Stiles.
Stiles osserva il suo riflesso nello specchio, ramificato verso il bordo in alto a destra. Osserva in silenzio quella persona che non si sente più vicina, quel corpo freddo che pare senz'anima.
Quell'ammasso di muscoli e organi e ossa, che insieme un tempo formavano un giovane ragazzo spensierato e libero, quel corpo slanciato che lo rendeva affascinante, quasi atletico, con le braccia grandi e i muscoli non troppo grossi.
Si accorge che degli occhi lo fissano, infossati, arrossati, degli occhi che non sembrano i suoi, come se dietro quell'iride castano chiaro, ci fossero occhi neri come la pece.
Le sue mani scrivono senza che sia lui a comandarle. E con naturalezza, scrivono un cinque al contrario, che di naturale non ha niente.
E la sua mano, come se avesse vita propria, continua a rimarcare quell'insieme di curve e angoli.
Le dita tremano, gli occhi lacrimano, la testa gli scoppia per le voci che sente.
Ci sono delle voci dentro la sua testa.
Che sussurrano, urlano, parlano a vanvera.
Si tappa le orecchie, ma così riesce a sentirle solo meglio.
Sente che sta per cadere nell'oblio universale, che sta per lasciare la vita.
Il Nogitsune gli ha mangiato a poco poco l'ultimo briciolo di umanità, lo logora da dentro senza pietà, usandolo come arma di caos e distruzione.
Inizia a picchiarsi davanti allo specchio, per sminuire il dolore.
Inizia a credere di non avere nessun motivo per continuare a combattere una battaglia già persa.
Si lascia andare, ormai stanco, senza energie, e si lascia avvolgere dall'ombra nera che si cela dentro di lui, lasciando spazio al suo compagno di cella.