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Autore: Soqquadro04    09/11/2014    3 recensioni
[AU!NY!Delena – tutti umani | Columbia University of New York | abuso di tè, presenza di gatti e gente logorroica | 6940 parole]
Elena ha vent'anni, porta gli occhiali perché è questo che succede a leggere di notte cercando di non farsi scoprire e le piacciono le belle parole, quelle che le senti o le leggi (o le scrivi, se sei fortunato) e dopo vorresti impararle a memoria, tenerle nascoste nel cuore per un po', il tempo di sentirle sulla punta della lingua, amare di momenti passati e dolci di tutto quello che deve ancora essere – siccome non è fortunata studia da traduttrice, per portare lontano le parole di chi lo è. Lei, per quel che vale, ne usa un po' troppe e non sono mai quelle che dovrebbero essere.
Damon ha una gatta bianca e vive la sua vita come il protagonista di uno dei suoi romanzi, pagine archiviate in una cartella senza nome del portatile – storie di gente che non esiste ma forse un giorno esisterà (del resto hanno molto in comune, anche se lui è qui adesso e solo un giorno non ci sarà più).
E poi c'è New York – che, ovviamente, non ha bisogno di presentazioni.
Genere: Commedia, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Damon Salvatore, Elena Gilbert, Un po' tutti | Coppie: Caroline/Tyler, Damon/Elena
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
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Autore: Soqquadro04
Disclaimer: non sono miei e naturalmente non ne scrivo a scopo di lucro – semplicemente trovo fin troppo divertente sconvolgere le loro vite in tutti i modi possibili u.u
Generi: Malinconico, Sentimentale, Romantico, Fluff, Commedia
Avvertimenti: AU!NY!Delena (tutti umani), OOC
Rating: Verde
N/A - Note dell'Autrice:
Elena qua è una cosa tanto tanto tanto OOC e tanto tanto tanto adorabile – parla più o meno come me e mi viene voglia di prenderla e rimpinzarla di cioccolatini. E di Damon dovevo vendicarmi per danni morali quindi gli ho appioppato le frustrazioni da scrittore (e un gatto, perché i gatti possono essere le peggiori maledizioni al mondo e gli esserini più dolci sulla faccia della Terra - e perché non mi sembra tipo da cane) invece dei pennelli. Non avete idea di quanto sia stato complicato scrivere qualcosa che rappresentasse lui cercando di imitare lo stile che potrebbe avere - mai più 'na roba così, non si può fare.

E mi piace sbatterli a NY perché sì.

Questa storia è un'immensa lettera d'amore alla città e a 'sti due idioti, sappiatelo - per questo Skyscrapers, perché è la prima cosa che viene in mente pensando a New York (oltre alla Statua della libertà e a Central Park, of course).
E niente, le voglio bene - e voglio bene anche a questi Damon ed Elena perché sono venuti fuori in un modo assurdo.
Spero non vi dispiaccia :*

A presto,
la vostra Soqquadro

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Skyscrapers

Era troppo per crederla vera; così complicata, immensa, insondabile.
E così bella, vista da lontano: canyon d'ombra e di luce, scoppi di sole sulle facciate in cristallo,
e il crepuscolo rosa che incorona i grattacieli come ombre senza sfondo drappeggiate su potenti abissi.
Jack Kerouac

[…]
Tears don't mean you're losing, everybody's bruising,
just be true to who you are.
Fake shows, egos, fake shows like wow,
and leave me alone.
Real talk, real life, good love, goodnight with a smile,
that's my home.

Don't lose who you are, in the blur of the stars.
Seeing is deceiving, dreaming is believing,
it's okay not to be okay.
Sometimes it's hard to follow your heart.
Ed Sheeran – Who you are

Caroline, una volta, – una volta in cui erano davvero molto ubriache – dall'alto della sua posizione di studentessa di Psicologia le ha detto che c'è un momento preciso in cui ti ritrovi a pensare che il tuo mondo è finito completamente in pezzi e tu sei impazzita e non te ne sei neppure accorta, impegnata com'eri a studiare per gli esami della sessione estiva.

Ad Elena torna in mente, quella volta, proprio mentre capisce che c'è qualcosa di molto grosso e imbarazzante che non va nella sua vita. Nel suo momento, potrebbe dirsi – ovvero quando, all'una di una notte di maggio, inciampa nei jeans del suo migliore amico cercando un reggiseno che sa già non troverà mai più, mezza nuda e con gli occhi ancora gonfi di sonno.

È una consapevolezza improvvisa e in un certo qual modo dolorosa, in ogni caso abbastanza da farla fermare nel bel mezzo del salotto – salotto, poi. Un pezzetto di bilocale di tre metri quadri adibito a tale compito, con un divanetto scomodo e il pavimento coperto di fogli di giornale –, cercando di capire come, esattamente, sia arrivata a quel punto.
Mab apre un occhio, uno solo, e la fissa con sufficienza dalla sua postazione sulla sopracitata poltrona – ricambia lo sguardo dorato della gatta, invidiando la naturalezza con cui subito dopo lei torna a dormire.

Sospira, infilandosi la maglietta e sedendosi sul pavimento, a gambe incrociate, allungando una mano per darle un paio di grattini dietro le orecchie – qualche secondo e l'unico sottofondo ai suoi pensieri sono delle fusa fin troppo rumorose per un felino tanto piccolo. Lasciando vagare lo sguardo, nota il pizzo del suo reggiseno penzolare dal lampadario. Sospira ancora.

E dire che solo sei mesi prima era una persona così normale.
Più o meno.

 

28 novembre 2013

«Nella cultura popolare, dai tempi di Stoker la figura del vampiro è fortemente influenzata dall'immaginario letterario...» la porta dell'aula si apre con un cigolio rivelatore e del tutto udibile – il professor Saltzman non s'interrompe neppure, se non per lanciare uno sguardo di sbieco al ritardatario.

