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Autore: Black_Lily_13    09/11/2014    8 recensioni
C’erano molte leggende che venivano tramandate a Castlecross, la più famosa di tutte quella riguardante la figura che abitava il castello nel cuore della palude. C’era chi sosteneva che si trattasse di uno Spettro, chi di un Demone. Su una cosa però tutti concordavano: Sherlock era in grado di esaudire i desideri celati nel cuore di chi fosse disposto a rinunciare a qualcosa di prezioso. John Watson, dal canto suo, era un uomo di scienza, e non aveva la minima intenzione di farsi coinvolgere nello strano gusto per il soprannaturale che i suoi nuovi compaesani sembravano condividere. Questo, almeno, fino a quando il destino non decise di portargli via la cosa che più amava al mondo... e lui, impotente, non poté che affidare la sua unica possibilità di salvarla a chi non avrebbe mai creduto potesse esistere. Costretto in cambio a mettersi al servizio di Sherlock per un anno, John imparerà pian piano che il buono può celarsi anche laddove non dovrebbe esserci per antonomasia. E, forse, riuscirà a scoprire e salvare da una minaccia nascosta il cuore di chi credeva di avere il petto pieno di sola polvere.
Genere: Dark, Romantico, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash | Personaggi: John Watson, Mycroft Holmes, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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VIII.        Reason

Sherlock spalancò gli occhi di colpo. Sondò la stanza con rapidi movimenti delle pupille, il respiro lievemente pesante, i muscoli contratti e pronti a scattare. Dettagli, questi, che avrebbero dato ad un osservatore esterno l’impressione che temesse la presenza di qualche intruso nella stanza.

E in un certo senso era così: perché nell’incoscienza generata da quel violento drenaggio delle sue energie, Sherlock aveva avuto la strana sensazione di essere stato toccato da una presenza ostile.

In realtà, rifletté Sherlock grugnendo infastidito, era molto più probabile che quella percezione fosse riconducibile ad un evento avvenuto prima del suo svenimento: se avesse dovuto pensare razionalmente, era plausibile che il contatto che l’aveva suscitata fosse avvenuto quando aveva esteso la sua coscienza al di fuori dei confini del suo corpo, per raggiungere e sanare il figlio di John.

L’euforia del momento gli aveva forse impedito di identificare il pericolo sul momento, ma la sensazione di essere stato sfiorato da qualcosa o qualcuno a lui avverso era stata registrata dalla sua mente per essergli riproposta quando i livelli di adrenalina nel suo sangue fossero scesi a livelli più accettabili - ovvero, quando le forze lo avevano abbandonato ed era scivolato a terra.

Laat[1]” mormorò incollerito, scuotendo la testa per scacciare dal suo organismo la sfuggente traccia di panico che vi aleggiava.

Non c’era motivo di crucciarsene, adesso. Qualsiasi rischio avesse corso, ormai era storia vecchia.

Il Demone sbuffò. Tentò di sollevarsi appena da terra, facendo leva sul braccio destro con tutte le sue forze - il sinistro, rimasto intrappolato sotto di lui durante tutto il tempo in cui non era stato cosciente, era praticamente assimilabile ad un pezzo di carne morta. L’unico risultato che riuscì a conseguire, dopo uno sforzo che gli scosse i muscoli del braccio fino a farlo tremare, fu quello di ricadere miseramente sul pavimento con un tonfo.

Sherlock mugolò, affondando il viso nell’incavo dell’avambraccio ed esalando un sospiro irritato.

Si sentì una risata roca e beffarda. “Brgda ul[2]?” gracchiò Yorick, squadrandolo con derisione dall’alto del suo palchetto. Aveva atteso in gloria il momento in cui avrebbe potuto rivalersi con Sherlock del silenzio che gli aveva imposto, e ora che ne aveva l’occasione l’avrebbe sfruttata al meglio.

Il Demone lo guardò di sottecchi, mugolando una non meglio definibile maledizione verso quell’ingrato mucchio d’ossa e maledicendo anche sé stesso per non averlo ridotto a polvere con cui concimare il giardino alla prima ribellione.

“Taci…” gli sibilò contro, cercando di alzarsi una seconda volta. Stavolta andò meglio: con uno sforzo titanico riuscì a sollevarsi sui gomiti, posizione che gli consentì di avere una migliore visione sulla stanza. Poter osservare la figura di John Watson, abbandonata sul pavimento come un mucchio di panni logori a pochi passi da lui, fu come un balsamo per il suo animo scosso. Scacciò via le ultime propaggini dell’inquietudine che aveva provato al risveglio, facendolo sospirare di sollievo.

