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Autore: Snoopina    13/11/2014    0 recensioni
Una vecchia casa abbandonata. In quasi tutti i paesi ce n'è una, capace di calamitare le attenzioni dei ragazzini ed esasperarne l'immaginazione. A Gerla c'è la "Casa dei preti". E cosa c'è, davvero in quella casa? Fantasmi e teschi oppure solo sensazioni e consapevolezza?
Genere: Avventura, Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Era inevitabile che prima o poi arrivasse anche per loro il momento di entrare in quella vecchia casa.
I loro compagni si erano avventurati all’interno già l’anno prima, quando il tetto era ancora più o meno intero. Ne erano usciti raccontando di grandi stanze con il soffitto crollato a metà, di vecchi camini imponenti, di muri scrostati coperti di affreschi. Qualcuno aveva parlato di candele nere, teschi di animali e strane macchie color ruggine su altari improvvisati, ma Rachele si riteneva sufficientemente intelligente da riconoscere una bugia quando ne sentiva una. E sapeva che quei ragazzi più grandi, che andavano già alle scuole medie e tornavano a casa per pranzo, ogni tanto raccontavano qualche bugia ai bambini più piccoli.
Bambini come lei e Matteo, che ora studiavano le orbite vuote della casa dall’altro lato della strada. La chiamavano «la casa dei preti», ma secondo i vecchi del paese nessun sacerdote incaricato della piccola comunità di Gerla aveva mai abitato lì. Era una casa grande, con tre piani e una decina di stanze, e i preti si erano sempre accontentati della piccola casa parrocchiale vicino alla chiesa. Negli anni l’edificio era andato lentamente in rovina. Ora i muri lasciavano intravedere l’intonaco e i sassi al loro interno. Alle finestre erano rimaste solamente le inferriate, dietro cui si intravedevano muri per metà distrutti attraverso cui crescevano indisturbati rovi e piante infestanti. Il portone era sbarrato e qualcuno vi aveva inchiodato delle assi. Dopo essersi trovati a risarcire vari automobilisti inferociti per una tegola caduta sul parabrezza, dal Comune avevano finalmente deciso di smantellare il tetto, lasciando solo l’ossatura in legno, e di circondare la struttura con la classica rete arancione con tanto di segnali di pericolo. Sennonché niente di tutto questo ingannava loro, i ragazzini. Chiunque avesse meno di quindici anni in paese sapeva che il vero ingresso si trovava sul retro.
Matteo e Rachele lo sapevano, come tutti gli altri, ma non l’avevano mai visto. Occorreva già del coraggio per sgattaiolare lungo il fianco della casa, in mezzo alla penombra degli alberi del bosco dietro, fino a quel punto. Chiunque, dalla strada, poteva vederti e riferirlo ai tuoi. E a quel punto erano dolori. Eppure, nonostante tutto, lei aveva deciso di entrare. Forse per la prima volta nella sua vita di bambina votata alla logica e all’obbedienza, si trovava a fare i conti con qualcosa di irrazionale. Non c’era nessun motivo per cui entrare in quella vecchia casa, lo sapeva. Al suo interno non poteva esserci niente di più eccitante dei danni causati dal tempo, che peraltro si vedevano chiaramente già da fuori. Sua mamma sarebbe stata addolorata se avesse saputo che aveva disobbedito, di quel dolore di cui sembrava essere capace solo lei, composto da una delusione tale da soppiantare la rabbia. Suo padre le aveva spiegato perché non doveva entrare con uno dei suoi soliti discorsi logici e lineari, che lei aveva amato e aveva imparato a sua volta a costruire metodicamente. La struttura, le aveva fatto notare con il tono di chi sa che non è realmente necessario, era pericolante: dall’alto potevano cadere dei calcinacci. Oppure il pericolo poteva annidarsi sotto i piedi, celato in un pavimento che sarebbe parso solido ma in realtà sarebbe andato in pezzi sotto il suo peso, lasciandola precipitare nello scantinato. Lì dentro, aveva concluso suo padre, non c’era niente di interessante. Non aveva quindi senso rischiare di farsi male per un gioco. Tutto logico, tutto lineare. Eppure, con il tempo, qualcosa nella parte più profonda di Rachele si era mosso. Sicuramente i suoi avevano ragione, dentro quella casa non doveva esserci niente di che. Ma voleva vederlo con i suoi occhi.
Dall’angolo della casa si sporse un ragazzo con un cappellino nero con la visiera piegata nel centro, che fece un cenno nella loro direzione. Rachele toccò il gomito di Matteo e si guardò in giro prima di attraversare la strada verso la casa dei preti. Il bambino arrancò dietro di lei. Lui non era contento, Rachele lo sapeva. Già in settimana, a scuola, aveva tentato più volte di dissuaderla da quell’impresa. «È stupido. Non crederai davvero alle storie delle messe per il diavolo, vero? Quella è roba per gente come lo Stefano e il Marco – aveva sibilato dal banco accanto al suo, indicando due bambini robusti seduti in prima fila, che fissavano i loro quaderni con aria perplessa – rischiamo solo di farci mettere in punizione». Ma lei non aveva sentito ragioni e al sabato, prima di catechismo, si era fermata a parlare con uno dei ragazzi più grandi perché li accompagnasse. Matteo lo conosceva di vista: era stato alle elementari di Gerla prima di andare alle medie di Vercigna. Si chiamava Lorenzo, ricordava, e non gli era mai piaciuto. Alla ricreazione se ne stava sempre seduto con il suo gruppetto nella cabina telefonica della piazza dove uscivano a giocare, le gambe magre allungate con spavalderia attraverso le porte aperte, e qualche volta, negli ultimi tempi, gli sembrava addirittura di averlo visto fumare con una combriccola della sua età, di quelli che perderli era meglio che trovarli. Eppure Rachele non aveva voluto sentire ragioni e ora, dopo la lezione di catechismo (che Lorenzo non frequentava), lui li stava aspettando.