Elena non ci fa troppo caso, alza appena gli occhi dagli appunti, più per un riflesso condizionato che per reale curiosità – ha gli occhiali pericolosamente in bilico sul naso e il thermos del tè che è altrettanto pericolosamente precario sul bordo del banco, nota, mentre del Tizio o della Tizia riesce a vedere solo una gran massa di capelli neri che prende posto proprio davanti a lei, nella fila sottostante. Scocca un'occhiataccia fulminante alla nuca dello sconosciuto e poi riprende a scrivere, ignorando Caroline, che le si contorce di fianco per cercare di guardarlo in faccia – ha quest'idea per la quale è assolutamente necessario saper riconoscere tutti gli studenti dell'Università, ed è inutile ricordarle, di tanto in tanto, l'effettivo numero di persone alla Columbia.

Sorride appena a qualcosa di indistinto che le ha mormorato Care, Saltzman continua a parlare e tutto finirebbe lì – se non dovesse prendere un evidenziatore, certo.

Elena non è sicuramente famosa per nulla di particolare, ma chiunque sano di mente si rende conto dopo i primi cinque minuti che è meglio starle lontano se non vuole finire azzoppato o menomato in qualsiasi altro modo.
Lo sconosciuto, povero lui, non sa di averla dietro fino a che il thermos non gli si rovescia in testa.

 

Cinque minuti dopo sta scusandosi ripetutamente con tale sconosciuto, cercando di aiutarlo a salvare la camicia – è seta, Elena, maledizione che idiota che sei – e ripromettendosi mentalmente di non bere mai, mai, mai più tè a lezione. Mai.
Il fazzolettino bagnato, in ogni caso, sembra non servire a molto – lui sta ancora soffocando imprecazioni fra i denti, fradicio e appiccicaticcio di zucchero, e lei vorrebbe solo sprofondare.

«Scusami, scusami, scusami. Ovviamente pagherò il conto della lavanderia – anche se non credo che possano farci qualcosa nemmeno loro, mi dispiace.» si morde le labbra, la fronte corrugata e la tracolla della borsa che scivola su una spalla – la tira su in fretta, allontanandosi di un passo dal ragazzo per evitare di combinare qualcos'altro (ci manca solo che gli pesti un piede – conoscendosi, è alquanto probabile).

La sorprende quando parla, una smorfia che gli storce le labbra. Ha una bella voce, bassa, piacevole.
«Se volevi attirare la mia attenzione, sai, ci sono metodi anche meno drastici.» la smorfia è un sorriso, capisce – non proprio un sorriso, più un ghigno venato di sarcasmo, un'ombra sul suo volto.

In ogni caso l'insinuazione la fa indignare pesantemente – aggrotta la fronte e incrocia le braccia al seno (denoti chiusura, direbbe Care, se non fosse ancora dentro, piegata in due dalle risate), guardandolo da sotto in su con un'espressione di rimprovero.

«Non è mia abitudine tentare di ustionare il tizio di cui dovrei attirare l'attenzione.» si accorge troppo tardi della libera interpretazione che lascia la frase.

Lui alza gli occhi, divertito – ed Elena sì, no, forse fatica improvvisamente a mettere due pensieri in fila perché non si tratta di occhi, si tratta di Occhi, di quel tipo di iridi che si incrociano una o due o tre volte nella vita, abissi senza fondo, pozzi di segreti e di anime spezzate (gli occhi dello sconosciuto-del-tè sono azzurri come acqua di sorgente, un oceano di sfumature e pensieri sconnessi e indomabili).

La riporta alla realtà – pianeta Terra, situazione imbarazzante e uscite equivoche, come al solito – il vibrare della sua risata nell'aria gelida, il fiato che condensa e il cielo che sembra sul punto di cadere, nuvole grigie e pesanti come piombo. Nessuno fa caso a loro, lì davanti alla porta dell'aula – non c'è mai silenzio alla Columbia, troppa gente in giro, chi corre a lezione con gli occhi all'orologio, sperando di non essere davvero così in ritardo e chi sfida il freddo, sdraiato sul prato a preparare un esame, chi dovrebbe notarli?

«Quindi lo ammetti?» questa volta è un sorriso vero – Elena potrebbe contare sulle dita le cose che sa di lui, eppure per un attimo la sfiora comunque il pensiero che quello è un sorriso da baciare.
Elena non ha mai il controllo della propria testa, lascia che le parole scorrano e facciano capolino e la maggior parte delle volte riescono a uscire anche quando non dovrebbero – e lei non può farci niente, è una cosa che succede e basta (succede perché il silenzio non le piace, nel silenzio ci sono i ricordi e nei ricordi c'è il dolore).

Nonostante questo, quella volta non è lei a parlare – ha già la bocca socchiusa e un'argomentazione valida pronta, ma lui è più veloce.

«Potresti offrirmi un caffè. Per farti perdonare delle maniere violente, intendo.» e allora l'unica cosa che può fare è alzare lo sguardo al cielo con una certa pacata esasperazione e annuire, rassegnata. A sua discolpa, non si può dire di no a degli Occhi così.

 

La lista delle cose che sa sullo sconosciuto-del-tè si allunga progressivamente mentre siedono, uno di fronte all'altra, al tavolino dello Starbucks sulla Broadway, perché anche se ci sarebbe una caffetteria, all'Università, è qualcosa di veramente, veramente terribile ed Elena non ci è più cascata, dopo i primi due giorni da matricola.

Si morde le labbra, stilando mentalmente i punti per evitare di fare – ulteriori – figuracce.