Il conforto che provò fu evidente nel modo discreto in cui le sue labbra si piegarono delicatamente verso l’alto, in un sorriso che gli increspò gli angoli degli occhi e gli accese le iridi di una luminosità calda e ambrata. Yorick osservò con occhio critico quei cambiamenti avvenire sul volto del Demone, grugnendo tutta la sua disapprovazione.

“Sembri un cucciolo di fronte al suo nuovo giocattolo.” Disse bellicoso a Sherlock, accertandosi di far trasparire dalla sua voce tutto il disgusto che provava, “Manca soltanto che tu ti metta a scodinzolare. Patetico.”

Sherlock lo ignorò puntualmente, facendosi un piccolo appunto mentale di metterlo a mollo nell’acido cloridrico quando ne avesse avuto il tempo e la voglia. Si trascinò verso John, strisciando sul pavimento - azione che provocò una nuova serie di brontolii di quell’inutile suppellettile biancastro. Si portò a incombere sulla figura supina del Dottore, che sembrava immerso in un sonno privo di ogni coscienza o pensiero.

Le sue pupille si dilatarono, il suo respiro si coordinò con quello dell’uomo sotto di lui: guardò cautamente il modo in cui le labbra di John si arricciavano, per poi socchiudersi e rilasciare il suo caldo respiro in piccoli, timidi sbuffi che solleticavano il volto del Demone; si lasciò rapire dalla delicata trama di solchi che, sul suo volto, raccontavano di una vita fatta in egual misura di gioie travolgenti e ombrosi dolori; solo, si astenne dal toccare, nonostante la pelle delle sue mani fremesse dal desiderio di quel contatto, timoroso che il tocco della sua carne bollente risvegliasse l’uomo da quel sonno di esaustione che gli permetteva, finalmente, di osservarlo per quanto tempo desiderasse.

“Sei un vero rompicapo…” sussurrò, ridendo fra . Ed era suo, tutto suo da risolvere per i seguenti dodici mesi.

 “Un rompicapo? Quel penoso normolap[3]? Ma se è l’essere più banale che abbia mai messo piede in questo Castello!” sghignazzò Yorick alle sue spalle, facendo drizzare i capelli sulla nuca del Demone con il tono canzonatorio della sua voce.

Se Sherlock avesse avuto a portata di mano un oggetto da lanciare a Yorick, a quel punto il teschio si sarebbe già ritrovato ad essere ridotto in frammenti disordinati sul pavimento. Non c’era niente di utile a tale proposito nelle vicinanze, purtroppo, e il Demone era ancora troppo infiacchito per far orbitare nel suo palmo quella splendida lampada ad olio che gli ammiccava dall’ultima mensola della libreria, e sembrava pregarlo di essere lanciata; avrebbe dovuto ancora una volta ricorrere soltanto alla sua superiore capacità di formulare insulti.

“Oh, non preoccuparti. Il tuo primato non è affatto messo a rischio da lui. Sei e resterai sempre la cosa più noiosa e scontata su cui abbia mai posato gli occhi.” Esclamò, condendo le sue parole con giusto un pizzico di veleno,

“Anche più di Mycroft?” ribatté Yorick impenitente, provocando nel Demone una leggera risata.

A quel suono cavernoso e profondo, il corpo di John fu scosso da un intenso tremore. Lo sguardo di Sherlock scattò su di lui, e il Demone si trovò a trattenere il fiato, piantando i canini nell’interno morbido del suo labbro inferiore nell’attesa che quei due globi color del mare si aprissero su di lui.

Non avvenne. Invece, il tremore fu seguito da un lungo, luttuoso lamento, che sfuggì dalle labbra di John in singhiozzi spezzati e sofferti. Sherlock, stupefatto, osservò la calma dell’uomo frantumarsi in innumerevoli schegge di terrore e panico, il suo respiro accelerare e farsi difficoltoso, i suoi muscoli contrarsi, i suoi occhi muoversi in maniera convulsa dietro le palpebre sottili.

Se chiudeva gli occhi, poteva immaginare i surreni di John lavorare febbrilmente per produrre e rilasciare massicce dosi di adrenalina nel sangue, che pompato dal cuore in tutto il corpo con ritmo sempre più incalzante preparava il suo fisico a combattere un qualche nemico invisibile, ma non per questo meno reale.

“Cosa Diavolo gli prende?” domandò Yorick, abbandonando tutta la sua ironia in cambio di un tono fortemente preoccupato.

