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Autore: kirlia    18/11/2014    5 recensioni
[Sequel di "Eternal Flame - Un amore perfetto"] 
Continuano le avventure di Miles e Franziska, insieme alla piccola Annika. 
Cosa dovranno affrontare i due procuratori? Riusciranno a fare chiarezza sui loro sentimenti e finalmente vedere coronato il loro sogno d'amore segreto? 
E chi sta tramando nell'ombra - e forse dall'aldilà - per distruggere la loro felicità? 
Dal capitolo 5: 
Insomma, Miles aveva ammesso di amarmi, magari non direttamente, ma le sue intenzioni erano chiare! La mia felicità, quella che avevo intravisto nei miei sogni e nei momenti di pericolo era a portata di mano, così vicina da poterla afferrare in un attimo e stringerla al petto, rendendola finalmente mia.
Eppure esitavo. Perché lo facevo?
Perché avevo paura. Paura che tutto si rivelasse una sciocchezza, paura che Miles si sarebbe stancato di me, mi avrebbe abbandonato o avrebbe fatto solamente finta di volermi bene come Manfred von Karma aveva fatto dal giorno della mia nascita.
E avevo paura di deludere me stessa, cedendo a qualcosa che avevo rifiutato per anni. Avevo paura di cambiare.
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Franziska von Karma, Miles Edgeworth, Nuovo Personaggio
Note: What if? | Avvertimenti: Spoiler!, Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Perfect for Me'
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Capitolo 4 – All of Me
 
[..] And I’m so dizzy, don’t know what hit me
But I’ll be alright
Cause all of me loves all of you
Love your curves and all your edges
All your perfect imperfections
Give your all to me, I’ll give my all to you
You’re my end and my beginning
Even when I lose, I’m winning
Cause I give you all of me
And you give me all of you, oh

All of me.
 

«E cosa farai se uno sciocco ti importuna durante la ricreazione, Nichte?» le chiesi per l’ennesima volta, mentre Miles si accingeva a parcheggiare sul ciglio della strada, proprio davanti alla scuola del quartiere che la mia piccola avrebbe frequentato da quel giorno.
Stavo ripassando per l’ultima volta la lista di regole che avevo dato ad Annika per ciò che doveva fare nelle situazioni che le si sarebbero presentate a scuola. Sì, beh, si trattava – purtroppo – di una scuola pubblica. Il mio “fratellino” aveva vinto su quello, ma visto che non avrei permesso che la mia nipotina si immischiasse a tutta quella marmaglia che frequentava quell’istituto, era giusto definire cosa era opportuno fare e cosa no se si fosse presentata una determinata situazione.
Sentii un piccolo sbuffo provenire dal sedile posteriore e quasi mi voltai per scoprire se si fosse davvero stufata di ripetere il programma. Poi la bambina recitò la frase come se fosse una filastrocca.
«Gli darò una bella frustata, Tante Frannie. Ma non credi che sia un po’ scortese?» mi chiese, e io ero pronta a dirle che no, non era scortese frustare, visto che i von Karma dovevano essere sempre rispettati da tutti, quando Miles si voltò verso di me fissandomi. Le sue mani erano ancora sul volante.
«Non dirmi che hai concesso ad Annie di portare la frusta a scuola. È il suo primo giorno di scuola, Franziska!» mi rimproverò il tutore, incatenandomi sul posto con quei suoi occhi che in quel momento sembravano dei nuvoloni d’inverno.
Quasi mi sentii in colpa, a causa della sua occhiata. Beh… quasi.
Alzai gli occhi al cielo e gli feci un cenno con la mano guantata, come se non dessi tanta importanza alla faccenda.
«Non fissarmi così, herr Miles Edgeworth. Annika deve potersi difendere, in caso di necessità.» risposi, incrociando poi le braccia e stringendo una manica della camicetta. Lo facevo sempre quando non volevo che una delle mie decisioni fosse messa in discussione.
E poi avevo già parlato di questa cosa con lui e mi era sembrato che si fosse arreso all’idea che la bambina avrebbe imparato ad utilizzare quell’arma.
«Quale necessità, esattamente? Sta solo andando a scuola…» rispose lui, scuotendo la testa e passandosi una mano fra i capelli argentei.
