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Autore: outofdream    17/11/2014    1 recensioni
Rivisitazione di "Twilight", di S. Meyer.
Dal 17 Capitolo:
Rimasi immobile in quel modo, rossa in viso, coi piedi scalzi e i capelli arruffati, lo sguardo fisso su di lui.
Non ero spaventata, ma non sapevo nemmeno cosa fosse giusto fare.
Le sue mani delicate sfiorarono i contorni rigidi della finestra e ne spostarono con leggerezza le ante, facendo entrare nella stanza un’aria pungente, fredda e morbida. Provò a sorridermi, ma sapevo che in quel momento la sua tristezza non conosceva confini e quando lo capii, non potei resistere: corsi verso di lui, gettandogli le braccia al collo e stringendolo a me.
Oh, Edward.
Genere: Romantico, Sentimentale, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Un po' tutti | Coppie: Bella/Edward
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Twilight
Capitoli:
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                                                                                             Alba


«Non ci posso cedere. State scherzando vero?».
«Oh santo Dio, non puoi passarci sopra e basta?».
«Mi prendete per il culo? Mi sono perso tutto il meglio! Mentre voi eravate là a divertirvi, io me ne stavo con le mani in mano davanti a casa Swan! Perché non mi avete detto nulla?!».
«Se questa è la tua idea di divertimento..», mormorò Rosalie.
«È esattamente la mia idea di divertimento!», sbottò Emmett, nascondendo il viso fra le braccia incrociate sull’isola della cucina. Mi ricordavo il momento in cui ero entrata in quella casa, scortata dalla famiglia Cullen al completo: adesso che la notte era superata, che avevo attraversato quell’alba tumultuosa, sentivo che tutta la tensione, l’ansia di quegli attimi, era crollata, svanita fra le mie braccia come sabbia.
Sotto la debole luce della mattina che ormai cominciava a farsi di momento in momento più nitida, i volti stanchi e macerati dei Cullen cominciavano a rilassarsi, distendersi. «Hai fatto un gran bel casino qui, eh fratello?», Jasper ammiccò all’entrata della stanza di Edward, e questo suscitò una risatina generale, ma quello non si curò proprio della domanda, anzi.
Mi guardava come se avesse altro per la testa.
«Forse ci costerà un po’, ma immagino che nel giro di un paio di settimane sarà tutto di nuovo come prima», mormorò rilassato Carlisle.
«L’importante è che tutto sia andato per il meglio», sussurrò Esme lasciandosi cadere su una sedia, «credevo che sarei morta», ridacchiò, un pizzico divertita e eccitata da quello che era stato certamente un evento al di fuori della sua routine. «Te la sei cavata bene», osservò Carlisle guardandola, e un lampo d’amore brillò nelle profondità di quelle pupille scavate nel viso stanco. In quei brevi istanti mi resi conto di una cosa: adoravo guardarli così. Non solo per via della loro, ben nota e più che ovvia, bellezza, ma per la normalità che emanavano in quei momenti. Mi colpì il modo in cui somigliassero proprio a dei veri esseri umani, alla loro unità e la flebile gioia che nutrivano per la serenità delle loro vite tranquille.
«Nemmeno Bella scherza, eh», ghignò Emmett tirandosi su e poggiando la testa sul dorso della mano.
Mi lanciò un’occhiata ammiccante e per un attimo mi tornò in mente James.
E le garze e i cerotti che mi ricoprivano – non c’era che dire, Alice era precisa e decisamente molto più efficiente di quanto mi aspettassi (in questo assomigliava veramente in una maniera inquietante a Carlisle): non appena eravamo tornati a casa si era occupata di me in tutto e per tutto, mi aveva curato le ferite, fasciato gli avambracci, graffiati dai pezzi di vetro che mi erano praticamente esplosi in faccia dopo l’arrivo di Edward, aveva persino messo un cerotto sul mio ginocchio. In genere avrei opposto resistenza, le avrei detto: «Non preoccuparti, puoi andare, faccio io», e l’avrei rassicurata con un cenno della mano, ma in quelle circostanze, non mi sentivo in vena di fare obbiezioni. In realtà, dopo quel bacio – quei baci – non riuscivo molto a guardarla in viso: non avevo idea di cosa pensasse di me, in quei frangenti.