Sherlock alzò le spalle, sfiorando con i polpastrelli una gocciolina di sudore che si era formata sul sopracciglio del Dottore. “Non ne sono certo… credo che stia sognando…”

John boccheggiò, inarcando la schiena. Sherlock perì alla curiosità di sapere cosa stesse accadendo nella mente dell’uomo. Si inginocchiò, sciogliendo i muscoli delle braccia per riattivare definitivamente la circolazione in quello sinistro e conferirgli un più acuto senso del tatto. Cautamente raggiunse le tempie striate di fili argentei di John con i palmi delle mani, giungendo alla distanza di un solo capello dalle tempie dell’uomo.

Uran-tia ananael[4] esclamò, attendendo che propaggini lattiginose di coscienza fluissero dalle sue dita e carezzassero la pelle del Dottore. Poi, fece collidere con un gesto risoluto le sue mani con la testa dell’uomo.

E perse la capacità di raziocinio.

Non appena le loro pelli si sfiorarono, infatti, il mondo di Sherlock si dissolse in un turbine travolgente di colori vivi e sconvolgenti sensazioni. Fu come se un sole fosse stato improvvisamente acceso in una stanza immersa per secoli nel buio. Come se sopra e sotto, bianco e nero, giusto e sbagliato avessero perso qualsiasi significato.

E la ragione di tutto ciò era che, dai punti in cui i loro corpi erano congiunti, un quantitativo spropositato di energia aveva iniziato a scorrere prepotentemente da John a Sherlock, con forza bruciante e quasi violenta. Il Demone ne fu sopraffatto, tutti i suoi sensi portati al sovraccarico. Poteva percepire ogni singola cellula del suo corpo pervadersi di nuovo vigore, il suo spirito brillare di luce nera ed espandersi oltre i confini costrittivi di quel corpo dall’aspetto umano. Il piacere era così intenso, così obnubilante, che Sherlock non poté fare a meno di rovesciare la testa all’indietro e gridare con quanto fiato aveva nei polmoni.

Con la sua mente impossibilitata ad andare oltre il basico percepire, e il suo corpo concentrato nello sfruttare tutti i suoi sensi per godere di quella sensazione estatica, l’essere di Sherlock regredì ai suoi istinti più primordiali. Sordo ai continui richiami di Yorick, che confuso non riusciva a comprendere cosa stesse succedendo davanti ai suoi occhi, abbandonò la sua forma umana in favore di quella Demoniaca, più congeniale ad un così straordinario quantitativo di forza vitale.

Era stato così difficile per lui ultimamente assumere e mantenere quella forma, che quando liberò le sue ali dalla loro prigione di carne fu quasi come nascere per una  seconda volta. Le sentiva tutte, le piume che le componevano, dalle scapolari alle remiganti, con una chiarezza che negli ultimi quarantaquattro anni aveva solo sognato. Le mosse sperimentalmente, gridando ancora e ancora, mentre l’osso frontale del suo cranio si deformava per dare vita a due corna ricurve e affilate come rasoi. E in quel momento, dopo tanto, troppo tempo, Sherlock sentì di essere di nuovo realmente sé stesso, e non una pallida ombra di ciò che era stato.

Quando, con la stessa estemporaneità con cui era iniziata, quella corrente di energia venne meno, e la mente di Sherlock poté nuovamente formulare un flusso coerente di pensieri, il Demone prese un lungo respiro. Le sue mani ancora appoggiate alle tempie di John, la vista che sfavillava di mille spettri cangianti, comprese infine cosa di preciso fosse accaduto… e la caratteristica che rendeva il biondo Dottore davanti a lui diverso da tutti gli altri esseri umani.

Sorrise.

“Oh, avevo ragione a quanto pare.” Sussurrò, passandosi viziosamente la lingua sugli affilati canini che facevano capolino dalla sua bocca. Si alzò in piedi, e per una volta nel farlo non si sentì venir meno.

Se solo Mycroft potesse vedermi adesso… dovrebbe rimangiarsi tutte quelle sciocchezze sulla sua preoccupazione per il mio benessere. Glielo farei vedere io chi di noi due è quello debole.”

Sospirando tutto il suo sollievo, Sherlock distese le sue ali in tutta la loro maestosità, sobbalzando appena ai lievi schiocchi che facevano quelle ossa ormai disabituate ad avere tanta possibilità di movimento. Si sentiva bene come non si era sentito da decenni.

Yorick si schiarì la voce, e Sherlock lo guardò da sopra una spalla, le sopracciglia inarcate in due parentesi arroganti.

“Cosa è successo? Per un attimo ho avuto quasi l’impressione che ti stessero uccidendo, da quanto strillavi.” Gli chiese il teschio, con voce tremolante come la fiamma di una candela.