Oh! Odiavo quando faceva in questo modo. Mi trattava come se fossi una bambina viziata con cui era difficile rapportarsi, e solo perché non era capace di imporsi e di far valere la sua posizione. Non che volessi che lo facesse, ovviamente… volevo essere io a decidere il meglio per la Nichte.
Prima che potessi replicare per l’ennesima volta che non mi importava nulla della sua opinione, la campanella della scuola suonò, e molti bambini corsero verso l’entrata come una sottospecie di mandria di Schaf [pecore].
Riuscivo quasi a immaginare Annika, così piccina, sovrastata e spintonata da quel branco di sciocchi ragazzini americani. La sola idea mi faceva rabbrividire, anche se non capivo esattamente perché: io stessa mi ero trovata in quella situazione, da piccola, eppure ero riuscita a cavarmela perfettamente. Però continuavo ad essere preoccupata per la mia Nichte.
Mi mordicchiai il labbro, frustrata, mentre osservavo ancora il portone di quella scuola.
La bambina scelse proprio quell’istante per liberarsi della cintura di sicurezza e scendere dall’auto, seguita dal suo tutore, non prima che mi facesse cenno di scendere a mia volta.
«Bene, Annie. Ci vediamo fra un paio d’ore. Spero che tu passi una bella giornata» commentò Miles con un sorriso rassicurante, prima di carezzare i capelli color cielo della bambina, oggi fermati da un cerchietto blu.
Annika sorrise a sua volta, stringendo in mano il suo zainetto – elegante e raffinato, scelto ovviamente da me – e guardando poi in direzione della scuola.
«Bis später, Onkel Miles e Tante Frannie [A dopo]» rispose la bambina, stringendo in un abbraccio le gambe dell’uomo accanto a me e poi accingendosi a farlo anche con me.
Io mi abbassai per raggiungere il suo livello e poi la abbracciai stretta. Sentivo una strana sensazione alla gola e immaginai che qualsiasi cosa avessi tentato di dire sarebbe venuta fuori come un lamento strozzato, quindi restai in silenzio, godendomi la sensazione del dolce profumo della bambina che mi avvolgeva.
Ero quasi intenzionata a non mollarla, quando lei sciolse l’abbraccio e si voltò, non prima di averci salutato amabilmente con la mano, e si avviò quasi saltellando verso quella che sarebbe stata la sua nuova scuola.
E io continuai a fissarla finché la sua piccola chioma color cielo non sparì dentro l’edificio. Nemmeno dopo, in realtà, riuscii a fare un passo. Semplicemente rimasi lì, sospirando e stringendomi nelle spalle, come se un freddo glaciale mi avesse colpito proprio nello stesso istante in cui lei si era allontanata da me… e dire che la stavo quasi per perdere per sempre, se Miles non l’avesse adottata al posto mio.
Fu proprio lui, probabilmente notando che ero diventata una statua, ad avvicinarsi a me e a sussurrarmi alcune parole all’orecchio.
«Starà benissimo, Frannie. Sta’ tranquilla» disse, facendomi rabbrividire per il suo soffio caldo sul collo e poggiandomi una mano sulla spalla. A quel contatto mi scongelai immediatamente e feci un passo indietro per mettermi a distanza di sicurezza.
I miei occhi incontrarono i suoi solo per un istante: il suo sguardo sembrava tradire una certa delusione per il mio gesto, come se il fatto che io avessi rifiutato il suo conforto gli causasse un certo dolore. Cosa si aspettava? Anche se svariate volte mi aveva consolato per i miei drammi, non significava che dovesse farne un’abitudine!
Io non avevo bisogno di una spalla su cui piangere.
Con sguardo altezzoso mi voltai e mi avviai a passo veloce verso la lussuosa auto rossa fiammante del mio “fratellino”. Prossima fermata: la procura.


Durante il tragitto dalla scuola al mio posto di lavoro – al quale tornavo dopo un’assenza giustificata solo dalla mia “sosta forzata” al centro di detenzione e dalla conseguente ferita di Miles – nell’abitacolo dell’automobile regnò un perfetto silenzio.
Il guidatore accanto a me aveva deciso di non proferire più parola, dopo la mia reazione al suo tentativo di conforto, e io non aveva assolutamente intenzione di cominciare una conversazione con lui. Non mi sentivo pronta ad affrontare l’argomento e l’assenza di Annika aveva come innalzato un muro invisibile fra di noi. In quel momento non eravamo più costretti a fingerci una “famiglia felice” ed era chiaro che a nessuno dei due interessasse continuare quella farsa.