 

(1. Lo sconosciuto, prima di tutto, ha un nome – si chiama Damon Salvatore;
2. È al secondo anno, come lei:
3. Odia il tè, e questa rivelazione l'ha sconvolta, in realtà, perché per Elena è inconcepibile che esista qualcuno con un'avversione verso il tè;
4. Ha un fratello minore, più piccolo di sei anni;
5. È francese per metà;
6. Ha una gatta che si chiama Mab – come la Regina Mab, sì;
7. Abita in uno degli appartamenti del campus con un coinquilino che non c'è mai, come ha scoperto accompagnandolo a darsi una ripulita;)

 

E poi ci sono tante altre piccole cose che non possono stare nella lista, i dettagli che noti della gente quando resti per un'ora o due vicino a una sola persona – di Damon ci sono il modo in cui inclina il capo, il sorriso (quando è vero) che gli fa increspare la fronte, i movimenti delle sue mani mentre parla (belle mani, mani d'artista).

È un tipo buffo, Damon – ha un'ironia pungente, un sarcasmo duro, non parla molto e a volte pare persino diffidente (lo è senza esserlo, senza fartelo capire – non è qualcuno che si fida del primo che passa, anche se finge di farlo).

Lo guarda, Elena, e ogni istante capisce un po' di più che è totalmente diverso da lei – quest'uomo nel silenzio ci vive, ne fa tesoro, non lo spreca, annega nei propri ricordi con il coraggio del soldato e lascia che gli distruggano il cuore, lascia che lo facciano diventare ogni giorno una persona diversa, con un po' più di dolore dentro e un po' meno fiducia fuori.

Sta bene, con lui – succede, ogni tanto, di trovare una persona che ti sembra di conoscere da sempre anche se magari non l'hai mai vista prima (la vedi e dici io ti conosco, io so chi sei, non so come o quando o perché ma io ti conosco), succede ed è magico anche solo per il tempo di un caffè.

Talmente tanto che non può bastare, il tempo di un caffè – non quando ci sono fili incrociati e casi maligni e sconosciuti ostinati.
E allora non si stupisce poi molto quando, già voltati verso due direzioni opposte, pronti a tornare alle loro vite – quella solo una parentesi del destino, un punto di domanda –, lo sente chiamarla.

«Elena?» vorrebbe essere capace di non sorridere, Elena – stringe le labbra, strizza le palpebre e si ferma sul marciapiede affollato. Damon ha un modo strano di dire il suo nome, come se dentro ci mettesse frasi intere.
Si volta, gli risponde a voce forse un po' troppo alta ma il brusio della folla che li schiva con mormorii irritati – due idioti immobili a cinque metri l'uno dall'altra, a bloccare il passaggio – è troppo forte per permettersi di sussurrare.

«Sì?» sorride anche lui, ora – sorride anche mentre, inarcando un sopracciglio, le fa vedere gli occhiali che si è tolta un tempo imprecisato prima, massaggiandosi le tempie per cercare di contenere un mal di testa incipiente.
Spalanca la bocca, incredula – ladro. Un maledetto ladro.

Elena non ci vede, senza occhiali – o comunque vede poco e nulla, ed è assurdo che non se ne sia accorta, anche se non sarebbe la prima volta che li dimentica da qualche parte.
Eppure non può nemmeno arrabbiarsi – o rincorrerlo. Non quando sottintende che ci sia un domani.

«Te li riporto domani, principessa.»

 

24 dicembre 2013

Persino nascosta dietro uno scaffale della libreria della stazione, Elena sente la voce femminile, atona, annunciare un ulteriore ritardo causa maltempo – e bisogna davvero chiedersi perché abbiano ancora difficoltà a gestire la neve. Quando mai non nevica, a Natale?

La Grand Central Station è, come tutti gli anni, ancora più caotica del solito – gente che sbraita al telefono, coppie che si salutano, quelle che si ritrovano, scene da film e bambini che si guardano attorno con gli occhi ingranditi dalla meraviglia di tante persone tutte insieme, delle volte verdi del soffitto.

Scorre i titoli con occhi distratti, trascinandosi dietro il trolley con la destra – precariamente in equilibro sopra di esso, trattenuto appena dalle dita, il sacchetto con i regali dell'ultimo minuto (cioè quasi tutti i regali perché Elena è proprio una di quelle persone che si riducono a impacchettare la notte del 23, dopo aver passato la giornata in code interminabili – eccetto quello di Caroline perché Caroline non si fa fare regali, ti dice semplicemente cosa fare e tu obbedisci).

Non ha molte occasioni per tornare a casa, in Virginia – come quasi tutti i newyorchesi, Elena non viene da New York (o forse era Los Angeles, ma il principio è lo stesso, e si potrebbe poi discutere per ore se la nostra vera casa è quella che ci siamo scelti o quella con cui non abbiamo avuto voce in capitolo), ma da un pittoresco e minuscolo paesino dal nome ridicolo.

Mystic Falls – la noia.

Condivide ricordi d'infanzia con Caroline, la figlia dello sceriffo – lei però partirà domani, una volta che avrà definitivamente convinto il suo reticente fidanzato, Tyler, (un idiota, per quel che la riguarda) ad accompagnarla –, di giornate umide e afose d'estate e inverni gelidi e altrettanto umidi.

La Virginia non è molto altro che umida, in effetti – una vecchia signora sudaticcia, impegnata a dondolarsi pacificamente sul portico della sua vecchia casa coloniale, soffiando brezze sporadiche e sputacchiando pioggia.

L'unica cosa bella del tornare a Mystic Falls è ritrovare chi non ha potuto proprio infilare in valigia – sua zia, suo fratello, Bonnie che ha preferito rimanere a studiare vicino, Matt che è stato un migliore amico e un primo amore e poi semplicemente una parte integrante della sua famiglia.

Fa capolino dalla corsia, individuando quasi immediatamente Damon, intento a leggiucchiare, assorto, le prime pagine di qualcosa di voluminoso – gli si avvicina di soppiatto, da dietro, tentando di spaventarlo (si conoscono da quasi un mese – un mese di caffè e passeggiate e pomeriggi di silenzi strani – e non è mai riuscita a coglierlo di sorpresa).

