a quell'opzione, ma non aveva voluto crederci, pensando di non poter essere così stupido da soccorrere uno di razza non ariana.
«Tu devi andartene», ringhiò, «subito!»
«Perché?».
«Non accetto ebrei in casa mia», rispose.
«Tu mi hai salvato, cosa è cambiato ora che sai la mia religione?»
«Cambia, ora vattene», gli ordinò.
Il ragazzo si alzò dal letto e si mise in piedi, ma subito le ginocchia gli cedettero e crollò.
Provò a rialzarsi, ma Jean vedeva la fatica che faceva e il tremito che sconquassava il suo intero corpo.
«Merda!», grugnì alzandosi dal letto, «Lascia perdere, sei ancora troppo debole».
«Me ne voglio andare», rispose il ragazzo.
Jean, incredulo, si girò verso di lui così vide l'espressione seria e determinata dell'altro.
«Non ce la fai a reggerti in piedi», gli fece notare.
«Non è importante».
Jean sospirò pesantemente, chiedendosi perché all'improvviso avesse tirato fuori tutta quella testardaggine inutile. Poi sogghignò, lui, il “Re dei Muli” – come lo chiamava sua madre – si chiedeva il perché della cocciutaggine dell'altro.
Si avvicinò a lui e lo prese sotto le scapole, con uno sforzo fisico lo appoggiò nel letto senza dire niente. Quando lo guardò, vide il volto arrossato d'imbarazzo.
«Non dirmi che sei anche uno di quelli», disse.
«Quelli?», chiese l'altro innocentemente.
«Se non lo sei, meglio così», esclamò. Un ebreo in casa sua era già un'idea strana e c'avrebbe messo molto ad abituarsi, o almeno era questo quello che pensava quando non lo guardava, ma quando si girava e incontrava i suoi occhi quei pensieri sparivano e un sentimento strano gli prendeva il petto, mentre la curiosità se lo mangiava vivo.
«Grazie», mormorò l'altro.
Jean alzò le spalle e si diresse verso la cucina nell'altra stanza.
«Starai qui finché non te ne potrai andare, ma poi basta», specificò, ma sentiva le bugia insita in quelle parole. Poi fu fulminato da una rivelazione che lo fece ridere un poco, finché non tornò in sé e vide lo sguardo del ragazzo puntato su di lui. Esso conteneva vari sentimenti tra cui la felicità e la curiosità. Chiedeva chiaramente: “perché stai ridendo?”.
«Stavo pensando che non so ancora chi sei. Qual è il tuo nome?»
«Marco».
E quel nome suonò perfetto.
«Ti sta bene», mormorò Jean, poi si diresse verso la cucina, cercando di concentrarsi su quel che doveva fare.
 