O almeno, così credevo.
Lanciai un’occhiata curiosa al procuratore in rosso, notando che sembrava aver mantenuto la stessa espressione di prima: sembrava deluso e, anche se concentrato sulla strada, sembrava avesse la testa da un’altra parte. Speravo solo che non ci schiantassimo contro un albero a causa dei suoi sciocchi pensieri distratti… mi era già bastato il giorno in cui avevo fatto quell’orribile incubo per rischiare degli incidenti.
Ma perché era così triste?
Proprio quando cominciavo a chiedermi se avrei dovuto avere dei sensi di colpa per il mio gesto scontroso, Miles raggiunse la procura e prese posto nel suo settore del parcheggio sotterraneo.
Spense il motore e, in totale silenzio – un silenzio pieno di tensioni, a mio parere – aprì la portiera e uscì dall’auto. Io lo seguii, scrutandolo di sottecchi e chiedendomi cosa gli stesse succedendo, senza però avere il coraggio di dire nulla.
Facevo quasi fatica a stargli dietro, mentre camminava a passo svelto e raggiungeva la zona delle scale. Nell’atmosfera silenziosa del seminterrato, i tacchi dei miei stivali risuonavano con una fastidiosissima eco. In ogni caso, non gli chiesi in alcun modo di attendermi, perché a quanto pareva mi stava ignorando di proposito, e pur essendo curiosa, c’era allo stesso tempo una parte di me che non voleva sapere cosa stesse vorticando nella mente di lui. Temevo che quei suoi pensieri mi avrebbero in un certo senso ferita, ed era quella paura, oltre all’orgoglio, a mantenermi in perfetto silenzio.
Salimmo le scale come due perfetti sconosciuti, che sentivano la presenza l’uno dell’altro ma facevano finta di essere comunque soli, e ci ritrovammo nell’atrio del palazzo, dove diversi colleghi e agenti ci salutarono con la dovuta cortesia. Alcuni di loro si avvicinarono per darci il bentornato, al quale noi rispondemmo in modo garbato ma comunque scostante, come era consono nella nostra natura. Soprattutto nella mia, a dire il vero, in quanto Miles sembrava piuttosto amichevole nei confronti degli altri, più di quanto ero abituata a vedere di solito. A volte questi suoi comportamenti continuavano a colpirmi, per quanto ormai fossi consapevole del fatto che lui fosse cambiato molto dai tempi in cui era ancora un allievo di mio padre.
«Signor Edgeworth, signore! Vedo che è tornato, amico!» esordì herr Sciattone, spuntando dal nulla avvolto nel suo solito e trasandato impermeabile dal colore indefinito.
Prima che il mio “fratellino” avesse modo di rispondere al saluto, la mia nuova e splendente frusta si abbatté su quella che sarebbe stata la sua vittima preferita con un sonoro schiocco che mi sembrò melodioso ed estremamente perfetto.
«Ahio! Perché l’ha fatto, signorina von Karma?» chiese il diretto interessato in modo scioccamente piagnucolante, massaggiandosi la spalla colpita con uno sguardo da cane bastonato che non sortì alcun effetto nei miei confronti. Non cedevo sotto a quegli sguardi da debolucci.
«Perché è scortese dare il benvenuto a herr Miles Edgeworth e ignorare me, che sono appena tornata da un processo scatenato dalla tua incompetenza» spiegai, riferendomi ovviamente al fatto che se lui non mi avesse subito arrestato, quando mi aveva trovato nel mio ufficio di fronte al cadavere ancora caldo di mia sorella Angelika, tutto l’inconveniente delle ore passate nella fredda cella del centro di detenzione e del conseguente processo sarebbe stato evitato.
«Inoltre,» aggiunsi subito dopo, stringendo tra le dita il mio ultimo acquisto dalle sfumature blu come per saggiarne la resistenza «volevo provare la nuova frusta e tu sei lo sciocco perfetto.»
