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Autore: Woland Mephisto    11/11/2014    4 recensioni
Anikétos è un giovane uomo ateniese innamorato e maledetto per il Bello, ideale incarnato perfettamente nella sua idea di giovinezza e nel suo magnifico amante Hierotheos, un sedicenne brillante e splendido.
Più di duemila anni dopo, una ragazza ricorderà ancora il suo nome, che riecheggia immortale, legato per sempre alla storia dell'Acropoli di Atene, una delle città più antiche e più belle del mondo.
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Antichità greco/romana, Il Novecento
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I segni del tempo







 
Anikétos camminava per la città apparentemente senza una meta. Ogni tanto si fermava e guardava le porte chiuse a chiave delle botteghe che da sempre, gli pareva, erano lì a racchiudere i saperi più disparati dei vari artigiani, e poi continuava nel suo peregrinare.
Si fermò davanti a una locanda ancora aperta, quasi vuota, eccetto per quei pochi viaggiatori che attraversavano la città e andavano di fretta. Diede uno sguardo all’interno: sperava intimamente di scorgere la figura del suo amato Hierotheos.
E lui era là, nella locanda, a servire ai tavoli la zuppa di fagioli e il pane fresco di giornata, con i lunghi, biondi riccioli attaccati alle tempie per via del sudore, e il resto delle sue fluenti chiome legato in una treccia che ondeggiava, sinuosa, attorno al suo torace ogni volta che si muoveva. Il suo efebico corpo era quanto di più magnifico gli dèi avessero potuto creare: la sua pelle accarezzata dal sole era per gli occhi come la visione dell’ambra più pura, e la sua morbidezza era paragonabile solo alla migliore seta proveniente da Oriente; quella divina pelle, tanto cara all’uomo, ricopriva i muscoli ancora acerbi che il ragazzo cercava di sviluppare al Gymnasion, come tutti i fanciulli della sua età, e i biondi capelli ricci e lunghi erano una corona a quel corpo di piccolo eroe ancora in fase di formazione, e si spandevano disordinatamente su quel collo femmineo e con il pomo ancora poco visibile quando non erano legati nella morbida treccia che spesso il giovinetto usava portare per non accaldarsi troppo; i suoi occhi castani erano, infine, oceani bruni meravigliosamente profondi in cui affacciarsi, lasciarsi trascinare e affogare.
Quando il giovinetto si voltò verso la finestra e lo vide, le sue guance si tinsero di porpora ancora una volta, e Anikétos non poté fare a meno di sorriderne. Non che fosse qualcosa di cui ridere, però ogni volta che le guance del suo eromenos arrossivano, lui si sentiva talmente felice da non poter fare a meno di esternare quel gaio sentimento con un sorriso. Amava quel volto elegante e giovane come quello delle divinità, e aveva imparato a dipingere nella sua mente un ritratto fedelissimo di quei tratti, da quando lo educava e lo vedeva, per portarlo sempre con sé.
Ancora una volta Anikétos cedette all’amore piuttosto che alla fretta, e rimase ad aspettare il suo amato giovinetto fuori dalla locanda. Sapeva bene che, quando il turno di lavoro si sarebbe concluso, Hierotheos sarebbe uscito da lui e, con il pudico sguardo rivolto verso terra, lo avrebbe salutato e seguito per essere accarezzato e amato. E guardandolo lavorare nella locanda dei suoi genitori rendeva quel momento ancora più sublime, perché l’attesa, in quel caso, era qualcosa di altrettanto piacevole.
Non sapeva per quanto tempo fosse rimasto lì a contemplarlo mentre entrava e usciva dalla cucina con in mano le ciotole colme di cibo e i crateri empiti di vino, quando finalmente il ragazzo uscì dalla locanda, tutto sudato, ma nient’affatto stanco, come il suo incedere sicuro e veloce suggeriva.
Anikétos pensò che la forza della gioventù era indistruttibile, vedendo il suo piccolo amato avanzare verso di lui, che lo aspettava dall’altra parte della strada. Philaretos, padre del ragazzo, uscì per controllare il figliolo: non voleva, infatti, che si mettesse nei guai o che scorrazzasse per strada in un’ora così tarda. Vedendo Anikétos, però, la sua apprensione svanì, poiché sapeva che era in buone mani.