Mi odiava? Mi disprezzava per aver infranto la mia promessa? Oppure, molto più semplicemente, si lasciava ancora cullare dall’astio che le era nato in corpo sin dal giorno in cui Edward mi aveva salvata?
«Le hai prese di santa ragione, eh?», trattenne una risata Emmett e Rosalie gli tirò un pizzico.
«Che c’è? È forte. È tosta, ho capito perché gli piaci», ammiccò in direzione del fratello.
Cadde un silenzio imbarazzato.
«Mh..», mormorai, «Grazie.. Ma se non fosse stato per Alice non sarei nemmeno potuta arrivare sul posto, quindi..». Lei scrollò le spalle, «Però è vero, sei stata bravina, te lo concedo».
Le lanciai un’occhiata al di là della stanza: mi stava rivolgendo un sorriso!
Piccolo, composto, appena accennato, ma era un sorriso. E allora, allora forse poteva esserci un posto nel suo cuore per me? Forse avrebbe potuto accertarmi, magari poco a poco. Ripercorsi gli attimi passati col pensiero, rividi Alice nella mia memoria, il modo, i molti modi, in cui mi aveva guardata in quella notte, dapprima con sollievo, poi con rammarico e una lieve punta di rimorso, infine con rabbia, ma anche con paura, serietà, calma. Non potevo dire di volerle bene, né di fidarmi di lei, non completamente almeno, ma quel lieve sorriso mi fece ripensare alle sue durissime parole, taglienti come le lame di un rasoio («Non se ne parla. Devi restare qui. Non saresti di nessun aiuto, la verità è che non lo sei mai stata, anzi! È solo colpa tua! Stai qui finché non torniamo», aveva gridato, preda della più cieca fra le paure), ma non riuscivo davvero a odiarla per questo: sapevo che non era così che era, sapevo che non era ciò che pensava. L’avevo sentita parlare sinceramente, la volta che portò via da casa mia Edward e quando eravamo insieme sulle scale, lì, no, non era sincera. Forse c’era una vena di risentimento nascosta fra le linee del discorso, ma in fondo al cuore percepivo il suo desiderio di spingermi via per proteggermi. Perché l’avevo visto riflesso sulla superficie del suo pallido viso quando avevo ripreso conoscenza: non desiderava la mia morte e il fatto che avessi riaperto finalmente gli occhi su quel mondo così meraviglioso e anche così ingiusto l’aveva sollevata, gonfiandole il cuore di gioia. Voleva che mi salvassi e forse non tanto per preservare la mia vita in quanto tale, ma per non distruggere quella di suo fratello: immagino che Alice avesse capito già da prima che non avrei potuto mantenere la mia parola e di questo la ringraziavo.
«Bella, a proposito delle ferite..», disse Carlisle, «Andrebbe bene dire a tuo padre che sei caduta mentre facevi una girata nei dintorni della casa, di sera. Le garze copriranno il più.. E impediranno che si insospettisca».
Oh, beh, credibile.
Ma,..
Le dita sfiorarono il mio collo che ancora doleva – quando ero andata in bagno, di ritorno dal campo di battaglia, avevo potuto osservare con estrema chiarezza e turbamento le impronte violacee e profonde che le dita di James avevano lasciato sul mio corpo. Dio, al solo pensiero ancora mi scoprivo scossa da mille tremori e dovevo focalizzarmi sull’attimo esatto in cui Edward l’aveva ucciso e in cui Jasper e Carlisle gli avevano dato fuoco («È così che si fa», aveva detto Esme quando mi era venuta vicina, «È così che un vampiro muore»). Quelle orme scure, come avrei potuto giustificare quelle?