Vidi il detective rabbrividire di fronte al mio mezzo sorriso che esprimeva tutta la mia voglia di dare sfogo a tutte le mie preoccupazioni con dei bei colpi di frusta e fare un passo indietro, guardando poi il procuratore accanto a me come se cercasse protezione. Quello, però, si limitò a scuotere la testa come a voler dire di non poterlo aiutare in alcun modo, ed herr Sciattone fu costretto ad andare via senza più dire una parola, come un cane con la coda tra le gambe.
Dopo un attimo in cui entrambi lo seguimmo con lo sguardo, Miles ripartì di nuovo senza rivolgermi nemmeno un’occhiata, e si avviò – a differenza di tutti – verso le scale. Io allora alzai un sopracciglio, e mi mossi invece verso l’ascensore.
Bene! Se lui non intendeva parlarmi, perché avrei dovuto farlo io? In fondo Annika non c’era, quindi non c’era nessuna farsa da portare avanti. Se voleva starsene per conto suo e ignorarmi, anche io avrei fatto lo stesso! Non volevo seguirlo come una sciocca che aveva bisogno di certezze, che aveva bisogno di sentirsi dire che era importante anche quando mancava quel legame che era diventato per noi la bambina. No, assolutamente no. Non mi sentivo offesa né ferita. Giusto…?
Scuotendo la testa per togliermi dalla mente quel piccolo dubbio, premetti il pulsante per chiamare l’ascensore e attesi.
Il mio orecchio si tese automaticamente nella direzione che aveva preso il mio “fratellino”, mio malgrado, e poco dopo tempo, riuscii a sentire che parlava con qualcuno, forse un’inserviente, che lo informava che aveva appena passato lo straccio sulle scale e che quindi sarebbe stato preferibile prendere l’ascensore. Trattenni un sospiro, percependo poi i passi di lui che tornavano verso di me, e mi affrettai a voltare la testa per fissare insistentemente le porte d’acciaio che stavano per aprirsi. Non gli avrei dato occasione di pensare che io lo consideravo. Avrei fatto finta di non vederlo proprio come lui stava facendo con me.
Il calore del suo corpo fu quasi tangibile, la sua presenza quasi opprimente, ma non in modo negativo, quando si fermò accanto a me. Cercai di dargli un’occhiata con la coda dell’occhio, ma non ebbi modo di accorgermi se mi stava osservando.
Con un sonoro bing! il nostro “mezzo di trasporto” annunciò il suo arrivo, e appena le porte si aprirono io mi affrettai a sgusciare dentro, seguita dal passo molto indeciso di lui. Sapevo che a volte usava gli ascensori, anche se non ne era affatto contento, e supposi che quella situazione non doveva essere delle migliori per lui: chiuso in quella scatola di metallo insieme a una “sorellina” che per qualche motivo quel giorno non aveva voglia di considerare tale.
Quell’ultima osservazione mi fece arrossire di rabbia e frustrazione: perché mi trattava così? Era stato davvero il mio rifiuto di essere confortata a farlo diventare così taciturno? Insomma, lo sapeva benissimo che io ero una von Karma, e che in quanto tale rifuggivo più che potevo qualsiasi manifestazione di sentimento! O almeno era così che era mio dovere comportarmi… anche se ultimamente mi ero molto lasciata andare all’imperfezione.
Quando le porte si chiusero, fu quasi un segno. Non riuscii più a contenere i miei pensieri e mi ritrovai a esternarli con un certo vigore.
«Insomma, herr Miles Edgeworth! Che cosa ti prende? Perché mi tratti come se non esistessi?» dissi, a voce più alta del solito. Mi ero permessa quel lusso in quanto lì dentro nessuno si sarebbe accorto della caduta della mia maschera.
Lui, però, reagì semplicemente con un sospiro che rivelava tanti dubbi e pensieri inespressi, abbassando lo sguardo senza neanche volgersi verso di me.
«Und schau mich an, wahrend ich mit dir reden, du Narr! [E guardami mentre ti parlo, sciocco!]» aggiunsi quindi nella mia lingua madre, rivelando quindi l’importanza che aveva per me l’argomento e prendendo il suo mento con le dita guantate per costringerlo a ruotarlo e incontrare il mio viso.
