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Autore: Leia    11/08/2003    6 recensioni
Kristine Grover, trasferitasi a Fujisawa, lascia dietro a sé sogni e speranze di una vita che è stata costretta ad abbandonare. Ora, nella città dove si allena la squadra di calcio che ha sempre ammirato, la New Team, potrebbe trovare una nuova strada da seguire, altri sogni da realizzare. Diventare portiere, sostituendo un Benjiamin Price infortunato, e ritrovando accanto a sé anche un vecchio e caro amico, Tom Becker. Allora l’affetto per entrambi potrebbe arrivare facilmente a confondersi con l’amore, e la verità mescolarsi all’apparenza… Ma nell’aria fredda della sera le parole da dire rimangono, spesso, solo desideri. Ed i sogni, chimere lontane. Perché la felicità comporta compromessi, sacrifici, e tante, troppe scelte. Chi essere, quale faccia mostrare? Kristine, o Kristian? Quale delle due sollevare al cielo, per poterla afferrare, quella felicità? Kris & Kris. K&K. [Prima Parte terminata!] [disponibile anche su http://knk.altervista.org - visitateci! In più illustrazioni originali, profili delle autrici & much more :)]
Genere: Generale, Romantico, Sportivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Genzo Wakabayashi/Benji, Taro Misaki/Tom
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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“… così, stiamo valutando la possibilità di aprire una nuova catena di hotels anche in Europa. In ogni caso staremo via per un paio di settimane al massimo, il tempo di incontrare alcune persone e controllare dei terreni. A proposito, vuoi che ti portiamo qualcosa di particolare dall’Italia?”.

I lineamenti eleganti del viso senza l’ombra di una ruga della signora Grover erano, come sempre, perfettamente rilassati. Guardava il figlio con un’espressione che poteva essere definita quasi adorante, mentre il signor Grover, seduto accanto alla moglie, fumava un sigaro aggiungendo di tanto in tanto qualche parola a quelle di lei.

Non ricevendo però alcuna risposta dal suo interlocutore, la donna lo osservò stupita.

“… caro? Ma… mi hai sentita?”.

In effetti Alex Grover aveva chiaramente l’attenzione altrove. Anche se lo sguardo dagli intensi occhi verdi era fisso davanti a sé, non aveva sentito nemmeno una parola di quello di cui i suoi avevano parlato per almeno dieci minuti.

“Mh, dicevi?”.

“Sei… sicuro di stare bene?”.

Il ragazzo fece un largo sorriso.

“Certo. Scusatemi, ero solo un po’ distratto”, disse, alzandosi da tavola e appoggiando il tovagliolo che aveva sulle gambe accanto al piatto vuoto. “Comunque non preoccupatevi, e fatemi pure una sorpresa. Non conosco molto l’Italia”, continuò, indovinando senza troppa difficoltà la domanda di cui le sue orecchie avevano captato al massimo qualche sillaba.

“Va bene, come preferisci”, mormorò con un altro piccolo sorriso la madre, un po’ delusa. “E tu, Kris?”.

La donna si sbilanciò da un lato della sedia per cercare il viso di Kristine che, dall’altra parte della stanza, era rannicchiata fra i cuscini del divano, stretta in un maglione blu evidentemente troppo grande per lei di qualche taglia. Nell’angolo buio del salotto, il viso dalla pelle chiara era illuminato solamente dalla luce azzurrina dello schermo sul quale si muovevano i personaggi di un celebre varietà. Sembrava assorta, nonostante non avesse mai nemmeno sorriso alle battute del programma. Quella sera non aveva mangiato nulla.

“Niente”.

“Ma…”.

“Ho detto niente”.

Rimase immobile, ma dopo qualche attimo si sollevò dai cuscini con uno scatto nervoso, mettendosi in piedi. Con lo sguardo a terra fece quindi per dirigersi fuori dalla sala, ma la voce dura del padre la costrinse a fermarsi.

“Hai deciso di metterti in punizione da sola in questo modo, Kris?”.

Lei mosse lentamente lo sguardo, senza capire.

“Co… cosa?”.

L’uomo resse gli occhi della figlia senza problemi, e non disse altro. Continuò invece la signora Grover, dopo essersi scambiata un’occhiata col marito.

“Kris, i tuoi voti scolastici sono calati di molto nell’ultimo mese. Un tuo insegnante ci ha chiamato in ufficio, qualche tempo fa, dicendo che la cosa lo preoccupa molto. E ha anche aggiunto che salti spesso le lezioni…”.