Il rumore delle rotelle sul pavimento la tradisce quasi subito – le lancia un'occhiata con la coda dell'occhio, incrinando un angolo della bocca, uno solo.
Lei sbuffa e gli tira una gomitata, leggera, quando gli passa accanto – la ignora, continuando a leggere.

Era stato quanto meno sorprendente scoprire – per puro caso, fra l'altro – che venivano dalla stessa cittadina sperduta. E che, nonostante questo, erano riusciti a non incontrarsi mai in diciotto anni di feste, scuola e iniziative socialmente utili – e che invece ce l'avevano fatta a New York. Ovviamente – farà finta che la cosa abbia perfettamente senso perché ne ha talmente poco che non può fare altro.

C'è da dire che, effettivamente, quando le ha detto di fare Salvatore, di cognome, qualcosa le era venuto in mente – una grande casa isolata, vaghe reminiscenze di un bambino solitario, ma credeva fosse una coincidenza.
Si dirige verso l'uscita, fermandosi appena oltre le porte a vetri per aspettarlo mentre paga e la raggiunge – lui porta solo uno zaino, il libro già dentro.

Fa per parlare, ma quando lo sguardo le cade sugli orari delle partenze si limita a sgranare gli occhi e iniziare a correre perché non è più il treno ad essere in ritardo. Mentre cercano il binario giusto, sempre a passo veloce, lo prende per mano – così, senza nemmeno pensare, e non ci dà peso, non è una cosa romantica, è che Damon è incredibilmente lento, ma le persone sorridono quando li vedono passare.

 

Hanno rischiato di perderlo, ma alla fine eccoli lì – i sedili sono persino comodi, il che non è un male perché hanno quasi sette ore da passare e davvero sarebbe una tortura, altrimenti (Elena si chiede tutti gli anni perché non prendere l'aereo, poi pensa che ci sono, in proporzione, più annunci di incidenti aerei rispetto a incidenti ferroviari, e se ne sta coi piedi a terra).

Prende un pacchetto di caramelle dalla borsa, contorcendosi per tirarla fuori da sotto il sedile – tira fuori un vermicello verde e rosso e lo addenta con evidente gusto (ama le caramelle).

Damon sta già leggendo – quando prova a offrirgli un dolcetto lui scuote la testa senza nemmeno rispondere, perso nel mondo di qualcun altro. Lei fa spallucce e si rassegna a sette ore di relativo silenzio.

 

Quando scendono alla stazione di Richmond, Elena ha dei capelli inguardabili e le occhiaie e un gran mal di testa, ma non si lamenta comunque quando Bonnie la travolge – ride e l'abbraccia, incurante del trolley che le si ribalta ai piedi. Vede Jeremy sorridere dietro la sua amica, aspettando il suo turno, e Jenna che gli sta di fianco.

Una volta che ha abbracciato e baciato tutti quanti si volta, cercando Damon con lo sguardo – vuole presentarglielo, quello sconosciuto strano che non è più uno sconosciuto, più simile a un amico.
Sorride, intenerita, quando lo vede sollevare di slancio un ragazzino dai capelli chiari – un sorriso che si spegne mentre vede l'uomo, altero e dai lineamenti duri, che attende rigido sulla banchina.

Non sa molto su suo padre – abbastanza, però, da considerarlo un mostro, e davvero Elena non vuole che quella giornata sia rovinata da quell'uomo.

S avvicina al gruppetto in fretta, ignorando Giuseppe, andando direttamente da lui – lo guarda negli occhi, in quegli occhi così simili all'oceano, e non si perde in discorsi inutili (per una buona volta), si limita a dargli l'indirizzo e comunicargli tranquillamente che la cena comincia alle otto.
Non sa se verrà, ma ha visto un baluginio di speranza, su quel volto stanco – sta sorridendo di nuovo, quando torna da Bonnie e la prende a braccetto.

«Ho un sacco di cose da raccontarti.»

***

Quella sera, alle otto spaccate, Elena potrebbe essere già un pochino ubriaca – giusto un pochino – e quindi non è lei ad aprire la porta. Jenna infila la testa in salotto, un bicchiere di vino in mano.

«Abbiamo ospiti, gente!» e poi ci sono il sorriso di Damon, quello vero, e il calore di quel frugoletto di suo fratello – ha quattordici anni ed è ancora un bambino, e lo vede l'affetto negli occhi dell'altro quando lo osserva e gli intima con una sola occhiata di comportarsi bene, a tavola.

 

La mattina dopo, l'ultima cosa che ricorda, a dire il vero, è che si è veramente ubriacata – e che è stato lui ad aiutarla a salire le scale. E che l'ultimo pensiero più o meno lucido riguardava le sue labbra.
Elena sprofonda la testa nei cuscini e improvvisamente desidera non uscire mai più.


 

9 gennaio 2014

«I poeti italiani sono qualcosa di infinitamente deprimente.» Elena sbuffa pesantemente, lasciandosi cadere a pancia in su sul tappeto di Damon – cioè, il tappeto che ha sistemato nel suo angolo di camera –, il libro aperto sul petto – si toglie gli occhiali, allungando a tentoni la mano per appoggiarli sul comodino (Mab li osserva, interessata, per un paio di secondi, poi decide che vale la pena avvicinarlesi per approfittare della momentanea pausa – quella gatta è un essere peloso quanto mai arrivista, malefico e adorabile, nulla da fare). Lui ghigna, divertito, lanciando il suo libro di Letteratura straniera contemporanea – quanta pomposità per quel tomo inutile – sul letto con mira precisa.

«Ma no, a parte Leopardi, gli altri cos'hanno che non va?» la canzona bonariamente, seduto lì di fronte, stuzzicandole una gamba col piede – Mab, incuriosita dal movimento, scende dal materasso per giocare; Damon sorride ancora e se la prende in grembo, ignorando le sue proteste rumorose (tanto ti lamenti sempre, rottura di scatole).
Elena si tira a sedere, sbuffando.