I suoi occhi si posarono quindi sui miei, e sembrò quasi che quei nuvoloni grigi che promettevano terribili tempeste in arrivo riuscissero a contagiare il cielo sereno delle mie iridi con tutti i pensieri sconnessi che le attraversavano. Riuscii a intravedere frustrazione, desideri nascosti nel più intimo degli angoli della sua anima, tante parole che non era in grado di dirmi e che eppure erano lì, pronte a rivelarsi a me in tutte le loro sfumature.
Eppure non capii. Non potevo, perché pur conoscendo Miles praticamente da tutta la vita non avevo mai visto prima d’ora tutti queste emozioni trasparire da quegli occhi che erano solitamente indecifrabili per me.
Si umettò le labbra e mi guardò indeciso. Mi resi conto che sembrava essersi arreso all’evidenza di dovermi parlare, e io lo fissai attenta, pronta ad ascoltare delle parole che temevo mi avrebbero ferito.
«Io… Franziska, è che…» cominciò, ma non ebbi mai occasione di scoprire ciò che stava per dirmi in quel momento.
Proprio in quell’istante, infatti, le pareti d’acciaio dell’ascensore cominciarono a tremare, prima lentamente, poi sempre in modo più intenso, distorcendo le nostre figure e stridendo in modo quasi assordante. All’inizio non fui capace di capire cosa stava succedendo, perché pur avendo avuto varie esperienze di questo genere – anche nell’ultimo periodo, in effetti – mi era sempre capitato di essere all’esterno, o comunque in un luogo abbastanza ampio. Bastò però un’occhiata nella direzione di Miles per capire cosa fosse tutto ciò.
Lo vidi impallidire terribilmente, le labbra tremarono vagamente; il suo sguardo cercò il mio e quando lo trovò sembrò completamente svuotato da quelle emozioni che l’avevano caratterizzato fino a poco prima. Tutto ciò che riuscivo a vedere era il panico che si era impossessato di lui e una scintilla di assenza che mi fece pensare che stesse per svenire.
Un terremoto! E non uno qualunque… Una scossa proprio all’interno di un ascensore, che non era altro che il peggiore incubo del mio “fratellino”! Ricordavo ancora le notti in cui lo sentivo urlare nel sonno, quelle in cui decidevo di andare contro le regole di mio padre, che mi aveva sempre proibito di andare a trovare Miles nei suoi appartamenti, per intrufolarmi nella sua stanza. Non ero mai stata brava nei rapporti interpersonali, soprattutto nel consolare qualcuno, ma ricordavo ancora le volte in cui restavo con lui finché non si riaddormentava, distraendolo con qualche discorso senza senso che aveva il solo scopo di fargli dimenticare il brutto sogno.
Eppure, adesso, non credevo che una distrazione sarebbe stata abbastanza per fargli ignorare tutto ciò che gli stava accadendo intorno. Le pareti non smettevano di tremare, sentivo il pavimento oscillare leggermente sotto i tacchi dei miei stivali, ma l’unica cosa che riuscivo a guardare senza vacillare per un momento era lui, la cui espressione implorava che tutto finisse, che tutto quello non stesse succedendo.
Lo vidi perdere l’equilibrio e accasciarsi su un ginocchio, i ciuffi di capelli color argento nascondevano il suo viso e mi facevano temere che si stesse sentendo male.
«Miles!» chiamai allora, dimenticando qualsiasi contrasto, dubbio o sentimento inespresso che ci fosse fra noi.
Infischiandomene dei miei principi, mi accovacciai accanto a lui e presi il suo viso tra le mani, cercai di costringerlo a guardare solo me e a dimenticarsi del resto, dell’ambiente che non smetteva di agitarsi intorno a lui. Cercai di farlo focalizzare su qualcosa di più certo di un mondo che si lasciava andare a tutte quelle oscillazioni, qualcosa di più saldo e sicuro. Su di me.
«Miles, calmati. Alles ist gut… [Va tutto bene…]» sussurrai, cercando di mantenere la voce salda che gli serviva per rendersi conto che doveva riprendersi.
Quella scatola di metallo nella quale eravamo intrappolati, nel frattempo, aveva smesso di tremare. Eppure sapevo che non era finita, e mi bastava osservare il mio “fratellino” per saperlo: i suoi occhi fissavano un punto imprecisato a sinistra della mia spalla, e anche se non era svenuto, si trovava in uno stato che non poteva definirsi cosciente. Mormorava delle cose che quasi non riuscivo a percepire.
