5 - Allontanarsi
È un bacio delicato, leggero, titubante. Sembra quasi abbia paura io mi spezzi e forse mi sta davvero succedendo. Forse, al tocco delle sue labbra, tutto il mio essere si è disperso per la stanza. Forse non tornerò mai più intera.
Percepisco tutto. Il modo in cui la sua mano trattiene il mio viso, il leggero sfiorare della sua lingua, il suo profumo, il suo corpo che si china sul mio, la mia schiena tesa per arrivare a lui, il caldo che si diffonde dal caminetto accarezzando la mia pelle. Ogni singola sensazione mi sembra amplificata.
Il mio cuore, poi, batte tanto forte che temo lui possa sentirlo.
Quando interrompe il bacio, quasi mi accascio sul divano, in una stanchezza che non è fisica o mentale ma solo emotiva. Il suo pollice mi accarezza piano la guancia e il suo sguardo non si separa dal mio.
«Non voglio andarmene.»
Le parole mi escono fuori prima che io possa fare qualcosa per fermale. Sono istintive e sono, per mia sfortuna, la pura e semplice verità. Una verità distorta, malata, tinta di tutti i motivi per cui non dovrebbe esistere.
«Non voglio tu vada» la sua risposta.
Mi stupisce, eppure sono certa anche questa sia la verità, per quanto scomoda o terribile, per quanto inaspettata e impossibile. Davanti a tutto questo, cosa dovremmo fare?
«Mi dispiace» dico.
«Non hai colpe» bisbiglia, avvicinando nuovamente le nostre bocche.
Ed è più esigente, più profondo. Scava in angoli nascosti della mia anima, marchiandomi. Con questo bacio so che non sarò più io a uscire da questa casa, so che sarà impossibile non cambiare, so che il pensiero di lui occuperà tutto ciò che sono.
Si china appena di più, sento le sue braccia attorno al corpo, calde, che scendono, afferrandomi con forza fino a sollevarmi dal divano. Mi aggrappo alle sue spalle, mentre lui si avvia lento verso le scale. Supera la porta della mia stanza e ne apre una poco lontano, per adagiarmi sul letto che la occupa, prima di accendere una lampada. Tutto è impregnato del suo odore, tanto che resto inebriata per un istante. Vorrei poterlo avere sempre addosso, sulla pelle.
«Non so il tuo nome» ricordo a un tratto, fissandolo.
È così vicino che posso davvero vedere ogni sfumatura delle sue iridi, ogni minuscola piega delle sue labbra, ogni sottile ciocca bianca che gli ricade sulla fronte.
«Adelbert» rivela dopo qualche attimo di silenzio.
Percepisco finalmente il perché della strana nota nella sua voce, un accento mascherato, il vago ricordo di un'origine.
Il desiderio di averlo si mescola a quello di sapere tutto di lui ed è così forte che spinge nuovamente le mie labbra sulle sue, come a unire con i nostri corpi anche le nostre menti. Stiamo sbagliando. Io, ad assecondare il desiderio che potrebbe essere nato solo dalla reclusione, e lui con me. Perché sono in suo potere, sono a sua disposizione. Una parte di me sa tutto questo, il resto di me lo ignora.
Scivola con le dita sotto i vestiti troppo larghi che indosso, mi accarezza, mi sfiora, mi stringe. Mi spoglia. Il freddo pizzica nella penombra della stanza e mi sento comunque troppo esposta, troppo imperfetta, così sgraziata. Il suo peso su di me mi ripara, però, e presto voglio sentire la sua pelle sulla mia, dimenticandomi del resto. Sfilo la maglietta e accarezzo ogni centimetro di lui, ogni tratto di epidermide. Le sue dita mi cercano e mi trovano, facendo uscire sottili gemiti dalle mie labbra. Le mie mani fanno lo stesso con lui, fino a che i nostri corpi non si uniscono per davvero e lo sento dentro in ogni modo possibile: nella carne, nell'animo, nella mente. Con quei suoi occhi mi esplora alla ricerca di un assenso che ho dato più volte, ma che vuole nuovamente. Scontro ancora la mia bocca sulla sua, perché ci voglio uniti, una sola cosa, un solo essere, una singola entità. Non abbiamo cautele, razionalità, senso di ciò che sia giusto e di ciò che non lo sia. Ed è tutto così sbagliato...