Finito di far colazione, decise di prepararsi. Aprì l'armadio e tirò fuori la divisa e il berretto e li poggiò con estrema cura sul tavolo.
«Sei una SS», mormorò Marco con gli occhi spalancati e bianco in volto.
«Sì, e sono felice di seguire il Mein Führer», rispose Jean indossando i pantaloni neri sopra la spessa biancheria intima.
«Sei diverso da quel che credevo».
«Che intendi?», chiese Jean mentre si infilava la camicia, attento ad abbottonarsi con ogni cura.
Voleva far bella figura nella sua divisa, forse così avrebbe trovato una bella ragazza da sposare.
«Una SS che aiuta un ebreo? Dai, sembravi solo uno schivo, non un fanatico», disse senza peli sulla lingua il ragazzo.
Jean si girò e in due passi fu davanti a lui; lo prese per il colletto della camicia con espressione rabbiosa che però non riuscì a mantenere.
Come poteva non provare rabbia nei suoi confronti? L'aveva insultato! Ma più lo osservava più si rendeva conto di che razza di idiota fosse. O almeno così si sentiva.
Sentì un peso crollare sulle sue spalle e – non per la prima volta – si chiese se quelle parole ispiratrici e carismatiche fossero vere e giuste, ma poi, per testardaggine, si disse che non stava sbagliando niente e che quell'insulto era solo quello di una persona appartenente a una razza inferiore, se di persona si poteva parlare.
«Uno come te non può capire», ringhiò, lasciandogli il colletto con un gesto ampio e violento, quasi uno strattone. Il silenzio scese fra loro, finché lo stesso Marco non lo chiamò.
«Perché hai deciso di unirti alle SS?», gli domandò.
«Perché ci credo, credo nelle parole del Cancelliere».
«Anche se implicano la morte di altri? Il togliere la vita a degli innocenti?»
«Innocenti? Altri? Io vedo solo una razza inferiore che merita di essere sterminata». Ma Jean non lo pensava davvero. Per quanto potesse ritenere superiore la razza ariana, non era preparato ad ammazzare gli altri, per quanto inferiori fossero rispetto agli ariani puri. Eppure, presto lo sarebbe stato, ne era sicuro. O almeno questo era quello che cercava disperatamente di provare, sia a Marco che a sé stesso.
«Non lo pensi veramente», disse l'altro.
«Tu non mi conosci».
«Non adesso».
«Che intendi?», domandò Jean sorpreso.
«Non lo so, ma ne sono... sicuro, in qualche modo».
Gli occhi neri di Marco lo fissavano, irremovibili, seri e convinti. Non stava inventando né dimostrava alcun rimorso o paura. Lo affrontava senza un minimo segno di pentimento.
Come fa a essere così sicuro di sé?, si domandò Jean.
«Pazzo», lo insultò, ma l'altro non rispose e lui non se la sentì di continuare; prese quindi la giacca, se la infilò insieme alle varie mostrine, si mise il berretto con il simbolo del teschio, chiamato Totenkopf, e se ne andò.
 
Era sera quando Jean tornò nel suo appartamento, per tutto il giorno – dopo la conversazione con Marco – era stato nervoso e di malumore. Durante la giornata, aveva dato la colpa a Marco per i dubbi che l'avevano assillato per tutto il tempo, perché erano spuntati solo dopo la loro conversazione e le affermazioni insinuanti dell'altro.
Quando tornò a casa lo trovò seduto al tavolo che, con occhi tristi, osservava fuori dalla finestra.
«Dimmi, perché pensi che sia sbagliato il pensiero del Führer? O forse è per la tua origine di razza inferiore?», gli domandò aspramente. Quella conversazione era l'ultima trincea di Jean e lui aveva deciso di abbatterla o di rafforzarla in un ultimo tentativo.
«Uccidere la gente perché la sua pelle ha un colore diverso, perché è di origine diversa, perché serve un Dio diverso... Non ti sembra semplicemente sbagliato? Tu, fra tutti, dovresti capirlo, Jean», fu la risposta di Marco.
«Che intendi? So che l'altruismo non è fra le mie qualità».
«Tu non sembri una persona forte, e questa è la tua grande qualità, poiché riesci a capire come si sentono i deboli – visto che anche tu, almeno in parte – sei come loro. Ed è per questo che mi hai aiutato, anche se la tua testa diceva di no».
Jean non riuscì a negare quel discorso, sebbene non capisse cosa c'entrasse con la dottrina nazista in cui credeva. O forse, era già arrivato al “a cui aveva creduto”?
«Tu non permetteresti l'oppressione dei deboli senza motivo né uccideresti un uomo innocente», gli disse Marco, fissandolo con quei suoi sinceri e profondi occhi neri, e Jean non poté distogliere lo sguardo.
«Sono onorato che tu abbia una così alta opinione di me, ma...», provò a ribattere con il sarcasmo, ma le parole morirono nell'aria, lasciando solo il vuoto che era in loro.
«Visto?», fu la semplice domanda di Marco.
E Jean non poté far altro che sospirare e arrendersi.
 