«Ti metterò un po’ di fondotinta», Alice mi precedette, «non si noterà nemmeno».
«Oh.. Grazie», mormorai serena.
«Ah! A proposito», mi voltai di scatto verso Jasper, «ho preso in prestito il tuo sovrapposto. Te lo avrei dovuto dire subito ma.. Mi è passato di mente».
Jasper mi sorrise, «Va bene, lo so. Sei stata molto coraggiosa».
Scrollai le spalle, cercando di non arrossire.
«Avrei voluto esserci», grugnì Emmett scontento, «maledizione, la prossima volta Charlie tocca a voi».
Al suono di quel nome sussultai.
«Tranquilla, Bella, sta benone. Ho passato le ultime ore a sentirlo russare. Se la passa meglio di me», sorrise e a me sarebbe venuto voglia di abbracciarlo, quel ragazzo così simile a una montagna e dai capelli neri come piume di corvo, nella stessa maniera con cui avrei potuto stringere un fratello o il più caro fra gli amici. Emmett sembrava sempre così perfettamente a proprio agio quando mi aggiravo nei dintorni di suo fratello, era l’unico che mi avesse mai sorriso, dopo l’incidente, l’unico che non mi facesse venire i brividi solo a guardarlo. L’unico che non avesse provato a separarci, me e Edward.
Gli sorrisi, «Grazie Emmett».
«Quando vuoi, sorellina», ridacchiò.
Rosalie gli lanciò un’occhiata perplessa, ma perfino lei pareva più rilassata, «Forse dovremmo andare tutti a riposare. Non so voi ma io sono a pezzi. Come se non bastasse, guarda qui», si prese una ciocca di capelli sporchi e annodati fra le mani, «Quella figlia di puttana di Victoria mi ha rovinato tutti i capelli! Per non parlare dei vestiti! Dio, che schifo».
Emmett le prese teneramente la piccola mano delicata fra le sue grandi e grosse e la baciò piano, «Ma sei bella comunque». Quella tirò su un’espressione di finta noncuranza, ma io la vidi sorridere.
«Rose ha ragione, io di certo avrò bisogno di un bagno», Jasper esaminò le sue lunghe braccia ricoperte di terriccio e erba. «Amen», sospirò Alice.
«Abbiamo tutti bisogno di un po’ di tempo per noi, per riprenderci.. Era da molto che non affrontavamo un’emergenza simile», sorrise rivolto verso di me e Edward, il quale ancora non aveva spiccicato parola.
«Ci farà bene, ci rimetterà in sesto».


Lanciai un’occhiata al salotto vuoto e mi morsi un labbro, nervosa. Se n’erano andati tutti. Chi a farsi una doccia, chi a leggere un libro, chi a fare una passeggiata.. Gli altri membri della famiglia Cullen avevano preso alla lettera le parole di Carlisle e, inoltre, avevo il vago sospetto che volessero lasciarci da soli.
Passati quei momenti terribili, di ansia e confusione, non riuscivo più con la stessa sicurezza a guardare Edward negli occhi: ora che avevo esaurito la mia scarica di adrenalina, non riuscivo più nemmeno a pensare lucidamente. Dio mio. Lui, dal suo canto, non mi aiutava granché, non faceva che starsene zitto, seduto sul divano vicino a me e per un attimo fui colta da una tristezza improvvisa – forse non mi voleva.
O non voleva legarsi a me. L’avrei capito, in realtà.
Per lui doveva essere già difficile starmi vicino, seduto su quel divano come adesso, potevo solo immaginare cosa dovesse significare baciarmi o tenermi semplicemente più stretta.
Sospirai.
«A Charlie prenderà una sincope quando mi vedrà arrivare a casa così conciata», forzai una risata.
Lui non disse nulla.
Forse ricordargli le mie precarie condizioni fisiche non era stata una buona idea, dopotutto.