«Non ti rispondo nemmeno.» lui ignora il suo borbottio scontento e solleva la gatta, portando il musetto all'altezza del suo volto – subito dopo la rimette giù, sospirando.

Lei aggrotta appena la fronte, incuriosita, ma Damon non risponde al suo sguardo interrogativo – lui scuote la testa e Mab muove infastidita la coda, prima di saltarle in grembo, quasi per ripicca. Ride, Elena, e non si accorge neppure di quanto siano effettivamente vicini – e sa di star mentendo a se stessa, quando l'ilarità le si spegne in gola e gli occhi di lui sono troppo vicini per scappare e troppo destabilizzanti per ricominciare a respirare.

Non sono questo, loro – sono una coincidenza, frasi lasciate a metà, due che si sono trovati a passare per caso, in punta di piedi, nella vita dell'altro, tutto ma non questo (non il sussurro del male che le vibra nell'anima – è questa la vita, Elena? È questo l'amore?).

È un momento immobile, di respiri e labbra distanti un bacio e qualche millimetro – e parole che non escono e ricordi che si agitano con ali dorate in fondo ai pensieri e la paura che le fa socchiudere le palpebre, all'improvviso, e chinare il capo con quel rossore traditore dipinto sulle guance.

 

C'è il silenzio, per quelli che le paiono anni – silenzio pesante d'imbarazzo e cose non dette e istanti che non dovrebbero esserci, silenzio rumoroso di un equilibrio che s'incrina.

Elena vorrebbe piangere ma non lo farà, non può credere che quel qualcosa che avevano, talmente fragile e imperfetto e meraviglioso, si sia sgretolato così, per l'errore di un momento (ci sono regole che nessuno dei due ha mai esplicitato e lei non sa nemmeno perché, sa solo che la perdita è un mostro maligno appostato dietro gli angoli)

E allora aspetta e annega nel silenzio, fino a che il silenzio non c'è più – il suono di un clacson, una frenata, il miagolio irritato di Mab; respiri affannati e un ultimo sguardo che non spiega nulla, la mano di lui tesa per aiutarla a rialzarsi.

Per un attimo pensa che sia per mandarla via – l'attimo dopo Damon la sta abbracciando, mormorando cose senza senso fra i suoi capelli, e anche se Elena ha paura, ha davvero troppa paura, solo lo stringe un po' più forte e lascia che sia quel che deve essere.

***

Quella sera ordinano cinese e condividono una birra in due perché Elena regge veramente poco l'alcol ed è già un vero disastro con le bacchette senza essere ubriaca, e tutto sembra a posto, ridono e sono loro e va bene così, deve andare tutto bene così.

Dopo, Damon sparecchia con la gattina che gli si struscia sulle caviglie, chiedendo la sua, di cena, e lei ozia sul divano, un romanzo fra le mani – lo sente chiudere l'acqua e asciugarsi le mani, ma ancora non alza lo sguardo.

Il rumore di un cassetto che si apre e si richiude, secco – passi silenziosi e poi lui che le sfiora con gentilezza un ginocchio per chiederle di spostarsi un poco (e allora li alza, gli occhi, Elena, e non lo vede sorridere ma è come se lo facesse, sorride solo con i gesti, con il modo in cui le parla senza parlare perché con Damon niente è mai facile).

Ha un taccuino in mano, il che le fa aggrottare la fronte, ma non fa domande e raccoglie meglio le gambe – lui si siede, lei torna a leggere e ancora nessuno dei due spezza il silenzio.

 

Non le chiede il permesso, prima di parlare – lo fa e basta, lei che ha abbandonato la lettura ormai da un po', che si diverte a giocherellare con Mab e che in realtà lo studia di sottecchi mentre scrive e cancella e scarabocchia (non ha idea di cosa stia facendo, poi ci sono i suoi occhi e lui parla ed Elena non sa se dovrebbe ridere o mandare al diavolo le regole e baciarlo, lì, proprio in quel momento).

«Iridi buie, / notte mia, / hai amato l'inverno? / Penelope esausta, / finirà un giorno la tua attesa? / Rimangono / polvere e cuore / e, / nascosta, / rimani tu.*1» succede, ogni tanto, nelle fiabe, che un principe – o anche solo un menestrello che passava di lì – reciti un poema alla bella principessa di turno.

Ogni tanto, non sempre – abbastanza spesso da illudere migliaia di bambine che gli uomini lo facciano d'abitudine (abbastanza da illudere Elena Gilbert, quando aveva cinque anni – illusione che era poi svanita quando Matt aveva tentato malamente di cantarla una serenata e si era ritrovata a girare con i tappi nelle orecchie per una settimana perché la sua sola voce le provocava attacchi di ridarella inaffrontabili).

Nessuno le ha mai detto che i poeti esistono davvero – nessuno le ha mai spiegato cosa si risponde all'elogio di una malinconia che sapeva a malapena di possedere, alla glorificazione di quel silenzio che la spaventa come poche altre cose al mondo.
Allora dice la prima cosa che le viene in mente – che ovviamente non è grazie o sposami o è la cosa più bella che chiunque abbia mai fatto per me.

«Non sapevo che scrivessi poesie.» il volto di lui le dice che, nonostante tutto, ha dato la risposta giusta. Ride poche volte, Damon, ma quando lo fa si tratta di una risata che gli sale dal petto, profonda, di gola, vibrante anche di tutte quelle che non ci sono – come questa.

«Non lo faccio – sei un'eccezione.» quando la vede inarcare le sopracciglia, Damon chiarisce meglio.
«Scrivo prosa, di solito. La poesia non è il mio lavoro.» Elena sgrana gli occhi, stupita – aveva immaginato che fosse tante cose, quell'uomo, ma questo non aveva potuto pensarlo (non aveva potuto o davvero sarebbe saltata sul primo aere- treno per Las Vegas, fosse lui consenziente o meno, in barba a qualsiasi regola).