Due anni prima, l’uomo che ora era con suo figlio era venuto per chiedere che fosse accordata a lui l’educazione di quel ragazzino prodigiosamente bello, invidia di tutti i genitori di Atene e cupidigia di ogni uomo della città per il possesso di quel corpo splendido. Quel padre premuroso e diffidente non si sarebbe fidato di altri, che di Anikétos, che conosceva da quando era nato, poiché il padre di lui era suo vicino di casa da lungo tempo. Essendo consuetudine, nella loro città, che un giovinetto quattordicenne avesse un educatore maggiorenne, quindi si mise d’accordo con l’uomo, allora ventiduenne, che il figlio fosse nelle sue cure. Anikétos ne fu assolutamente felice e deliziato, e da allora aveva amato quel dolce fanciullo come mai nessuno o nessuna prima.
Ma quell’amore quanto ancora sarebbe durato? Due anni soltanto aveva ancora per abbracciare quel corpo, per baciare quelle labbra piene e delicate, per tenere con sé quell’efebo dolce, testardo e orgoglioso, ma che aveva imparato ad amarlo a sua volta.
«Buona sera, Elaiopides! Non ti aspettavo qui, considerando che ci siamo incontrati oggi, dopo il mio allenamento al Gymnasion», disse il ragazzo, con lo sguardo incollato al terreno. Ancora si vergognava a guardare negli occhi l’uomo che amava, perché si sentiva sempre un mocciosetto in confronto a lui.
L’altro, però, pareva sempre scambiare quel gesto per pudore.
«Ciao, mio dolce Parthenos!», disse l’altro con la sua calda e amabile voce, «Sono tornato perché questa sera sentivo la tua mancanza. Non posso vedere il mio amato Parthenos?», aggiunse sorridendo.
Un po’ stizzito e con immenso orgoglio, il ragazzo rispose: «Ti avevo chiesto di non chiamarmi così! Non sono una pudica verginella, e lo sai anche tu». Alzò lo sguardo e lo puntò negli occhi verdi di Anikétos, battagliero.
E questi parlò a sua volta: «E va bene, mio caro, va bene. Hai vinto! Come preferisci che ti chiami allora?», chiese.
«Il mio nome non ti piace come appellativo?», lo interrogò l’altro a sua volta, pronto e deciso, anche troppo per essere un sedicenne. Avrebbe avuto molto successo nella Boulè, una volta diciottenne, l’uomo se lo sentiva.
«Sì, ma poi ti farebbe sembrare talmente sacro da non poter essere toccato, mia grande gioia. E poi tu mi chiami Elaiopides, dunque perché non posso darti un epiteto anch’io?», disse l’altro con un sorriso che gli illuminava il volto.
Hierotheos ci pensò un po’ e poi rispose: «Non mi vorresti più con te se io fossi sacro?», e un sorrisetto malizioso gli si posò in viso.
Anikétos capitombolò davanti a quella celeste visione e dovette arrendersi.
«Certo che ti vorrei, Hierotheos. Sempre io ti vorrò, mio caro, però…diciamo che avrei timore di ricorrere nelle ire di quel piccolo dio che vive da qualche parte dentro di te. Sai, mi hanno sempre insegnato a non profanare i luoghi sacri», aggiunse, con un velo di amarezza nella voce e nello sguardo che il ragazzino non riuscì a spiegarsi.
Incuriosito da quell’espressione, ma desideroso di non rivederla sul viso del suo erastès, Hierotheos gli si avvicinò e sussurrò al suo orecchio: «Ma per questo piccolo dio non è una cosa sgradita giacere con te. Sei un uomo molto intelligente e interessante, e gli uomini come te di certo non profanano niente, e dunque sei il benvenuto nel mio tempio».
In punta di piedi, lo baciò sulle labbra in modo lieve e casto, guardandolo fisso negli occhi, una volta che il bacio era terminato.
Anikétos dovette soccombere ancora una volta alla forza della persuasione del suo giovane compagno, e sorrise. Sì, avrebbe ottenuto il consenso del popolo Ateniese molto facilmente con le doti che si ritrovava.