«No, no, questo non può succedere… Ho assistito alla morte di mio padre in questo ascensore… E… E…» sussurrava a bassa voce, ma le sue parole non avevano senso.
Capivo che collegasse questo avvenimento alla tragedia di suo padre, ma dopo aver scoperto che la sua morte non era stata causata da lui bensì da Manfred von Karma, mio padre, non doveva reagire in questo modo. Credevo che quel trauma fosse ormai stato superato, invece a quanto pareva non era così. Erano passati quasi due decenni, eppure mentre lo osservavo lo vedevo quasi rimpicciolirsi di fronte a me e tornare il bambino terrorizzato che pensava di aver ucciso l’uomo che lo aveva cresciuto.
«Miles, questo non è lo stesso ascensore. Ricordi? Qui siamo in Procura, quello invece era il Tribunale» spiegai, cercando di sembrare razionale e quindi riportarlo alla realtà.
Lui però, sembrò non capire ciò che avevo detto, pur avendo spostato la propria attenzione su di me, e strinse i miei polsi, attirandomi poi verso di lui. Li teneva stretti, fin troppo, ma mi trattenni dal farglielo notare e costrinsi le mie labbra a non storcersi in una smorfia dolorante. Volevo aiutarlo, non fargli pensare che stesse impazzendo – anche se una crisi del genere era piuttosto grave! – e volevo che si sentisse al sicuro.
«Succederà di nuovo? Perderò i miei cari a causa di questo luogo?» mi chiese, ma non sembrava che attendesse una risposta, e io rimasi in silenzio, sperando che riuscisse a calmarsi.
«Perderò te…?» sussurrò, a voce così bassa da essere quasi impercettibile, eppure con un tono allo stesso tempo così dolce e disperato da spezzare il mio cuore di ghiaccio.
La presa sui miei polsi si era nel frattempo affievolita, e io azzardai un movimento per liberare una mano e poi fare una cosa che fino a poco tempo prima non mi sarei mai e poi mai permessa di fare: carezzai la sua guancia e cancellai la singola lacrima che era sfuggita a quelle iridi di nuvole grigie. Avvicinai il mio viso al suo, studiando ogni singola sfaccettatura della sua espressione, senza rendermi davvero conto di cosa stessi facendo, mossa da qualcosa che era tutto tranne che la razionalità di cui mi ero poco prima vantata.
«Non mi perderai mai, Miles» risposi al suo quesito, e mi accorsi di stargli sorridendo in un modo così sincero, talmente gentile. Non era mai stato da me rivolgermi a lui con tanta emozione, eppure in quell’attimo era riuscito a superare tutte le barriere che erigevo intorno a me e a sfiorarmi l’anima.
Tutta quella sincerità però non servì a convincerlo. Anzi, più che calmarlo sembrò agitarlo ancor più, ma in un modo differente da prima. Non vedevo più in lui quella scintilla di irragionevolezza, lo scoprivo invece totalmente consapevole di ciò che stava per dire.
«Ma io ti sto già perdendo, Frannie! Ogni giorno che passa cerco di tenerti vicina a me, ma sento che il muro che ci separa diventa sempre più alto e spesso. Vorrei solo sapere cosa pensi. Eravamo così vicini, fino a poco tempo fa… Cos’è cambiato?» disse, e fu chiaro che quello fosse in qualche modo il seguito della discussione che stavamo per incominciare prima che il terremoto ci interrompesse.
La situazione però aveva fatto sì che io non fossi più arrabbiata, bensì preoccupata per lui e quindi più sensibile a qualsiasi cosa mi stava dicendo.
Ecco allora, perché era arrabbiato con me: si rendeva conto che lo stavo in qualche modo rifiutando, che stavo distruggendo persino il nostro rapporto quasi-fraterno! Avrei voluto tanto dirgli che gli volevo ancora bene – anche se mi costava molto ripeterlo ad alta voce – e che mi dispiaceva di avergli riservato quel trattamento.
Ma lui non poteva sapere… No. Non poteva venire a conoscenza del fatto che avevo fatto di tutto, persino tentato di sfuggirgli trasferendomi in Germania, per evitare di dover ammettere dei sentimenti che non riuscivo ancora a comprendere appieno, ma che sapevo essere profondamente imperfetti, e quindi inadatti a me. Non potevo dirgli che evitavo di sfiorarlo perché bastava quello ormai a farmi battere il cuore così forte che credevo potesse uscirmi dal petto.