Non le propone di leggere qualcosa e lei nasconde la voglia di tempestarlo di domande perché li conosce, gli scrittori – sua madre che restava tutte le ore della notte chiusa nel suo studio, il ticchettio dei tasti del computer, suo padre con un plico di fogli in mano che le si avvicinava e la baciava –, e sa che sarebbe del tutto inutile.

Sorride, si stringe un po' meglio la gatta fra le braccia e spera che un giorno si fidi abbastanza di lei da aprirle quella parte di sé che è così privata e intima e incredibilmente vicina all'anima della gente.

 

14 febbraio 2014

«Care, io esco – andiamo a fare una passeggiata, prima che la signora Pioggia Perenne torni a farci compagnia.» Elena fa una smorfia, infilandosi il cappotto – il tempo degli ultimi mesi d'inverno, dopo la neve, è sempre uggioso e quanto mai instabile. E lei lo odia, ma Damon ha le sue stranezze e ama attraversare mezzo Central Park al freddo – ogni tanto lo accompagna, spesso non lo fa e si limita ad aspettarlo al campus con una tazza di cioccolata calda (per evitare di farlo andare in ipotermia, almeno).

Quel giorno ha deciso di andare perché è San Valentino ed Elena odia San Valentino – non è neppure la festa in sé, in realtà: sono i cuori e i biglietti e le frasi stupide e i cioccolatini in scatole idiote che le urtano in nervi.
Quindi tanto vale scomparire nel folto della vegetazione per un po' e fingere di trovarsi a chilometri e chilometri da qualsiasi centro abitato, invece che nel bel mezzo di Manhattan.

La testa bionda di Caroline fa capolino dal bagno, le braccia infilate nella maglietta e i capelli ancora umidi che le ricadono sulle spalle – inarca un sopracciglio, guardandola, scettica.

«Andiamo?» sente l'insinuazione nel suo tono di voce – non spreca neppure tempo a negare.
«Io e Damon.» specifica, sbuffando. È perfettamente consapevole del fatto che quella donna non creda minimamente all'assoluta innocenza del loro rapporto – più o meno assoluta, in ogni caso. Più o meno dolorosa.

Più o meno disperatamente piena di un sentimento enorme che nessuno dei due ha il coraggio di affrontare faccia a faccia.

Sospira, roteando gli occhi.

«, lo so che è San Valentino – no, non abbiamo intenzione di sposarci a breve. A dopo, Caroline.» la vede fare spallucce, perplessa, prima di chiudersi la porta alle spalle.

***

Entrano a Central Park West un quarto d'ora dopo, il freddo che già si è infilato dentro i cappotti, bagnando le ossa, fomentando illusioni piacevoli di caloriferi accesi e caminetti pieni di ciocchi scoppiettanti.
Sposta i capelli su una spalla, tirando su il cappuccio – Damon la guarda con la coda dell'occhio e ridacchia nel vedere il pelo che le incornicia il volto.

Mormora una protesta indignata, tirandogli un pugno sul fianco – lui la prende a braccetto e non risponde, cammina e basta.
Arrivando dalla Columbia, l'entrata ovest è la più vicina – basta scendere per la 110th St. e andare dritto. L'unica pecca è che la parte ovest del parco è anche quella più noiosa.

Alberi e alberi e alberi – l'unico posto degno di nota è Great Hill, adatta per qualche picnic fuori stagione e per i cani (anche se loro non hanno un cane – dubita che Mab potrebbe gradire un'escursione nella natura selvaggia della Grande Mela).
Una volta Damon le ha proposto di arrivare piedi fino allo spiazzo di Shakespeare – le gli ha gentilmente comunicato che avrebbe preferito farsi ammazzare piuttosto che andare a piedi fino all'altra parte di Central Park.

Pazzo – senza contare che ci avrebbero messo ore.

Anche quel giorno si fermano a Great Hill – Elena non è capace di cucinare, ma quella volta ci ha provato: ha tagliato l'insalata e un po' di pane, più o meno decentemente, ed è riuscita persino a preparare della pasta senza far esplodere la cucina.

Stende la coperta mentre lui la sta a guardare, lo zaino – sempre quello da viaggio – con il cibo in spalla.
Dopo, la tovaglia è già umida a causa dell'erba fradicia, ma ignorano entrambi la cosa perché sono le due passate e la gente alle due passate ha fame.

 

Un'ora più tardi stanno guardando le nuvole, cercando di capire a cosa assomiglino – esattamente come una qualsiasi coppietta sdolcinata, ma Elena scaccia il pensiero e si concentra su una forma particolarmente strana.

«Secondo me... quella è sicuramente una rana.» sente la risata soffocata di lui – è di buonumore, quel giorno, incredibilmente allegro – che, un braccio dietro la testa, sta guardando in su con attenzione.
«Una rana? Con la coda?» borbotta qualcosa a proposito dei girini, ma la risata di Damon è troppo bella per poter protestare davvero.

Dopo quello scoppio improvviso d'ilarità, c'è calma – non silenzio, stavolta, solo calma, con tutti i piccoli rumori del parco, rami che scricchiolano al vento e passi di persone che calpestano le foglie cadute.
Appoggia la testa alla spalla di lui, e trattiene il respiro per un tempo indefinito.

Le viene in mente di parlargli di Caroline, solo per sentirlo ridere ancora – si morde la lingua quando lo avverte muoversi, allungandosi all'indietro per afferrare lo zaino. Rovista per un po', rumore di fogli sfogliati, poi lascia che lei si rimetta com'era.

Elena lascia andare il fiato e sorride come non fa da tanto tempo, con il volto e gli occhi e tutto il corpo, con tutto il cuore – spera di avere ragione di sperare.
Per un istante c'è immobilità totale, completa – poi, lui inizia a leggere.