Sherlock gesticolò vagamente con le mani nella sua direzione, per poi inginocchiarsi di nuovo a fianco di John. Il malessere che aveva segnato il suo viso e il suo corpo fino a pochi istanti prima era completamente sfumato in un’espressione placida e tranquilla: solo alcune sparute goccioline di sudore, che costellavano umide la sua fronte distesa, restavano a memento di quello che era avvenuto. Non più timoroso di turbare la sua pace, Sherlock passò la sua mano sulla fronte dell’uomo, che rabbrividì lievemente quando il suo corpo registrò il calore che il Demone irradiava.

Sherlock lo vide socchiudere appena gli occhi, e osservarlo con quelle gemme iridescenti da sotto palpebre appesantite dal sonno.

“Shhhh. Va tutto bene, Darilapa El[5]. Riposa. Domani sarà un giorno frenetico… perché ho finalmente trovato qualcosa in cui potrai essermi utile.” Gli ordinò soavemente, chiudendogli gli occhi con una delicata carezza dei polpastrelli.

John, che non aveva mai ripreso realmente conoscenza, obbedì prontamente, ricadendo in un sonno profondo e, questa volta, senza sogni. Gli occhi di Sherlock si illuminarono di una luce pericolosa, il suo viso si deformò in una maschera maliziosa e tagliente. Raccolse John da terra con un gesto elegante, la facilità con cui riuscì a reggere con le braccia tutto il suo peso equiparabile a quella con cui una madre stringe al petto il figlio lattante; c’era una spettrale dolcezza, nel modo in cui lo teneva stretto a sé, unita a un qualcosa di molto più macabro e innominabile che avrebbe fatto rizzare i capelli sulla testa di Yorick, se solo ne avesse avuti.

Perché il teschio poteva vederla chiaramente, negli occhi pallidi del Demone, la fiamma gelida che preannunciava il suo gettarsi in una nuova, folle e pericolosa impresa. Quel fuoco che non preannunciava mai niente di buono, che aveva già visto negli occhi di Sherlock quando, ormai quasi duecentonovantanove anni prima, aveva deciso di punto in bianco di lasciare gli Inferi per non farvi più ritorno.

“Sai Yorick, quest’oggi mi hai dimostrato che neppure tu sfuggi alla mia valutazione sulla generale idiozia di chi non sia me.” Gli disse Sherlock, sorprendendolo con il tono vizioso della sua voce,

“Ah sì? E perché, di grazia?” si costrinse a rispondere lui, ordinando alle sue parole di non tremare.

Sherlock lo guardò per una frazione di secondo, per poi riportare i suoi occhi, che subito persero l’affilatezza riservata a Yorick, sulla misera forma del Dottore. L’uomo, che rispondendo al tocco delle braccia del Demone aveva affondato la testa nell’incavo del suo collo,  ghermì con una mano la stoffa della camicia di Sherlock, in un gesto istintivo che per gli esseri umani rappresentava da due milioni di anni l’esigenza di sentirsi al sicuro. Il Demone utilizzò le sue maestosi ali per avvolgerlo, celandolo allo sguardo del mondo.

“Perché, amico mio, questo essere umano in particolare è l’essere più interessante con cui abbia avuto a che fare in tutta la mia centenaria esistenza.” Sospirò, ghignando nella direzione di Yorick per mostrargli tutta la sua soddisfazione.

Il pallido essere deglutì, per poi schiarirsi la voce. “E cos’ha di tanto speciale?”

Il modo in cui Sherlock sogghignò nel rispondergli lo fece trasalire di orrore. “Semplice. La mente di quest’uomo è in grado di partorire Sogni Neri.”

Non appena terminò di parlare, prima che Yorick potesse anche solo formulare l’abbozzo di una risposta, la figura di Sherlock venne avvolta da un’incandescente fiamma nera, che proiettò bagliori accecanti in tutta la stanza, donandole ombre dai contorni funerei. Sparì un istante dopo, inghiottito dalla cortina di fumo che essa generò, portando con sé John e lasciando Yorick da solo a riflettere su ciò che gli era appena stato rivelato.

Sogni Neri. Nati soltanto dalle menti degli uomini che avevano respirato il putrido fiato della Morte, ed erano sopravvissuti per poterlo raccontare, erano per le creature concepite dalle fiamme dell’Averno il corrispettivo di un sorso d’acqua fresca per un viaggiatore del deserto. Trovare chi era in grado di sognarli e sopravvivere era cosa rara, e i Demoni che ci erano riusciti si contavano sulle punte delle dita di una mano (non che Yorick avesse possibilità di farlo, ovviamente…); ancora più esiguo era il numero di coloro che, poi, non avessero finito per abusare di una tale, inesauribile fonte di energia vitale e fossero stati condotti alla rovina.