Lo prese per mano e passeggiarono insieme per le vie della loro splendida città, arrivando fino alle pendici della sacra Acropoli.
In quel periodo, il sommo Pericle aveva fatto erigere due nuovi Propilei e uno splendido tempio dedicato ad Athena: il Partenone. Era, inoltre, in costruzione anche un tempio più piccolo, dedicato a più divinità, ma che ancora non spiccava insieme agli altri su quella collinetta che sovrastava l’intero centro abitato.
Guardarono entrambi in alto, scorgendo il tempio della dea vergine, e restarono estasiati a quella vista. Anikétos fu il primo a sciogliersi da quell’attimo estatico di contemplazione, voltandosi lentamente verso il suo amato. Sorrise gustandosi lo sguardo piacevolmente assorto e meravigliato del suo fanciullo e, quando proprio non riuscì più a trattenersi, gli accarezzò la guancia, facendo sussultare l’altro dalla sorpresa. Hierotheos lo guardò interrogativamente, ma Anikétos fu più veloce delle sue parole e, stringendolo a sé dolcemente, lo baciò con trasporto e passione.
«Che gli dèi siano testimoni dell’amore che i nostri cuori e i nostri corpi si donano ogni giorno», asserì l’uomo, una volta staccate le proprie labbra da quelle dell’altro.
Il giovinetto lo guardò con le ciglia semi abbassate, contemplando il suo viso dai lineamenti duri e virili, la sua pelle forgiata dal sole, i suoi occhi olivastri e limpidi, quel naso dritto e fiero, i candidi denti grandi e diritti che si intravedevano dal sorriso che increspava le labbra sottili e ben formate dell’altro. Gli pose le giovani mani attorno al collo possente e muscoloso, accarezzandogli i corti capelli neri e ricciuti, godendo appieno delle possenti braccia che lo stringevano in modo talmente soave da non fargli nemmeno notare quanta forza fosse in esse celata.
Si baciarono ancora, e Anikétos prese del tutto in braccio il suo tenero innamorato, allargandogli le gambe snelle e sode e ponendosele attorno ai fianchi. Sempre baciandolo, accarezzava la sua nuca, dove i capelli intrecciati ricadevano compatti, per poi scivolare sulla schiena perfetta del dolce piccolo uomo. Con l’altra mano abbandonò le sue belle natiche per sciogliere le fibbie che portava in vita e sulle spalle per tenere il chitone indosso. L’indumento scivolò via velocemente e delicatamente, posandosi a terra, candido nella luce lunare.
Hierotheos, da parte sua, non si limitava ad accarezzare il collo e il viso del maturo compagno e gli slacciò le cinghie della cintura, spostando le maniche ai lati delle spalle, per far scivolare le vesti azzurre dell’altro sulle braccia e, infine, per terra.
Appoggiando la schiena del suo amato a una colonna dell’ingresso orientale dell’Acropoli, Anikétos si unì dolcemente e splendidamente al suo tesoro più grande, suo divino, meraviglioso e perfetto fanciullo, ricambiato nell’affetto e nella passione dall’altro, che era felice di trovarsi con il suo unico amore al cospetto delle divinità, per dimostrare loro quanto gli uomini possano essere puri nei sentimenti.
Fecero all’amore insieme, lasciandosi trascinare da quegli spiriti appassionati e lieti che solo i giovani conservano intatti.

 
°°°

Anikétos camminava attraverso la città ancora una volta, quella notte, dopo aver riaccompagnato a casa il dolce e tenero Hierotheos.
Aveva scorto la preoccupazione del suo eromenos quando lo aveva lasciato nelle mani di suo padre sulla soglia della loro casa, non senza avergli prima detto, però, che il suo amore era stata la cosa più bella che avesse mai avuto in tutta la vita.
L’espressione un po’ angustiata del suo piccolo dio lo faceva vagare corrucciato in volto per le vie di un’Atene dormiente, ignara di quel cittadino che non trovava pace tra le sue strade. Non avrebbe dovuto dargli un pretesto per preoccuparsi inutilmente.
Aveva già scelto di farlo soffrire, ma forse era stato sbagliato dargli un sentore di quel che aveva in mente. Si maledisse mentalmente per la sua crudeltà nei confronti del ragazzo, che ancora nulla sapeva della vita da adulto.