«L'uomo capì cosa fosse la paura una notte di temporali estivi; lo capì mentre lampi tanto forti da accecare illuminavano a giorno l'asfalto bagnato e tuoni dalla melodia dolente vibravano nei vetri dell'auto...» Elena sorride e ascolta – non sa che anche lui sta sorridendo appena, da dietro le pagine stampate.

 

23 marzo 2014

«Se non mandi una mail al primo editore sull'elenco telefonico in questo preciso momento, Damon Salvatore, ti ammazzo.» lo saluta così, quel pomeriggio, entrando in casa con ancora il fiatone, il manoscritto in una mano, il pranzo nell'altra e la borsa con i libri a tracolla.

È corsa fin lì dall'aula del professor Saltzman – della cui lezione non ha ascoltato una sola parola, ovviamente, non quando aveva le ultime pagine da finire, non ci sarebbe riuscita nemmeno se l'avessero pagata, a staccarsi – ed è ancora in lacrime per il finale. Ma quella è una cosa a parte, perché Damon Salvatore è un bastardo – che bisogno c'era di ucciderlo, proprio non lo capisce (valuta per un attimo la possibilità di corromperlo per cercare di salvare il povero protagonista di Senza titolo #4 – poi si dice che non è molto etico e lascia perdere).

Scansa Damon, incredulo e persino un poco sconcertato – considerando che non ha mai pensato prima di poter associare l'aggettivo sconcertato a Damon, dovrebbe annotarsi la data –, e appoggia il sacchetto coi panini che si è fermata appositamente a comprare al bar – guadagnandosi un'occhiata stupita dal barista, che chissà cos'ha pensato a vederla ripartire in tutta fretta subito dopo, i capelli una criniera indecente, gli occhi rossi e gli occhiali appannati – sul tavolo dell'angolo-cucina dell'appartamento.

Non ha il coraggio di lasciare il plico di fogli, stropicciato, a cui si è incredibilmente affezionata nell'ultima settimana – lo stringe al petto, guardandolo torva (non rimarrà arrabbiata poco, per quella fine indegna).
Nota il portatile aperto, ma distoglie lo sguardo – adesso deve perorare la causa di questo romanzo.

Damon la guarda, un sopracciglio inarcato e la testa inclinata di lato – trattiene un sorriso e tira fuori il tono più severo che le riesce.

«Sto parlando seriamente. Davvero. Non puoi tenerlo qui e basta – no. Bisogna che la gente lo legga e non me ne frega niente cosa dici tu e no, non sto esagerando, questo è il nuovo best-seller dell'anno, questo» prende un respiro profondo «è qualcosa di meraviglioso perché entrare in questo modo nella tua testa, tu non puoi capire quanto sia stupendo capire perché a volte fai quello che fai. Proprio non puoi. Quindi chiama una casa editrice e insisti finché non ti danno un appuntamento con il direttore. Adesso.» non gli ha detto che è perfetto, perché non lo è, non strutturalmente o perfetto secondo i canoni, e lui lo sa benissimo – eppure gliel'ha detto lo stesso perché loro fanno così, parlano senza parlare e amano senza dirlo (è perfetto, perfetto in quello che mi dice, perfetto ogni volta che mi ha fatto gridare e piangere e maledirti, è perfetto perché ha tutto quello che un libro dovrebbe avere e non puoi lasciarlo nascosto, proprio non puoi, non puoi rimanere nascosto).

Perfetto come quella poesia di una notte fredda di qualche mese fa, perfetto perché ogni romanzo sarebbe perfetto se dentro l'autore ci mettesse davvero se stesso.

Ed è proprio perché c'è dentro così tanto di lui che Elena capisce che non lo invierà mai a nessuna casa editrice, mentre lui la guarda e sorride e le è troppo vicino, un bacio sui suoi capelli, dato senza pensare (un qualcosa di familiare, che sa di momenti tranquilli e gesti istintivi e le fa trattenere il respiro).

Lo guarda a sua volta, scuotendo il capo con esasperazione, e si limita a prendere una sedia per sistemarglisi di fianco.

 

29 aprile 2014

È già primavera quando capisce che qualcosa fra loro sta cambiando – che le regole stanno cambiando, non perché lo vogliano (o forse anche per quello, sì), solo perché è giusto così, perché ormai quel che succederà succederà.

Damon si fida di lei come non fa di nessun altro e ogni volta che ci pensa le viene da ridere perché, andiamo, chi si fiderebbe di lei, lei che è tutto meno che rassicurante – fino ad arrivare, alle volte, ad essere persino un po' paranoica (come quella volta in cui pensava ci fossero i ladri in casa e invece aveva trovato Bonnie e Jeremy a sbaciucchiarsi in salotto e quello sì che era stato imbarazzante).
Comunque Damon si fida di lei – perché è pazzo, probabilmente. Lo dimostra anche nel momento in cui, durante la passeggiata del pomeriggio, decide che è ora del primo bagno della stagione.

Quel pomeriggio non si sono fermati a Great Hill – ci vogliono solo altri cinque minuti per arrivare al lago più vicino (i newyorchesi lo chiamano The Pool e sinceramente Elena non ha mai capito perché, non assomiglia affatto a una piscina), e siccome lì intorno girovagano delle papere e loro non hanno finito il pranzo sembra una cosa carina portarglielo.

E poi ad Elena piacciono, le papere – le piace un po' meno venir presa di peso e buttata nell'acqua. Gelida.
Inizialmente non ha abbastanza forze per urlare, ma quando vede Damon piegato in due dalle risate, sulla riva, grida talmente forte da far accorrere un paio di persone.

«Damon Salvatore, sei un essere ignobile! Meriti di bruciare all'inferno – vuoi uccidermi? È aprile, mica agosto, fa freddo, pezzo d'idiota!» chi era corso per aiutarla, ora, sta ridendo a sua volta – c'è una donna in abiti da jogging e un uomo con un cane e nessuno sembra intenzionato a darle una mano ad uscire da lì, sono troppo impegnati a cercare di respirare.