«Già..», borbottai fissandomi le ginocchia, «La prossima volta limitiamoci a giocare a Monopoli, eh?».
Nessuna risposta.
Lo guardai di sottecchi: non mi stava nemmeno prestando attenzione! Soffiai irritata, si poteva sapere cosa gli passava per la testa? Gli lanciai un’occhiata perplessa e mi accorsi di come, in quel preciso istante, sarei anche potuta implodere, probabilmente non se ne sarebbe accorto. Una parte di me sapeva già come sarebbe finita quella conversazione. Non avrei dovuto baciarlo, avevo decisamente scavallato un limite, forse era per questo che Alice appariva così tranquilla e rilassata: sapeva che non ci sarebbero stati problemi in ogni caso e non perché Edward non mi volesse, ma perché perfino lui capiva quanto stupido fosse imbarcarsi in una relazione simile con un essere umano. Inoltre, stando a quanto aveva detto Alice, i Cullen si sarebbero comunque trasferiti di lì a due anni, forse meno, cosa avrei fatto allora? Mi sarei infilata in una relazione a distanza? Con un vampiro? Buon Dio, perfino il pensiero aveva un che di surreale, figurarsi la pratica. «Hai la mia maglietta», disse a un certo punto, fissandomi.
«Ah, sì..», risposi io.
Mi lanciò un’occhiata perplessa, al ché io feci: «Quando ve ne siete andati avevo così paura che non sapevo più nemmeno cosa fare.. Quindi mi sono messa la tua t-shirt, perché, uhm», arrossii violentemente, «ha un buon profumo e quando me la sono infilata mi sono sentita meglio. Più tranquilla».
Di nuovo, nessuna risposta.
«Mi dispiace, te la lavo e te la restituisco domani», dissi nervosa.
Per un attimo, sembrò non capire, poi un sorriso radioso illuminò il suo viso.
«Puoi tenerla, sai? È tua se la vuoi».
«Edward, mi dispiace», feci tutt’un tratto, avvalendomi di quel piccolo spiraglio che si era aperto in lui e nel mio cuore in quel momento.
Scrollò le spalle, «Ti ho detto che va bene, non mi da fastidio».
«No, non hai capito», lo fissai dritto negli occhi, «non mi riferivo alla maglietta. Ma a quello che.. Al fatto che io, insomma. A quel bacio».
Quei baci, enfatizzò una vocina nella mia testa.
«Non avrei dovuto. Mi dispiace di averlo fatto, deve esserti preso un colpo, avermi così vicina tutt’a un tratto. È che a volte io mi dimentico. Mi dimentico di cosa sei, capisci? A volte mi scordo delle nostre differenze, molto più spesso di quanto dovrei e anche di quanto debba essere difficile per te starmi vicina, quanto debba frustrarti il fatto di non poter assecondare la tua natura. Perciò, mi dispiace. Non lo farò più».
Le sue mani toccarono le mie braccia e, stringendomi in una presa lieve, mi tirarono verso di lui, spingendomi verso il suo petto, lasciando che la mia fronte si posasse, delicata come una farfalla, sull’incavo del suo collo e mi passò una mano fra i capelli.
«Vedi?», lo sentii sorridere, le labbra poggiate sui miei capelli.
«Vedi? Non fa più così male. Ho passato così talmente tanto tempo con te che ormai non ci faccio nemmeno più caso. Sento solo il profumo, il dolore non è più così intenso come la prima volta che ti sei seduta accanto a me. Posso baciarti, se voglio», mi prese il viso fra le mani, «posso baciarti il naso, la fronte, le guance..». Si avvicinò ancora di più, fino a lasciare che le sue labbra sfiorassero le mie.
«Certo magari», soffocò una risata sentendomi tremare, «mi ci vorrà un po’ di pratica, che ne pensi?».
«Naturalmente», mormorai io schiarendomi la voce e tentando di darmi un tono, «la pratica è.. Fondamentale». «Allora è deciso. Sappi che sono uno studente molto entusiasta, quindi per quanto mi riguarda possiamo cominciare anche subito», schiuse le labbra e sfiorò delicatamente il mio labbro inferiore con la punta della sua lingua.