E sì che apparentemente Anikétos era un uomo senza alcun problema, con un lavoro onesto e redditizio (dipingeva, infatti, vasellame nella bottega di suo padre), con una spiccata passione per la poesia e per l’oratoria.
Ma in realtà, da quando era piccolo, si era sempre abituato a guardare il bello. Anche per questo si era innamorato del suo piccolo Parthenos (non avrebbe mai smesso di chiamarlo in quel modo, pensò), perché era bello, dentro e fuori.
Καλός καί ἀγαθός.
E lui stesso, adesso, era bello. Adesso, appunto. Ma quanto sarebbe durato? Non molto, come aveva pensato in quegli stessi giorni, guardando suo padre divenire sempre più canuto, sempre più vecchio e raggrinzito.
Il suo Hierotheos non l’avrebbe mai più guardato. Nessuno l’avrebbe mai più degnato di un solo sguardo!
Il bello avvelenava la sua esistenza da tutta la vita e per questo Anikétos non avrebbe potuto sopportare di perdere la sua bellezza fiorente dell’età più bella per un uomo. Aveva ventiquattro anni e non poteva permettersi di invecchiare e diventare orribile a vedersi.
I saggi, tutti, consideravano la vecchiaia una fonte di sapienza e di conoscenza, di esperienza, di autorevolezza. Ma per il giovane uomo questo non era così: la vecchiaia era portatrice di dolori, di pesantezza, fiacchezza e malattia. La vecchiaia, prendendo possesso di un corpo, portava via tutti quei pregi e tutte quella freschezza che la giovane età donava agli uomini.
E poi, quando sarebbe invecchiato anche Hierotheos, lui l’avrebbe sopportato? L’avrebbe ancora amato, voluto, stretto e posseduto?
No, pensandoci, non avrebbe mai più potuto possederlo una volta che avesse compiuto diciott’anni. Era un uomo libero, non uno schiavo. Doveva trovarsi una donna, sposarsi e avere dei figli, come avrebbe dovuto fare anch’egli stesso. Solo che Anikétos non voleva pensarci. Temeva in modo assolutamente vile il giorno in cui la Legge lo avrebbe separato irrimediabilmente dal suo divino innamorato.
Oltrepassò l’ingresso orientale dell’Acropoli, percorrendo quello stesso sentiero che tutti i cittadini erano soliti seguire durante le Panatenee.
Era ansioso quella sera, poiché quella era la sera stessa in cui avrebbe posto fine a ogni suo cruccio e a ogni sua paura. L’avrebbe affrontato viso a viso.
Le stelle rilucevano sopra di lui, mentre si affacciava alla terrazza dell’Acropoli situata di fronte al Partenone. Respirava la brezza calda della notte estiva e guardava la città ricolma degli oikoi di tutti i suoi cittadini distendersi ai suoi piedi, dormiente e silenziosa.
Aveva con sé uno scalpello trafugato dalla fucina dell’Eretteo, che era poco distante da lì, ed era quella la sua arma contro la bruttezza, la vecchiaia e la decadenza.
Come quello scalpello appuntito forgiava statue di immensa e sublime bellezza, così avrebbe immortalato anche la sua, di bellezza, in un corpo eternamente giovane e avvenente.
Guardò l’attrezzo con occhio incerto, quasi come se quello che stava facendo fosse un gesto azzardato e fuori luogo.
Ma ripensando ai segni che il tempo avrebbe scolpito sulla sua pelle, sui suoi muscoli, sulle sue ossa e sui suoi capelli ebbe un moto di ribrezzo verso l’umanità, imperfetta e mortale, e si decise a compiere il fatale gesto. Non il tempo avrebbe scolpito il suo corpo, ma quello scalpello che creava eterna bellezza: con l’attrezzo si trafisse i polsi, recidendo le vene principali, e poi si sedette accanto al muro di cinta della terrazza e attese.
Era strano: lui, Anikétos, l’invincibile, era stato vinto. Vinto dalla paura della vecchiaia, delle brutture dell’umanità e da se stesso. E ora attendeva stoicamente, coi polsi pulsanti e stillanti sangue, che il misericordioso Thanatos venisse a prenderlo.