Elena sospira e sa che, se c'è una cosa di cui è sicura, è che Damon non vedrà il tramonto.

 

Alla fine è stato proprio lui che è sceso in acqua per aiutarla – infatti ora sono entrambi sotto il pile, accucciati sul divano e tremanti come eschimesi senza guanti, con Mab che li guarda come se fossero due imbecilli. Cosa che è probabilmente è vera – anche se l'unico è il suo padrone, effettivamente.

Elena rabbrividisce, aggrappandosi al suo braccio e cercando un po' di calore umano – lui ride, mormorando qualcosa sul togliersi i vestiti per fare più in fretta a scaldarsi. Ha ancora la forza per tirargli un buffetto sulla nuca, sbuffando.
Damon si volta all'improvviso verso di lei, gli occhi enormi nel viso ancora umido, qualche goccia che cola dai capelli fradici – sorride, ma trema.

«Se moriremo per ipotermia, Lène, voglio prima fare una cosa.» non ha neppure il tempo di chiedere cosa che sente le sue labbra – labbra che sanno di acqua melmosa e pioggia e in generale di bagnato, anche se forse dipende dal fatto che sono bagnati, ma non importa, oh, cosa importa, da quanto aspettava tutto questo (oh, da quanto non può aspettarlo – cosa è cambiato, cosa, qualcuno le dia il nuovo manuale perché Elena non sa cosa fare, non sa come si respira con questo corpo sorpreso).

Non sa chi dei due si allontana per primo – sa che è lei che scappa, però.

Si toglie la coperta dalle spalle, senza guardarlo, raccoglie le scarpe e corre via, veloce, in fretta, perché Damon non la fa pensare e lei ha bisogno di pensare, ne ha bisogno.
Non sa se quello è un addio ma il cuore sanguina lo stesso, quando lui cerca di fermarla chiamandola con quel tono strano, quella vibrazione a metà fra quello che è stato e quello che forse sarà – o forse non sarà mai.

«Elena.»

 

2 maggio 2014

È tardi, quando bussa alla sua porta – teme che non ci sia, che sia uscito ad ubriacarsi con quel coinquilino che non c'è mai o che ci sia qualcuno, in casa, che non vorrebbe mai vedere (tipo quella stronza di Katherine Pierce, una rossa dalla vivacità sessuale quanto meno discutibile), ma quando le apre, spettinato e con Mab in braccio, sa che è solo. Sa anche che stava scrivendo, e nemmeno perché vede il computer sul tavolo, solo perché ha la faccia di uno che non si è allontanato dalla scrivania tutto il giorno – si chiede a cosa stia lavorando, si chiede se un giorno potrà leggerlo.

Si morde le labbra, lo sguardo basso – non sa nemmeno se lui la vorrà ancora, dopo che è corsa via come se l'avesse schiaffeggiata, come se fosse sbagliato quando è probabilmente la cosa più giusta che le sia successa nella sua intera vita ma Elena non è brava con le parole, non è quello il suo lavoro, lei conosce qualche lingua e sa trasformarle, quelle parole, magari.

E allora lo fa, le cambia, le trasforma, perché deve dirle e non sa come farlo – lo fa anche se è ancora sulla porta e il primo passante potrebbe sentire tutto, chi se ne importa, ormai, che senta.

«Non... non volevo andarmene. Ho avuto paura, sai – sei un uomo che fa paura, starti vicino fa venire dei complessi d'inferiorità non da poco. Insomma, tu che te ne esci a volte con certe cose che ti fanno rimanere senza fiato, a bocca aperta, che non sai nemmeno cosa vuol dire avere paura del silenzio-» vede che vorrebbe interromperla, ma lo zittisce con un gesto, «No, lasciami finire perché potrei non avere mai più il coraggio che ho stasera. Il problema, se ci fosse un problema, è che tu sei tu, Damon, e io non so come potrei mai stare con un uomo come te, tu che sei così incredibilmente tu, ed esserne all'altezza. Ma az obicham te*2.» sorride appena, quando lo vede corrugare la fronte, «o, se preferisci, yo te quiero – oppure je t'aime, si tu me peux comprendre et je n'ai pas l'air de l'idio-» Damon la bacia prima che possa concludere la frase, ma stavolta non le importa.

 

Più tardi, quella stessa notte, Elena si ritrova ad accarezzare la gatta con espressione assorta.
Sente i suoi passi ancor prima di vederlo, con la coda dell'occhio, un paio di pantaloni della tuta sgualciti addosso – ha in mano i suoi occhiali, glieli porge quando le si lascia cadere accanto, sfiorandole le dita mentre inizia anche lui a coccolare Mab.

Non dicono nulla, per un po', e questo silenzio non le fa paura – non è il silenzio di chi non ha nessuno, è quello di chi ama e non ha bisogno di parole. Si appoggia a lui, girando il volto per baciarlo alla base del collo, con dolcezza. Lui la stringe a sé con un braccio, disegnando ghirigori con le dita sulla pelle del fianco.

Restano un po' così, poi lui sorride fra i suoi capelli, alzandosi, e porgendole una mano per aiutarla a sua volta – le stringe le dita e, quando parla, lei non può proprio evitare di ridere.

«Ti va un tè, Elena?»

 

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Note tecniche:

*1 Chiariamo che io non so niente di poesia e che questi sono assolutamente versi liberi, li ho buttati giù così perché è quello che avrei fatto se fossi stata nei panni del signorino qui sopra (dannare, m'ha fatto dannare e lo odio *credici*).

*2  Allora, traduzioni: az obicham te, yo te quiero e je t'aime significano ti amo rispettivamente in bulgaro (palesissimo omaggio a Nina), spagnolo e francese – il resto della frase in francese è così puoi capirmi e non sembro un'idiota/non ho l'aria da idiota.

   
 
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