Passai una mano fra i suoi capelli bronzei scompigliati e sporchi e lo tirai verso a me, un guizzo di gioia fece accelerare il mio battito cardiaco: mi stupii nel rendermi conto da quanto tempo volessi che qualcosa del genere succedesse.
«State già pensando di creare una nuova razza voi due?», la voce di Emmett ci fece girare di scatto. Eccolo lì, con quell’aria divertita, a guardarci al di là dello schienale del divano.
«Oh ma,.. Santo Dio che vuoi?», sbottò Edward visibilmente irritato.
«Ssh», lo ammonii io con una pacchetta sulla testa, «lascialo stare, mi sta simpatico».
«Oh, che carina che sei», mi sorrise Emmett, «tieni, per te», mi passò la maglietta che avevo lasciato sul letto di Edward prima dell’arrivo di James. «Grazie, me ne stavo quasi per dimenticare!».
«Allora, quindi.. Voi due..», lasciò cadere la frase con fare allusivo.
Lanciai un’occhiata a Edward.
«Sì, noi due», rispose scocciato il fratello, con un’espressione imbronciata.
«Oh, Bella», Emmett si portò una mano sul petto, «ti prenderai cura di questo verginello inesperto?».
Dall’altra stanza sentimmo Jasper scoppiare a ridere.
«Hai un cuore così grande!». Jasper stava morendo.
Soffocai una risata, mentre Edward diventò livido di rabbia, «Spero tu muoia», sibilò a denti stretti.
«Di nuovo?», rise Emmett.
«Dai Edward, non ti preoccupare, si vede che ti vuole bene anche se sei un po’ imbranato», urlò Jasper, lontano. «Io vi giuro che..», ringhiò Edward, sul punto di balzare giù dal divano per darle di santa ragione ai due, ma io lo strinsi a me, senza alcuna difficoltà e poggiai la sua testa sul mio petto.
«Non vi preoccupate, ci penso io a lui», ridacchiai.
Era incredibile come il suo corpo aderisse perfettamente al mio, la sua tempia fredda si riscaldò immediatamente al contatto col mio petto – era così naturale, sembravamo proprio una coppia qualsiasi e questo mi fece sorridere. «Lo spero», Emmett ridacchiò e Edward gli fece una linguaccia.
«A proposito», dissi io, «siete sicuri che non sia un problema che io resti qui con voi? Non vi da fastidio il mio odore?». Edward mi strinse a sé; «A me piace», borbottò affondando il viso nell’incavo del mio collo.
Emmett scrollò le spalle, «In realtà la storia dell’odore è molto soggettiva, per noi non è veramente un problema starti vicina, almeno non adesso. Ci abituiamo anche noi, sai? E poi vorrei ricordarti che stiamo per lunga parte del giorno fra voi umani molliconi. Questa è la vita che abbiamo scelto», disse lui, fingendo un sospiro esasperato.
Ero così felice che avrei potuto mettermi a ballare. Era tutto lì, quello per cui avevo lottato – la mia meritata ricompensa, il mio tesoro, la mia rivincita, e tutto in me, la mia faccia, i miei occhi, la mia pancia, le mie gambe, tutto sembrava sciogliersi dalla gioia, dalla commozione. Edward era lì, fra le mie braccia e io non ero debole, non ero spaventata, non ero sola, non  più, ma finalmente pronta e capace.
E c’era in me questa forza che mi animava e mi muoveva e mi faceva ridere e piegare la testa, poggiarla su quella di lui, parlare, respirare il suo odore. C’erano in me ancora domande, tutte senza risposta – a cosa si riferiva Jasper quando parlava di un equo scambio? Che relazione aveva con la famiglia Cullen? Cosa mi nascondevano gli attenti occhi di Carlisle che mi avevano tenuta d’occhio per tutta la mattinata, in quella casa in rovine? Cosa ne sarebbe stato di Victoria? – ma riuscivo a prestar loro ben poco del mio interesse. Con lui lì, fra le mie braccia, sorridente, vivo, e per ora felice, di cos’altro mi sarei potuta preoccupare?