Però si rese conto che quel magnifico corpo che possedeva non sarebbe rimasto per sempre, anzi, si sarebbe decomposto e sarebbe scomparso. Sarebbe divenuto cenere sulla pira funebre che i suoi genitori avrebbero preparato per lui. Però la sua immagine sarebbe stata sempre giovane e perfetta nelle memorie di coloro che lo amavano e che lui amava.
Il suo amato fanciullo avrebbe ricordato per sempre la loro ultima notte insieme, il loro giovane amore, il suo viso maturo ma affatto vecchio, ancora fresco e vivace.
Stava defluendo da lui ogni singola stilla di vita e di energia insieme al suo scarlatto fluido vitale, che avrebbe tinto di rosso quelle pietre su cui il giovane poggiava la schiena, il capo e le braccia.
Poi, con un moto di forza degli ultimi istanti di vita prese lo scalpello e incise il suo nome lì, sulla pietra della terrazza, proprio sul fondo, poiché non avrebbe più potuto alzarsi per scriverlo più su.
Gli dèi gli avrebbero perdonato questo gesto di tracotanza, questa morte che avrebbe per sempre intaccato la sacralità di quel luogo, che l’aveva, ormai, insozzata con il suo umano sangue. Eppure aveva voluto morire in quel luogo sacro per ricordarsi del suo sacro amore, Hierotheos. Il suo nome e le sue fattezze, la sua mente pronta e brillante, tutto di lui gli ricordava le divinità. Allora quale posto migliore per una morte serena?
Richiamò alla mente il ritratto del giovane fanciullo e lo rimirò mentre gli occhi gli si spegnevano lentamente, sorridendo appena quando Thanatos il sommo venne a tendergli la mano per portarlo con sé giù nell’Ade.
«Ti amo, mio dolce Parthenos, piccolo dio», furono le sue ultime parole, sussurrate con il suo splendido sorriso dolce e amorevole che lasciava trasparire una morte piacevole.

 
°°°

Ho pianto per tutta la mattina guardando queste meravigliose opere antiche, per l’emozione di trovarmi qui, tra di esse, dopo sedici anni di passione per questa terra meravigliosa e accogliente.
Mi affaccio alla terrazza del Partenone e chiudo gli occhi, respirando l’aria calda di questo assolato mezzodì che scocca su questa sacra città che si estende ai miei piedi.
Riapro gli occhi e sogno: Atene è davanti ad essi e si amplia a vista d’occhio davanti alla mia vista stupefatta. Abbasso un poco lo sguardo e, a destra, riesco a vedere il Tempio di Giove, che i romani costruirono quando conquistarono la città, e a sinistra l’Ephaisteion, dedicato al dio Efesto.
Al mio tocco sulla meravigliosa pietra, che circonda la terrazza e la chiude al vuoto che si affaccia a strapiombo sulla città immensa, sento le incisioni dei nomi che nei secoli sono state fatte per rendere eterno e immortale il nome di chissà quanti viaggiatori, spettatori, cittadini e semplici viandanti. Ma non riesco a leggerne e capirne neppure uno, poiché sono tutti sovrapposti.
Mi sposto i capelli che ondeggiano nel vento caldo della Grecia e sento che mi è caduto un orecchino.
Sposto lo sguardo per terra e lo vedo lì, accanto alla recinzione di marmo della terrazza, così mi abbasso per prenderlo.
Abbassandomi scorgo un’incisione in basso, nella pietra, e, incuriosita, mi avvicino per leggerla.
Ανικητος
È una semplice scritta, senza spiriti né accenti, così mi accorgo che dev’essere di un’epoca molto antica. È profonda e incisa quasi distrattamente, come se colui che portava quel nome fosse andato di fretta.
Aniceto, l’invincibile.
Eh sì, dev’essere proprio azzeccato il detto “nomen, omen” che tutti conosciamo: il nome di quest’uomo non è stato vinto dal tempo, la sua memoria non si è consumata, ma rimane viva e immortale nell’iscrizione che, per sempre, apparterrà a quel sacro luogo che l’Acropoli di Atene è. E se non è sacro, di sicuro è magico, perché di luoghi così meravigliosi e intatti dopo lungo tempo io non ne ho visto molti.