Col passare del tempo la vera opinione di Jean venne fuori, così tanto che gli fu difficile nasconderla agli altri suoi “compagni”. Ogni volta che sentiva un discorso pieno di arroganza e boria, sentiva la rabbia ribollire dentro di lui, mentre le sue mani prudevano dalla voglia di attaccar briga. Poi si domandava: Anche io ero così cieco?
E quando la risposta arrivava – un secco sì nella sua mente – si calmava.
Il volto lentigginoso e scuro di Marco, i suoi occhi tranquilli e neri come la notte e il suo sorriso sincero e aperto gli tornavano in mente durante il giorno e si ritrovava ad arrossire e a sorridere come uno sciocco.
Possibile? Possibile che si fosse innamorato di un uomo? Era diventato uno di quelli? Quando ci pensava, quando vedeva qualcuno di loro, non poteva non sentirsi a disagio, ma non sentiva più il disgusto di prima. Forse la sua mente si era finalmente aperta a una nuova prospettiva o forse, semplicemente, voleva illudersi che fosse così.
Tornato a casa trovò Marco, che finalmente riusciva a stare perfettamente in piedi senza sentirsi debole e dolorante, che cucinava la cena. Sentendolo arrivare si voltò e gli rivolse un aperto sorriso.
«Bentornato, Jean», gli disse con quel suo tono di voce calmo e dolce.
«Hai lasciato di nuovo la finestra aperta, Marco? Ti ho detto che è pericoloso!», lo rimproverò. I controlli e le proibizioni stavano drasticamente aumentando e i lager, costruiti su ordine di Hitler, si stavano presto riempiendo di ebrei strappati alla loro vita quotidiana, ma anche di persone che il Führer riteneva colpevoli.
Giusto ieri aveva visto delle SS trascinare via un ragazzino zingaro. Il bimbo piangeva e chiamava sua madre, ma nessuno – nemmeno una delle donne che passavano di lì – intervenne. Jean, nascosto dietro un muro, tirò un sasso in testa a uno delle due SS e il piccolo ne approfittò: morse quello che lo tratteneva e fuggì.
Aveva rischiato molto, eppure ora si sentiva meglio; per troppo tempo aveva chiuso gli occhi di fronte a quelle ingiustizie, nascondendo il vero sé stesso sotto un finto velo di fanatismo e d'arroganza. Ora si sentiva così stupido.
«Scusami», disse Marco appoggiando i piatti con la cena sul piccolo tavolo, «ma nessuno penserà che un ebreo è nascosto a casa di una SS, no?».
Jean sorrise leggermente, poi si avvicinò all'altro e gli diede una leggera pacca – che somigliava a una goffa carezza – sulla nuca.
«Stupido», borbottò Marco, cercando di darsi un contegno, visto il volto rosso e imbarazzato.
Mentre mangiavano chiacchierarono allegramente, come se quei momenti, e forse così era, fossero solo per loro. Nessuno esisteva al di fuori, nessuno ricercava Marco, nessuno imponeva una vista orrenda a Jean.
«Marco», lo chiamò all'improvviso, il volto serio e il sorriso che un attimo prima aleggiava su quelle fini labbra svanito nel nulla.
«Uhm?».
«Voglio scappare... Sono stufo di questa vita, di essere una SS», disse, vedendo l'espressione dell'altro, decise di chiederglielo: «Vuoi fuggire insieme a me?»
«Jean...».
«Potremo vedere cose nuove!», insisté Jean, poi appoggiò la mano sopra quella scura dell'altro, e lo fissò negli occhi, «Allora?».
«Lo voglio, Jean», mormorò Marco, gli occhi lucidi d'emozione.
Jean si alzò e andò ad abbracciarlo forte a sé, deciso a non nascondere più i sentimenti che dal primo momento aveva provato nei confronti di Marco.
 