«Quando tornerò a casa, verrai a trovarmi? Voglio guardare un film stasera», mi abbassai su di lui e lo sentii come sorrideva contro la mia pelle e per un attimo quel dolore così piacevole mi bucò il cuore facendo uscire l’amore. «Sono praticamente già lì», rispose.


«Cristo santo..».
«Non è male come sembra», mi schiarii la voce, «potevo farmi più male».
«Più male? E come?».
In quel momento pregai che il trucco di Alice avesse funzionato e che mio padre non si fosse accorto dei lividi sul mio collo. «È stata colpa mia, me ne assumo tutta la responsabilità», affermò serio Carlisle, infilato nella sua camicia bianca immacolata. Quell’ammissione di colpa parve prendere in contropiede Charlie, che rimase imbarazzato dall’improvvisa confidenza che si era permesso di dare al dottore.
«Non avevo avvertito né Bella né Edward che era pericoloso gironzolare nel boschetto vicino casa nostra», tirò fuori un sorriso ammaliante, «sono solo ragazzi», ridacchiò, camuffando così perfettamente ogni traccia di quell’angosciosa notte che quasi mi misi a ridere perfino io.
Charlie alzò la mano destra, palmo aperto, polpastrelli duri e pelle tagliata dal vento, l’alzò così, in segno di pace, di resa, di benevolenza, fu quasi come una dolce benedizione.
«Poteva farsi più male», sorrise, «va bene. Può succedere», si schiarì la voce e mi lanciò un’occhiata divertita: «Del resto non è mai stata molto coordinata».
Carlisle rise, Charlie anche.
Sbuffai per sottolineare la stizza nella presa in giro, ma venni ben presto coinvolta dal loro buonumore. Erano così rari quei momenti, quella semplicità – solo due padri e una figlia un po’ sbadata nella piccola anticamera della casa dello sceriffo, una risata, vite normali intrecciate nella tranquilla serenità di una mattinata piacevole. Mi sembravano passati secoli da quel genere di vita, quel mondo di esseri umani e tempo e morte e scadenze. Quel mondo in cui l’amore aveva arpionato il mio cuore ingenuo e io ero finita per innamorarmi di un cattivo ragazzo che era buono solo con me. Che mi faceva mangiare le ciliegie e dormiva sulla mia pancia scoperta nei pomeriggi estivi e era morto nel fuoco della sua rabbia e mi aveva lasciata su quel letto arancione illuminato sotto la finestra. Quel mondo dove Joshua mi aveva baciata e poi Edward mi aveva trovata, agli angoli del mio mondo e mi aveva teso la mano con quella sua aria di tristezza spezzata, un po’ riluttante, seria, composta, dolce, calda. E io avevo conosciuto un nuovo tipo di dolore, ma anche un nuovo tipo di gioia e adesso per la vita era quella – più ampia, più piena, densa di nuovi misteriosi segreti, arcani significati, sentimenti proibiti.
E quel momento, quella tranquillità erano a me così estranee, dopo tutto ciò che era successo: quella notte avevo creduto di avere e perdere tutto, di salire sulle più alte montagne russe e scendere in picchiata dentro un nerissimo vortice nero, a una velocità devastante. E poi ero riemersa.
Tornata indietro.
Ma Charlie non poteva sapere e questo mi fece sorridere: ero riuscita a proteggerlo, nello stesso modo in cui avevo protetto Edward.
«Mi occuperò personalmente di sgridare Edward a lungo», Carlisle mi sorrise, rilassato e poi a Charlie: «Per qualsiasi problema comunque, venite a trovarmi pure all’ospedale quando volete».