“Spero che tu sappia quello che stai facendo ragazzo…” mormorò Yorick alla stanza vuota.

L’unica consolazione che aveva era rappresentata dal pensiero che, se le cose fossero scivolate dalle mani del suo idiota preferito, il Fratellone sarebbe intervenuto e avrebbe posto fine a quella follia.

O, per lo meno, così si augurava.

***

Per John Watson, la notte in cui sigillò il suo patto con il Demone che infestava il Castello della palude fu segnata da un altalenarsi continuo di sonno e veglia. I contorni tra i due stati erano così labili, e il suo fisico così provato dagli avvenimenti di quel giorno e dei tre precedenti, che l’uomo non fu però mai capace di distinguere con sicurezza quando stesse sognando da quando i suoi occhi fossero effettivamente aperti su quel luogo surreale e misterioso che era il posto dove si trovava.

Ad un certo punto, ad esempio, ebbe l’impressione di trovarsi davanti un bellissimo angelo dalle maestose ali nere, ammantato in una calda luce che, accecante, impediva a John di vederlo in volto. Quella creatura gli aveva parlato, allungando verso il suo viso una mano il cui tocco era come fuoco vivo sulla sua pelle, ma John non aveva compreso le sue parole: solo, si era sentito avvolgere da una dolce sensazione di protezione, che aveva sedato le sue angustie e gli aveva fatto pensare che, sì, tutto sarebbe andato per il meglio, che Hamish sarebbe stato bene e lui al sicuro.

Per molto tempo, fu certo di aver sognato. Ma quella sensazione intrinseca di sicurezza non lo avrebbe abbandonato per tutto il resto della sua vita.

***

“Dottor Watson? Caro? È sveglio?”

John mugolò infastidito. Strizzò gli occhi, rifiutandosi categoricamente anche solo di prendere in considerazione l’idea di aprirli, e si rigirò nelle calde coperte che lo avvolgevano, dando le spalle a chi era lì per svegliarlo.

“Altri cinque minuti…” tentò di mugugnare, anche se quello che effettivamente uscì dalle sue labbra non risultò affatto simile ad alcun tipo di parola umana.

In risposta alla sua richiesta, l’uomo sentì qualcuno sospirare divertito, poi un rumore di passi che si allontanavano. Dovette essersi assopito nuovamente, perché dopo quelli che sembrarono soltanto pochi istanti le sue narici furono solleticate da un mieloso profumo di tè. John inspirò profondamente, riempiendosi i polmoni di quell’odore che tanto sapeva di casa, e che aveva quasi la sensazione di poter assaporare sulle labbra. Sorrise, socchiudendo un occhio sperimentalmente: poggiato aggraziatamente sul comodino che costeggiava il letto in cui era disteso, c’era un vassoio di vetro su cui svettava una tazza di ceramica. Il motivo floreale che l’abbelliva aveva una delicatezza che parlava di altri tempi; il fuggevole filo di vapore che si sollevava dal liquido dorato che conteneva fece venire a John l’acquolina in bocca.

Sospirando soddisfatto, l’uomo si lasciò cullare da quell’atmosfera familiare, pensando che in pochi minuti si sarebbe alzato e avrebbe svegliato Hamish, avvertendolo che Mrs. Thompson sarebbe arrivata da lì a poco per la sua lezione di Francese.

Non si rese conto da subito che c’era qualcosa di estremamente fuori posto, in quella mattina. Il suo cervello ci mise un po’ a masticare i dettagli stonati, a restituirgli i ricordi del giorno precedente, a metterlo in allarme sul fatto che qualcosa di fatidico era avvenuto e niente sarebbe stato mai più come prima. Quando lo fece, lo sconvolgimento fu tale che a John mancò il fiato.

Tutti i muscoli del suo corpo si contorsero all’unisono, facendo scattare il suo corpo con la repentinità di una molla e sbalzandolo fuori dal morbido letto in cui era affondato. Il Dottore finì sul pavimento, tirandosi dietro le coperte in cui si era crogiolato fino a poco prima e atterrando malamente sulla sua gamba destra, che protestò lanciandogli una scossa di dolore.

La mano di John scattò verso il focolaio di quel male accecante… e fu allora che l’uomo vide il marchio impresso nella pelle del suo avambraccio. Faceva capolino dai brandelli semi-carbonizzati della manica della sua camicia: una serie di cerchi concentrici, triangoli sovrapposti e simboli che l’uomo non riusciva a interpretare.