I segni del tempo che lì giacciono, come il nome di questo eroe invincibile, sono conservati tutti lì, nel perimetro di quel luogo splendido.
Mi rialzo in piedi, con in mano il mio orecchino, e giro il capo, alzandolo verso la bandiera della nazione greca che sventola ergendosi su tutto e su tutti in questa giornata assolata e limpida.
Uno strano sentimento di gioia e di purificazione interiore mi pervade alla vista di quella bandiera che dall’Acropoli sovrasta tutta la città: il simbolo della libertà dei greci e della loro immensa e inestimabile cultura.










Angolo dell'autrice:
Ciao a tutti, questa è la mia terza storia originale, e vuole essere un pensiero al paese che amo di più al mondo, la Grecia, alla sua storia, alle sue tradizioni e alla sua cultura meravigliosa, oltre che ai tesori inestimabili che conserva da tempo immemore.
Ho fatto da poco, all'università, l'esame di archeologia e storia dell'arte greca e quindi mi sono sentita ispirata, sia da quello sia dai miei vecchi ricordi di quando, al liceo, visitai questo splendido Stato, per scrivere questa storia.
La dedico con tutto il cuore a mio zio che amava questo paese quanto lo amo io e, da piccola, mi raccontava sempre i miti prima che mi addormentassi. Inoltre, sono incluse nella dedica la mia migliore amica Jane Gray, a cui devo un'originale da non so quanto tempo, e a Bloomsbury, che legge soltanto storie originali e quindi questa è un assaggio di una long fiction che scriverò presto (si spera).
Spero davvero tantissimo che questa piccola one shot possa interessarvi e piacervi, perché io ci ho messo tutta me stessa nello scriverla e direi che mi sono affezionata non poco a questi personaggi, nonostante facciano parte di una storia così breve.
Povero Hierotheos, non ho voluto nemmeno immaginare come sarebbe stato male scoprendo che il suo amato non c'era più.
E dunque, questo è quanto! Vi lascio a un paio di noticine qui sotto e spero di rivedere chiunque apprezzerà questa piccola storia a leggere la long che arriverà fra un paio di mesi.
Grazie in anticipo per la lettura e le eventuali recensioni!
Un bacio a tutti voi,

Sid.



Un paio di piccole note:
1. Anikétos è un nome che in greco significa "invincibile", perciò c'è il gioco logico sia di Anikétos stesso, sia della ragazza che, alla fine, legge il suo nome inciso sulla pietra.
2. Hierotheos significa "dio sacro" in greco, e per questo Anikétos lo chiama a volte "piccolo dio", oppure afferma che in lui vive un dio; sempre per questo motivo sceglie un luogo sacro per morire, perché gli ricorda il suo amato.
3.
Καλός καί ἀγαθός in greco vuol dire "bello e buono", ed è il canone degli eroi greci dettato da Omero nell'Odissea. I greci credevano che la bellezza esteriore fosse sinonimo di bontà d'animo e bellezza anche interiore.
4. Quando, nel testo, accenno al fatto che era consuetudine in Grecia per un giovane quattordicenne avere un uomo che lòo istruisse, intendo alludere alla perderastìa greca, che è una forma di educazione sessuale che gioca sul ruolo dell'erastès (l'amante, in senso attvo della relazione carnale) con l'eromenos (amato, in senso passivo della relazione): l'erastès è sempre un uomo al di sopra dei diciotto anni, che sceglie il ragazzino da educare, mentre l'eromenos è il ragazzo che bisogna educare alla vita di coppia. Le parti del rapporto non vengono mai invertite, e quando l'eromenos raggiunge i diciotto anni, essendo disdicevole e fonte di vergogna per un cittadino maggiorenne essere il passivo, deve scegliere a sua volta un ragazzino da amare ed educare e lasciare per sempre il suo erastès.
5. Eleiopides, dal greco, significa letteralmente "occhi di oliva", e il ragazzo chiama così il suo amante perché i suoi occhi sono verdi come le olive.

Credo di aver detto tutto nelle note, quindi vi ringrazio ancora per la lettura e vi dico a rivederci!
   
 
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