Ci salutò dal rettangolo di legno, con il gomito alzato e la mano stesa in aria, i capelli biondi sotto la luce del mattino. Charlie sorrise mesto, un po’ goffo, imbarazzato e mi rivolse un’occhiataccia prima di scoppiare a ridere: «Sei tutta tua madre. Veramente imbranata!».
Feci una smorfia, risi anche io.
Era tutto finito. E apparentemente, era questa la mia vita adesso. Non che non andasse bene, comunque.
Salii su in camera mia e quasi fui sopraffatta dall’emozione: mi ero preparata così bene a non rivedere mai più quei luoghi, a non sedermi più su quel letto, a non sentire più tutti quei suoni quotidiani – Charlie che apre il frigo e prende una birra, si stende sul divano, accende la televisione, tossisce un po’, cambia canale, si alza di nuovo, risponde al telefono. Ero pronta a svanire, a svoltare l’angolo della vita e dimenticarmi ogni cosa, fino al più piccolo dettaglio. E poi, Edward come una meteora nel mio cielo, in una pioggia di vetro e scintille, tuffandosi nella notte più oscura mi aveva strappata alle mani del più amaro fra i destini.
Aveva detto che non mi avrebbe lasciata e non l’aveva fatto.
Sorrisi.
Andai in bagno, mi cambiai, mi infilai in qualcosa di più comodo e lanciai un’occhiata allo specchio.
Che cosa strana, pensai guardandomi riflessa su di quella splendente superficie. Sfiorai la guancia sinistra – ero convinta che James avesse graffiato quella gota, l’avevo sentita pulsare e vista sanguinare, e quel bruciore.. Dio, al solo pensiero mi venivano i brividi.
E adesso? Adesso di quel segno rovente non era rimasta traccia.
Col senno di poi, avrei dovuto interrogarmi su quel cambiamento, ma non appena sentii la finestra della mia stanza schiudersi, sapendo perfettamente l’identità dell’estraneo che si era appena intrufolato in camera mia, abbandonai il bagno e lì relegai ogni mia dolorosa memoria.
«Allora? Charlie vuole ancora ficcarmi il suo fucile su per il culo e premere il grilletto?», ghignò lui, divertito da qualche personale monologo interiore di cui Charlie forse credeva di detenere esclusiva proprietà, mostrandosi dinnanzi a me in tutta la sua tranquillità, disteso sul letto, fra le pieghe delle lenzuola e delle coperte. Sorrisi, correndo da lui, in ginocchio accanto al suo torso, china sul suo viso sorridente.
«Sono felice che sei ancora qui», sussultò, e i suoi occhi si gonfiarono d’emozione.
Carezzai il suo viso, e mi lasciai cadere al suo fianco, con aria sofferente dissi: «Oh, io no!».
Le mie parole gli si appiccicarono addosso e gli conferirono un’aria piuttosto stranita.
«Sono ancora viva!», mi portai il polso alla fronte, con fare drammatico, «Quanto altro tempo ancora dovrò passare con te? Oh, Dio, perché mi hai fatto questo? Credevo che il mio piano fosse inattaccabile! Guardami adesso con che rompipalle dovrò trascorrere i miei giorni! Ti diverti a vedermi soffrire, forse?», aprii un occhio e rivolsi un sorrisetto a Edward.
«Eh, senti», disse lui tirandomi una guancia, «stai molto attenta a fare la fantastica con me».
Scoppiai a ridere e improvvisamente tutto il mio cuore si riempii di schegge di gioia brillante che bucavano il mio corpo in ogni direzione, facendomi il solletico; passai una mano sui suoi capelli folti, premendo l’indice sul suo scalpo, toccando dalla punta alla radice, guardando ogni riflesso. Il mio riso si esaurì e lasciò posto a una piacevole sensazione di serenità.

«Penso che io e te ci divertiremo un sacco, insieme».
Mi sorrise, vicinissimo e sfiorò la curva delle mie labbra, «Oh, penso anche io».
  
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