Lo osservò a lungo, in gola un nodo sempre più stretto che gli rendeva difficile respirare e gli faceva lacrimare gli occhi. Non era disegnato in linee nere e spesse, né formato da rosse cicatrici di pelle marchiata a fuoco: sembrava affiorare dalla morbida pelle del suo avambraccio in maniera quasi spontanea, come i nei che lo circondavano e la voglia di nascita che gli segnava il fianco destro; anche il suo colore era più simile a quello di una macchia della pelle che ad altro.

Come se fosse stato da sempre parte di lui. Come se non gli fosse stato imposto da quel Demone con gli occhi caleidoscopici.

Ai ricordo di quelle gemme ardenti il cuore di John perse un battito. Era reale. Era tutto reale. Aveva stretto un patto con un Demone. Era in trappola.

Proprio mentre un singhiozzo disperato gli sfuggiva dalle labbra, il suono lontano di un violino proruppe nella stanza, e la testa di John scattò verso l’alto. Le note struggenti di una melodia che l’uomo non aveva mai sentito danzavano nell’aria, suadenti e maliziose a tratti, poi allegre e gaudenti, poi maliziose ancora, in un crescendo spiraleggiante che lo teneva con il fiato sospeso e gli faceva dimenticare delle grida che premevano per uscire dalla sua gola.

Era come se gli parlasse, quella musica sublime, raccontandogli di avventure ancora da vivere, posti nuovi da visitare, situazioni pericolose da affrontare con coraggio e astuzia. Gli parlava di sé: John non poté impedirsi di seguirla.

Si divincolò dalla soffocante stretta delle coperte, alzandosi in piedi facendo leva su comodino e materasso con le braccia. Il suo braccio sinistro era in preda ai tremori, la sua gamba era interessata da spasmi continui, e John non avrebbe permesso a niente di tutto questo di impedirgli di raggiungere la fonte di quella musica che sembrava risuonare nel nucleo stesso del suo essere.

Zoppicò sgraziatamente fino alla porta, ringraziando mentalmente chiunque si fosse peritato di portare il suo bastone nella stanza che gli era stata riservata e sistemarlo in bella vista, in modo che potesse afferrarlo al volo. Uscì dalla stanza senza riservare più di un secondo sguardo ai vestiti nuovi e puliti che, su una sedia vicina,  gli erano stati lasciati da Mrs. Hudson perché si cambiasse.

Il tè aromatizzato alla cannella che la donna gli aveva portato a mo’ di buon giorno rimase a raffreddare su quel comodino fino a raggiungere la temperatura di una lastra di ghiaccio.

***

John percorse i corridoi di quella sterminata magione come un fantasma. Niente pareva aver senso, in quel luogo: porte, scalinate, ampi androni sembravano succedersi senza alcuna logica, come in un labirinto; John percepiva il loro mutare dopo ogni suo passo, tanto che mai si guardò indietro nel suo percorso, sicuro che i suoi occhi non avrebbero ritrovato l’apertura nella quale si era appena immesso, o la gradinata che tanto l’aveva fatto penare per essere salita. Talvolta ebbe l’assurda sensazione che il Castello fosse una creatura vivente, le cui interiora reagivano alla sua intrusione intricandosi convulsamente, pronte a stritolarlo; in altri frangenti, invece, fu certo che quei mutamenti fossero accuratamente orchestrati dal Demone che di quel luogo aveva fatto la sua dimora.

Se il suo destino non fu quello di perdersi per sempre in quel dedalo ingarbugliato di pareti, condannato a vagare in eterno alla vana ricerca di una via di uscita, fu solamente grazie a quella sublime musica che lo guidava.

“Vieni da me.

Vieni da me.

Non avere paura.

Potrebbe essere rischioso.” gli sussurravano ammaliatrici le lunghe, struggenti brevi che si susseguivano con ritmo quasi stantio,

Ma il tuo cuore di acciaio brama il pericolo,

ne ha bisogno per continuare a battere.

Con me avrai il pericolo

Con me avrai l’avventura.” gli assicuravano quei ghirigori infiniti di crome che nessuna mano umana sarebbe stata in grado di riprodurre,

“Vieni con me.

Non ti pentirai di non esserti mai voltato indietro.”

La musica cessò all’improvviso, abbandonando John proprio davanti alla porta che aveva varcato il giorno prima quando, accompagnato da Mrs. Hudson e Miss Adler, aveva fatto la conoscenza di Sherlock. Con il fiato corto per quel percorso interminabile, e nelle orecchie ancora l’eco di quella melodia angelica, John poggiò lentamente la mano sulla maniglia di gelido ottone, abbassandola e spingendo verso l’esterno.