Non potevo accettare di essermi invaghita di mio fratello! Era sbagliato e per quanto mio padre avesse errato in molti suoi insegnamenti, ritenevo ancora che quello legato all’amore fosse ancora valido.
Aprii la bocca, senza sapere esattamente cosa avrei detto, ma prima che potessi parlare lui mi interruppe di nuovo, con decisione.
«No, non devi dirlo. So di essere in errore, so di averti confusa» cominciò, ma in realtà fu solo in quel momento che riuscì a confondermi. A cosa si riferiva? La colpa di tutto ciò era solo mia, perché allora lui aveva tanto l’aria di doversi scusare?
«Miles, ma cosa…?» cominciai, sperando che si spiegasse.
Lui mi fissò, travolgendomi ancora con quel suo sguardo pieno di emozioni che non riuscivo a interpretare, benché fossero lì pronte ad essere lette, e poi disse qualcosa che mai e poi mai mi sarei aspettata di sentire.
«Mi ero ripromesso di nascondertelo, di sopprimere in qualche modo – qualsiasi! – quello che provavo. Perché so che è sbagliato. Eppure tutto deve essermi sfuggito di mano, anche se non me ne ero reso conto almeno finché tu non hai preso a chiuderti in te stessa, a non farmi più partecipe dei tuoi pensieri» dichiarò, e io sentii una sorta di peso liberarsi dal mio cuore, lo sentii volare dentro di me come una farfalla finalmente libera di esprimersi. Se cominciavo davvero a comprendere le allusioni che stava facendo, tutto quello che avevo temuto fino a quel momento non aveva motivo di esistere.
Ma era tutto vero?
«Franziska, sai che non sono mai stato bravo con le parole quando si parla di queste cose. Sono sempre stato piuttosto restio per natura ad aprirmi agli altri» continuò, e io volevo dirgli che non importava, che l’avrei ascoltato comunque, qualsiasi fosse stata la maniera in cui avrebbe espresso quello che voleva dirmi.
Avevo paura, io, Franziska von Karma, il Genio della Procura, di stare fraintendendo tutto, di stare associando un significato diverso alle parole che mi stava dicendo, uno legato ai sentimenti che provavo e che desideravo fossero ricambiati. Ecco perché non riuscivo a dirgli nulla, non riuscivo a incoraggiarlo né a zittirlo, perché in quel momento ero soltanto travolta da mille pensieri.
Rimasi quindi a fissarlo, senza sapere quale fosse la mia espressione, e attesi.
Attesi un discorso che fu molto più rapido di quanto mi aspettassi, perché quello che lui riuscii a dire furono solo poche parole.
«Scusami, sono soltanto un egoista.»
Non ebbi modo di chiedergli nulla, perché in un attimo le sue labbra sfiorarono le mie.
Non fu un bacio casto, ma nemmeno pieno di passione come quello di alcuni film che avevo visto. Fu un bacio travolgente e dettato dall’urgenza di poter esprimere qualcosa che a parole era impossibile affermare per persone come noi.
Le sue labbra erano morbide e calde e, benché io non avessi mai baciato nessuno prima di allora, mi resi conto che combaciavano perfettamente con le mie, come se fossero state modellate di proposito da un’entità superiore per adattarsi alla forma delle mie. Come se da sempre fossimo destinati a questo, e fossero state solo le circostanze a mantenerci separati fino a quel momento.
Fu più di un incontro di corpi, fu come se le nostre anime si fossero finalmente incontrate e si stessero fondendo – in un abbraccio di azzurro cielo e grigio nuvole – in un unico spirito nuovo che ci racchiudeva entrambi.
E io? Come avevo reagito io?
Non avevo mai avuto un’esperienza del genere, eppure sembrò che il mio corpo sapesse esattamente cosa fare e non aspettasse altro. Provai solo un vago senso di esitazione all’inizio, ma poi le mie braccia trovarono la giusta posizione sulle sue spalle, attirandolo più vicino a me. La sensazione delle sue mani sui miei fianchi mi metteva i brividi, ma non mi spaventava.
C’era qualcosa di più perfetto di noi due, insieme?