Si muove piano, con la stessa delicatezza con cui mi ha sempre trattata, affondando la mano fra i miei capelli, lasciandomi addosso una scia di piccoli baci e di sospiri leggeri. Il ritmo aumenta lentamente, impercettibilmente, finché non sono io a chiedere di più, spingendolo contro di me con le mani, andandogli incontro con il corpo. Finalmente si abbandona e insegue il suo piacere senza preoccuparsi per me, per quello che può accadermi, per ciò che sto pensando.
Quando ci separiamo, sfiniti e sconvolti da questo inaspettato coinvolgimento, le lacrime stanno già rigando le mie guance. E non importa quanto forte mi stringa, non importano le parole che mi sussurra all'orecchio, nulla ha valore, neanche l'idea che conoscerò finalmente mia madre.
Voglio solo restare qui, con lui, lasciargli fra le mani il peso intero della mia vita perché ne faccia quello che vuole.
♦⸎♦
Il mattino dopo, il letto è freddo e sono da sola a annegare fra le coperte. Lui non c'è, ma su una sedia poco lontana ci sono alcuni vestiti nuovi. Immagino li abbia comprati per me e mi dirigo in bagno per lavarmi e indossarli.
Non impiego più di venti minuti e sono già diretta in cucina, guidata dal profumo della colazione. L'idea di mangiare torna ad appesantirmi lo stomaco, ma mi siedo, cauta.
Adelbert è appoggiato al ripiano, con le braccia incrociate al petto e Cerbero ai piedi che affonda il viso nella ciotola.
«Buongiorno» mormoro.
Mi rivolge un sorriso malinconico e accennato che mi colpisce in pieno petto.
«Ha chiamato tua madre. È in viaggio» mi informa sedendosi. «Stai bene?» chiede poi.
«Come?» domando, perplessa, portando la tazza alle labbra.
«Incontrerai tua madre.»
Ci penso. All'idea sento uno strano senso di oppressione all'altezza dei polmoni. Eppure la mia mente è altrove, è con lui, è per lui. Non riesco a pensare ad altro se non alle sensazioni che mi ha fatto provare, al desiderio di restare.
Abbasso gli occhi, concentrandomi sulla colazione. Non voglio legga sul mio viso tutto quello che sento, non voglio mi giudichi una sciocca e, più di ogni altra cosa, non voglio sapere cosa prova lui. Mi deve bastare la notte passata, devo farne tesoro, custodirla nella mente, lasciare che la realtà non la schiacci, annientandola.
La sua mano scorre sul tavolo e si posa piano sulla mia.
«Tornerò a casa» dice, scrutandomi. «A Berlino ho una casa.»
«Perché me lo stai dicendo?» domando, imponendo alle lacrime di tornarsene da dove sono venute.
«Quello che ti ho fatto, ieri sera, non doveva succedere. Dovresti raccontarlo a qualcuno e dire dove sarò io, per quando mi verranno a cercare. Ho fatto tante cose sbagliate e non me ne sono mai pentito, ma quello... non avrei dovuto.»
Ritira la mano, ma mi ci aggrappo con le unghie.
«L'ho voluto io.»
«Non sei e non eri nella condizione di prendere decisioni, Serena. Ti ho tenuta qui, questi mesi, e la tua vita è dipesa da me. Tutto è dipeso da me.»
«Credi io non lo sappia? Credi non sappia quanto sia sbagliato? Credi non capisca cosa stia succedendo? Non sono stupida!» dico, alzando la voce, sfogando la rabbia.
Non vorrei urlare, non vorrei sputargli contro tutta la mia frustrazione, ma mi fa sentire subito meglio. Non credo di aver mai davvero gridato tutto il mio disappunto a nessuno e ora capisco quanto questo mi abbia logorato. Qualcuno suona al campanello e mi immobilizzo.
Lui fa un profondo sospiro prima di parlare.
«Vai» dice soltanto.
Mi chino ad accarezzare Cerbero con un enorme groppo in gola che mi impedisce di respirare.
«Addio» gli mormoro.
Non posso guardare Adelbert. Non posso né voglio. Devo solo andarmene senza voltarmi indietro.