La stanza che si aprì davanti a lui, familiare nella sua estraneità, era immersa in un’oscurità quasi totale. Solo una debole e morente fiammella, che si lamentava nel focolare mordicchiando un unico ciocco di legno, segnava i contorni delle figure che le erano più vicine. Prima fra tutti, quella di Sherlock.

Era affondato in una consunta poltrona che, anche nel buio, sembrava aver visto giorni migliori. I suoi occhi erano chiusi, i suoi capelli selvaggi. Il violino ancora poggiato armoniosamente sotto il suo mento, inclinato verso il basso quel tanto che permettesse al legno lucido di riflettere i barlumi di quella macilenta fiammella e proiettarli sul volto del Demone.

John trattenne il fiato. Per uno come lui, pasciuto a suon di nozioni scientifiche, trovarsi davanti a quanto di meno scientifico potesse esistere aveva un che di terrificante. Un che di terribilmente affascinante.

Come se non bastasse, lui a quella creatura che se ne stava immobile davanti al camino, le gambe distese e i piedi poggiati oziosamente su un minuscolo sgabello, silenziosa e incurante del mondo, doveva ogni cosa. Un debito di sangue che avrebbe dovuto ripagare, prima o poi.

“Ci hai messo un po’ a svegliarti.” Sherlock proruppe all’improvviso, e la sua voce baritonale rimbombò diretta nel petto di John.

L’uomo trasalì lievemente, spiazzato. Non credeva che il Demone si fosse accorto della sua presenza, in fondo si era mosso per il Castello in maniera sufficientemente silenziosa. Fece alcuni passi nella stanza, incerto su come e se rispondere a quel rimprovero neppure tanto velato che il Demone gli aveva lanciato contro.

“Mi dispiace. Non sapevo che aveste bisogno di me.” Mugolò alla fine, sperando che un atteggiamento remissivo sarebbe stato per lui la scelta vincente.

“Abbandona quell’atteggiamento da cane bastonato, non ti si addice per niente.”

No, a quanto pareva. John si martoriò con i denti l’interno delle guance, fino a quando un caldo fiotto di sangue dal sapore metallico non gli invase la bocca. Alzò gli occhi, che fino a quel momento aveva tenuto incollati sul pavimento. Davanti a lui, Sherlock (che aveva abbandonato il suo violino sulla poltrona per fronteggiare John in tutta la sua maestosità) lo squadrava dall’alto in basso, la bocca ridotta a una linea sottile di disappunto.

 “Vedo che non hai beneficiato degli abiti che ti ho fatto portare da Mrs. Hudson. La poverina ha lavorato tutta la notte, per riadattare quelle cose alle tue misure.” Gli disse, inarcando le sopracciglia in maniera quasi innaturale.

La mano di John si strinse istintivamente contro l’impugnatura del bastone. Annuì gravemente, ripetendosi ancora e ancora che non sarebbe stata una buona idea inimicarsi niente meno che un Demone.

Sherlock prese atto della sua condiscendenza. Se non avesse saputo che aveva davanti un uomo che era sopravvissuto ad un’atroce guerra, avrebbe giurato di essere al cospetto di un noioso paesanotto mite e terrorizzato. Avrebbe dovuto trovare il modo di far capire a John che quell’atteggiamento non solo non gli era gradito, ma gli era decisamente indigesto. Ma ci sarebbe stato tempo, per quello: adesso Londra li stava aspettando.

Esalò un lungo, rassegnato respiro. “Pazienza. Ora però vai a prepararti. Ci sono così tante cose che dobbiamo fare, quest’oggi!” esclamò, afferrando John per le spalle e girandolo verso la porta da cui era entrato.

L’uomo oppose decisa resistenza, spostando il suo peso all’indietro per contrastare la spinta del Demone. “C-cosa?” balbettò, cercando gli occhi di Sherlock coi suoi,

“Il Lavoro, John! Oggi ci dedicheremo al Lavoro.” Ribatté il Demone irritatamente, spingendolo più forte.

John non aveva la più pallida idea di cosa intendesse Sherlock con il termine “Lavoro”, e non era neppure certo di volerlo realmente sapere. Le immagini apocalittiche che gli affollavano la mente al pensiero di quale fosse il mestiere di un Demone, poi, non andava molto d’accordo con il suo riflesso gastro-esofageo.

“Hamish non avrebbe reagito così. Lo avrebbe sfiancato a furia di domande.”

Hamish. Il pomeriggio precedente John era collassato prima di potersi accertare che Sherlock avesse portato a termine la sua parte dell’accordo. Prima di essere certo che suo figlio stesse bene. Che razza di padre avrebbe tollerato una cosa del genere? Puntò i piedi a terra, rigirandosi nella presa di Sherlock fino a che i loro visi non furono che a meri centimetri di distanza.