Non avevo idea di quanto tempo fosse passato, quanto l’incanto si ruppe con uno scossone, e l’ascensore ripartii, aprendosi subito dopo sul piano degli uffici che intendevamo raggiungere in principio.
Eravamo ancora abbracciati l’uno all’altra, e quando i miei occhi raggiunsero l’esterno e l’espressione stupita di alcuni vigili del fuoco e agenti che si erano affrettati a salvarci, quasi mi stupii di essermi dimenticata di essere stata chiusa in un ascensore per un periodo di tempo imprecisato, e che avrei rischiato di perdere la vita, se non ci fossero stati quegli uomini.
Avevo tentato di restringere il mondo di Miles a quelle quattro mura d’acciaio per fargli dimenticare le sue paure, ma la verità era che per un attimo ero stata io a scordarmi che il mondo non era solo lì, e che c’era molto altro intorno che avrebbe potuto avere da ridire su quello che avevo appena fatto.
Ecco perché mi rialzai immediatamente, come spinta da una molla invisibile, e uscii da quelle mura anguste con grandi falcate, ignorando il mio “fratellino”, il cui sguardo confuso sentivo perforarmi la schiena, e il resto della gente lì intorno, che mi rivolgeva uno sguardo decisamente interrogativo.
Avevo già messo una mano guantata sul pomello della porta che recitava “Procuratore von Karma”, quando il peso di una mano sulla spalla richiamò la mia attenzione.
«Frannie? Che succede?» chiese la voce titubante di Miles, che di certo aveva tutto il diritto di avere delle risposte sul mio comportamento di poco fa.
Eppure, non avevo delle spiegazioni da dargli, ma solo una certezza. Quella che tra noi due non poteva esserci niente. Io non potevo amare. Non potevo farlo per il bene di Miles e per quello di Annika, non potevo farlo perché ero stata cresciuta per non provare sentimenti, non potevo farlo perché… beh, non ne ero certa. Forse perché avevo paura.
Senza guardarlo negli occhi, né voltare il viso verso di lui, dissi solo alcune parole che avrebbero chiuso definitivamente la questione.
«Non farlo mai più, herr Miles Edgeworth.» 



Ehm... *si nasconde* 
Ehm, salve. Sì, sono io, Kirlia, quella che non aggiorna questa fanfiction da un anno. 
Mi dispiace tantissimo di essere sparita, e non assicuro che non lo rifarò, perché purtroppo sono enormemente impegnata e non riesco a stare sempre dietro a tutte le mie occupazioni. Inoltre avevo perso l'ispirazione per questa storia, per quanto continui ad adorare sempre e per sempre i miei cari Miles e Frannie. 
Insooomma, eccomi tornata con un nuovo capitolo che è uscito proprio come lo immaginavo un anno fa! *-* Ci è voluto un po' - beh, è dal 2012 che questa storia è iniziata e dobbiamo dire che Miles si è trattenuto parecchio - ma finalmente questi due si sono scambiati un tanto agognato bacio! Inoltre, ci voleva un bel capitolo importante, dopo il precedente in cui non era successo niente di eccezionale, e sono felice di averlo scritto. 
Ovviamente, devo ringraziare Sian per il ritorno della mia ispirazione, visto che in questi giorni si è tanto prodigata nel recensire tutti i capitoli di questa serie. Grazie, cara! E se vuoi tradurre in un tedesco vero tutte le frasi di questi qui, puoi farlo, hai tutta la mia approvazione! 
Inoltre, vi lascio questo bellissimo disegno che una volta Rurue mi aveva fatto, e che non avevo mai avuto modo di postare e che si riferisce a uno degli scorsi capitoli: 

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Grazie anche a te, tesoro <3 
Beh, che dirvi? Per quanto sia passato tantissimo tempo, spero che tornerete a commentare questa storia, come sempre ci terrei tantissimo perché rimane una delle mie preferite. 
E ho inoltre una domanda per voi: essendo passato del tempo, secondo voi il mio stile di scrittura è cambiato? E sono riuscita sempre a rendere i personaggi o li ho mandati OOC? Ditemi, vi prego XD 
E niente, vi saluto e spero di tornare presto per il quinto capitolo, visto che Frannie qui non sembra aver ancora accettato di essere la futura signora Edgeworth. 
Un bacio, 
Kirlia <3

 
   
 
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