«Non mi piace» ribatté sottovoce Matteo, attento a farsi sentire solo da Rachele. Lei lo ignorò e corse dietro la casa. Lorenzo afferrò la bambina per le spalle e con fare teatrale la trascinò al riparo del muro. Le pupille, negli occhi verdi del ragazzo, erano dilatate dalla tensione. Sebbene Matteo si fosse già spostato per evitare di essere visto dalla strada, Lorenzo lo apostrofò rudemente: «Levati da lì! Vuoi che ci becchino?». Il bambino più piccolo trattenne un sospiro e si spostò senza proferire parola. Rachele se ne accorse e aprì la bocca, ma finì per non dire niente. Ora vedeva il buco nel muro da cui avrebbero dovuto entrare. Era delle dimensioni giuste per un bambino. Lorenzo era già troppo alto e dovette lasciarsi scivolare sulla pancia. La maglietta leggera gli risalì lungo il torso, lasciando intravedere la linea netta della colonna vertebrale. Rachele scavalcò subito dietro di lui, passando elegantemente una gamba per volta dall’altro lato. Lorenzo le prese la mano per aiutarla, ma lei era già in piedi vicino a lui, intenta a guardarsi intorno. C’era una luce strana, lì dentro. Matteo aveva tentato di fare passare contemporaneamente una gamba e il busto e si incastrò. Imprecò sottovoce, attirando l’attenzione di Lorenzo, che lo strattonò per un polso finché riuscì a passare. «Sta’ attento!». Rachele non li ascoltava. Intorno a lei non c’era niente di diverso da quello che si era aspettata, ma al contempo c’era molto di più. Anni dopo avrebbe ancora ricordato la visita in quella vecchia casa come una delle esperienze più intense della sua infanzia: lì aveva realizzato per la prima volta del potere invisibile del tempo. Era un concetto che fino a quel momento non aveva considerato, mentre negli anni successivi l’avrebbe dato per scontato. Solo lì, circondata da quella luce senza età e dall’abbandono, aveva colto appieno il suo significato. Gli anni avevano schiarito le greche color bronzo intrecciate sui muri, sbiadendo le pennellate fino a un rosa antico. Cos’era stata quella stanza? Chi ci aveva vissuto? Quali discorsi avevano sentito quelle mura? Rachele avanzò cautamente verso un arco che conduceva in un’altra stanza. A ogni passo saggiava delicatamente con la punta delle scarpe da tennis il pavimento di legno sotto di lei, che sembrava abbastanza solido per reggerla. Quando raggiunse l’apertura si bloccò sotto l’architrave, incantata. Senza riflettere appoggiò le mani agli stipiti, malgrado le mille raccomandazioni di Lorenzo. L’altra stanza era vasta e ariosa e un gigantesco camino, più alto di lei, troneggiava sulla parete. Un tempo dovevano esserci stati quegli affari di metallo per tenere fermi i ciocchi di legno (per quanto si sforzasse, a Rachele non veniva in mente il loro nome) e magari anche un elegante set di accessori, ma ora nel focolare rimaneva solo il nero della fuliggine e andava bene così. Vandali e sciacalli avevano già preso di mira la casa dei preti anni prima, la bambina lo sapeva. Ma quella maestosa opera in muratura era rimasta lì, immobile negli anni, solo per finire sotto i suoi occhi. Non c’erano teschi né altari con croci rovesciate, ma solo un vecchio, bellissimo camino bianco, annerito dagli anni. Le sembrava che avesse vinto le sabbie del tempo per incontrarla. Immagini confuse si affastellarono nella sua mente: il monumento ai caduti nella piazza di Gerla, gli affreschi in chiesa, le lapidi ormai corrose del cimitero. Gli uomini erano vissuti prima di lei e avrebbero continuato a farlo dopo la sua morte. Rachele si girò, gli occhi grigioazzurri luccicanti. Lorenzo e Matteo non si erano mossi e la guardavano in silenzio. Lo sguardo di Lorenzo rimaneva in ombra sotto la tesa del cappello. Quello di Matteo era ingenuo e si sarebbe lasciato leggere da chiunque l’avesse ritenuto abbastanza interessante da volere capire i pensieri di quel bambino così serio. Rachele passò in mezzo a loro e si infilò agilmente nel buco, senza l’aiuto di nessuno. Matteo fece per seguirla, poi si bloccò e guardò Lorenzo. Lui, senza parlare, gli fece cenno di andare. Matteo non se lo fece ripetere e si allontanò senza guardarsi indietro, come se la casa avesse potuto morderlo. Lorenzo lanciò un’ultima occhiata a quella stanza, in cui era già entrato tante volte. Tante al punto da non essere più eccitante come le prime volte. Eppure aveva accompagnato lo stesso quella mocciosetta. Sospirò e si strinse nelle spalle per uscire da quel buco così stretto. Rachele era già al limitare del boschetto e lo guardava senza espressione.
In quella casa erano entrati in tre, ma lei ne era uscita da sola.
   
 
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