“Prima, se permettete, avrei una richiesta per voi.”

C’era acciaio nella sua voce, e polvere da sparo. Ascoltando attentamente vi si sarebbero potute rintracciare le vestigia del Capitan John Watson, del Quinto Reggimento dei Fucilieri Northumberland, solitamente sepolte sotto sorrisi bonari e maglioni informi. A Sherlock la cosa non sfuggì, e le sue labbra si arricciarono in un sorriso sornione.

“Ah sì? E cosa ti fa pensare di essere nella posizione di potermi fare richieste di alcun tipo?”

Il tono provocatorio che pervadeva la risposta che Sherlock aveva formulato incendiò le iridi del Dottore. L’uomo scattò all’indietro, allontanandosi da Sherlock. Le sue pupille, ridotte dall’ira allo spessore di una capocchia di spillo, lo osservavano velenose. Il sorriso di Sherlock raggiunse i suoi occhi, conferendogli una sfumatura dispettosa.

“Tranquillo, Dottore. Se la richiesta riguarda la condizione di tuo figlio, sappi che noi Demoni siamo vincolati in maniera imprescindibile alle clausole dei Patti che stringiamo.” Esclamò, tendendo la mano verso il caminetto.

Subitamente, la consunta fiammella che lo abitava prese vigore, tingendosi di una disarmante tonalità di blu in un coro di crepitii e schiocchi. John osservò rapito le lingue di fuoco danzare in maniera sempre più convulsa, fino a quando nei bagliori più intensi non cominciò a distinguere il succedersi di confuse immagini.

Quando il volto di Hamish comparve fra le fiamme, per poco le sue gambe non cedettero.

Era sveglio. Stava bene. I suoi occhi erano stanchi e tristi, le sue guance scavate da giorni di febbre e alimentazione stentata, ma era indiscutibilmente, meravigliosamente vivo.

John non combatté le lacrime che gli salirono agli occhi: le lasciò scorrere, e ad ognuna di esse fu come se un’oncia del peso che gli costringeva il petto si sollevasse. Sherlock lo guardò in silenzio, e anche se i suoi occhi gravavano sulla pelle di John come macigni, l’uomo si sentì grato del fatto che il Demone avesse deciso di non parlare.

Solo quando fu certo che John si fosse rassicurato a sufficienza, Sherlock fece scomparire l’immagine del bambino dal focolare. Tese una mano verso John, poggiandola delicatamente sul suo avambraccio.

“Ora, va a prepararti. Londra ci attende.”

John abbassò la testa in un muto, rassegnato assenso. Mentre si allontanava rifletté che, evidentemente, la clausola che gli impediva di lasciare il Castello, se per espresso ordine di Sherlock, non era così vincolante.

***

Nel cupo vuoto della sua dimora infernale, Mycroft osservava nella superficie chiara di un antico specchio lo snodarsi di una scena che non aveva precedenti nella sua memoria. Arricciò il naso, scontento di ciò che vedeva, e per un secondo fu quasi tentato di frantumare l’oggetto che si era fatto ambasciatore di notizie tanto sconcertanti.

Se quello che vedeva rispecchiava il vero, avrebbe dovuto recarsi nel mondo degli uomini al più presto, per arginare la situazione prima che provocasse danni irreparabili. Sperò vivamente che quell’essere umano noto come John Watson non rappresentasse una minaccia per suo fratello: in caso contrario, beh… all’Inferno c’era sempre spazio per una nuova anima da torturare.

 

 

 

 

 

Note dell’autrice:

Già… Sogni Neri.

Devo aver mangiato particolarmente pesante, prima di scrivere questo capitolo xD

Comunque, la cosa che più mi preoccupa da qua in avanti è il problema rating. Lo avevo programmato giallo per tutto il corso della storia… temo che le cose mi stiano appena appena sfuggendo di mano :P Che posso dire… questi due si attirano a vicenda come calamite xD

Bene, fine dei miei vaneggiamenti ;) Al prossimo capitolo, grazie ancora a tutti voi per il sostegno che mi date! Sono così felice che mi metterei a girare in giardino come un orsetto ;D

Baci :*

PS: ha inizio la mia nuova, maestosa impresa… come scrivere della risoluzione di un crimine senza scrivere della risoluzione di un crimine? :P Mi voglio proprio bene….



[1] Laat: maledizione;

[2] Brgda ul?: già finito di dormire?

[3] Normolap: essere umano, figlio di un uomo.

[4] Uran tia ananael: che mi mostri ciò che cela, mostrami i tuoi segreti.

[5] Darilapa el: essere prezioso, “tu che sei prezioso”.

   
 
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