Passarono due mesi nei quali prepararono la fuga; si fecero dei documenti falsi e si organizzarono a sparire nel nulla, senza lasciare traccia di loro. Presero solo le cose essenziali: qualche soldo, qualche vestito, del pane. Nessun oggetto pesante o grande.
«Jean, voglio andare a prendere una cosa», gli disse Marco il giorno prima di partire.
Lui non voleva, ma l'altro non ascoltò ragioni.
«Devo mostrartelo. Riguarda noi due», insistette il ragazzo, fissandolo con espressione determinata.
Jean si arrese, consapevole di non poter convincere Marco quand'era così deciso.
«”Fai attenzione” ti aspetti davvero che ti dica una cosa simile? Vengo con te, cretino».
Marco protestò, ma stavolta fu Jean a non sentire ragioni.
Lo baciò sulla guancia – il primo vero contatto intimo che gli concedeva – e Marco arrossì, per poi arrendersi con un leggero sorriso.
«Non cambierai mai», mormorò, prima di rubare un bacio dalle labbra sorridenti di Jean.
 
La strada era deserta quando Jean e Marco si inoltrarono nella zona ebraica. Non si vedeva più nessuno in quel quartiere, prima animato dalla gioiosa risata dei bambini, dai passi delle madri che andavano a comperare il cibo per il pranzo e la cena e dai discorsi degli uomini.
Marco entrò in una piccola casa, seguito a ruota da Jean. Aprì la porta con una chiave che l'altro non aveva mai visto e si introdusse dentro.
L'interno dell'abitazione era spoglio e i mobili erano rovesciati o distrutti. Molte decorazioni in onore del Dio degli ebrei erano sfasciate o sul pavimento.
«Che schifo», brontolò Jean vedendo una bambolina di pezza con su scritto un'oscenità. Era di certo opera di qualche fanatico nazista, probabilmente della stessa polizia.
Marco sparì in una stanza adiacente e pochi secondi dopo ne uscì con una collana.
«Andiamo», sussurrò Jean, sentendosi a disagio. Qualcosa gli urlava di scappare, di andarsene subito, di fuggire velocemente da quel posto.
Quando furono di nuovo in strada, si guardò attorno e allora li vide.
In pochi minuti molti uomini furono su di loro e neanche l'addestramento di Jean né la prontezza di Marco riuscirono a salvarli.
Furono catturati e cloroformizzati.
 
Quando aprì gli occhi era disteso sul pavimento e una fila di persone e soldati lo guardavano come se fosse un verme. Vide gli occhi degli ufficiali luccicare, deliziati dallo spettacolo di fronte a loro.
Si alzò e sentì le manette che gli legavano i polsi, il corpo dolorante e le ferite sanguinanti.
«Aiutare un ebreo a fuggire e non solo... Jean Kirshtein, da lei non me lo aspettavo proprio, vista la sua discendenza», annunciò l'ufficiale con il grado più alto fra tutti.
«Non ha niente da dire a sua discolpa?», domandò un'altra persona.
Jean non rispose, si limitò a fissarli uno ad uno, chiedendosi se davvero non vedessero la scorrettezza delle idee del loro Führer, se non vedessero la stessa pazzia e lo stesso odio che aveva visto lui.
«La condanniamo a essere torturato e fucilato per alto tradimento», disse poco dopo.
Jean tremò, ma poi sorrise arrogantemente. La morte lo spaventava, ma piuttosto che vivere una vita vuota come la loro, morire gli sembrava dolce.
Marco fu trascinato, sanguinante e pesto, senza un braccio – fasciato senza cura – e con un occhio completamente rosso a causa del sangue.
«Marco», sussurrò. Poi vide il sorriso di uno degli ufficiali e si pentì, capendo di aver dato soddisfazione a quelle insulse persone.
«Sarà in un'altra vita, Jean», fu la risposta sussurrata di Marco, che nessuno notò o sentì a parte lui.
Un'altra vita?, si domandò fugacemente.
Marco fu posizionato contro il muro di spalle.
Poi lo fucilarono.
Jean gridò, gridò così tanto che la voce gli mancò. Insultò gli ufficiali, sputò addosso a uno.
E quando vide che quell'uomo – offeso per lo sputo – aveva intenzione di ucciderlo, se la prese solo con lui. L'ufficiale ci cascò, reagì e gli diede quello che voleva con la crudele lentezza tipica dei sadici.
Gli sparò alle gambe, poi alle braccia e infine al petto.
Nell'altra vita, Marco, pensò Jean.
Infine fu il buio.

 
 
   
 
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