Si fermò. Alex, in piedi fra il tavolo e il salotto, osservava i volti dei familiari, teso. Non sapeva nulla della situazione di sua sorella. Dalla sera in cui Kei era ritornata non aveva più avuto modo di parlarle, un po’ perché Kristine non era mai stata in casa, un po’ anche per colpa sua. Non poteva negare di averla trascurata in quell’ultimo periodo per cercare di rimettere a posto le cose con Keith, è vero, ma di sicuro il suo andamento a scuola non stava andando bene da molto prima. Da almeno qualche settimana, o forse di più. E lei non gli aveva mai detto niente.

“I professori esagerano. Non dovete preoccuparvi”.

“E invece ci preoccupiamo. Sinceramente la cosa non ci piace, Kris”.

Alex osservò la sorella, sapendo che nonostante l’espressione apparentemente distesa sarebbe tra non molto scoppiata. Comunque, anche il suo comportamento era molto strano, da alcuni giorni.

“E’ quello che non vuoi ancora raccontarmi, Kristine. E’ quel dannato segreto la causa di tutto. Che ti riduce così”.

Sospirò, tornando a guardare i genitori. Sua madre posò la forchetta sul piatto di porcellana ornato da un contorno dorato, di sicura provenienza occidentale.

“Dalla prossima settimana avrai un insegnante privato che verrà a farti ripetizioni ogni due giorni”.

Kris non mosse la testa, rifiutandosi di guardarli in faccia.

“Non voglio”.

“E io non accetto discussioni. La questione è chiusa”.

Nella stanza calò un silenzio pesante. Alex aveva praticamente la certezza che Kristine si sarebbe avvicinata da un momento all’altro al tavolo per rispondere ai suoi nel modo più insolente possibile, ma con suo grande sorpresa la scenata che si era immaginato non avvenne.

La sorella arrivò invece fino all’inizio delle scale, e prima di salire, con le dita sul corrimano, pronunciò amaramente una sola frase.

“Vi preoccupate per me solo quando vi fa comodo, non è vero? Già… avrei dovuto pensarci. Avere una figlia che va male a scuola sarebbe una vergogna per la famiglia Grover”.

Poi, solo i suoi passi veloci sui gradini, il breve tratto di corridoio, e il rumore sordo della porta che sbatteva.

Alex chiuse gli occhi, scuotendo il capo. I suoi non parlarono, ma lui li ignorò, decidendo di seguire la sorella su per le scale. Forse era meglio andare a calmarla. Ne avrebbe approfittato anche per capire che cosa avesse, da un po’ di tempo.

“Magari questa volta ti deciderai a dirmi come stanno le cose”.

Arrivò davanti alla sua camera, ma quando fece per bussare, esitò. Conoscendola, Kristine gli avrebbe di sicuro detto di andare via, di tornare più tardi, e Alex non voleva rimandare nulla. Un principio di senso di colpa si stava facendo strada dentro di lui, la sensazione di non esserle stato accanto quando più ne aveva bisogno. Kris non gli aveva mai chiesto aiuto apertamente, è vero. Non l’aveva mai fatto, non era da lei. Alex le aveva sempre dovuto tirare fuori tutto con la forza, fin da quando erano piccoli, anche quando i ragazzi con cui era stata l’avevano fatta soffrire. Quando l’avevano usata, abbandonandola poi come un oggetto di cui non avevano più bisogno.

Tutte le volte in cui i loro genitori l’avevano fatta sentire sola. Una figlia dimenticata.

Ma anche se Kris aveva sempre desiderato apparire forte, non lo era mai stata. Nessuno di loro due era abbastanza forte per poter andare avanti da solo, per non avere bisogno dell’appoggio dell’altro.

Ripensò alla serata in cui era tornata Keith. Se prima di andare all’aeroporto non avesse parlato con Kris, non sapeva se avrebbe ritrovato il coraggio necessario per affrontare gli errori che aveva commesso in passato.

Sì, glielo doveva. Le doveva tante cose.

Posò così la mano sulla maniglia, e la spinse con decisione.

“Kris…”, disse, immaginando di trovarla stesa sul letto e rannicchiata fra le coperte, come faceva ogni volta che si chiudeva in camera.

Ma non era lì. Si stava invece cambiando, e teneva fra le mani un maglione, quello che indossava poco prima. L’aveva appena sfilato. Alex ricordò che Kristine gliel’aveva chiesto in prestito tempo fa, quando aveva inspiegabilmente iniziato a mettersi spesso vestiti larghi e tute sportive.

Quando lo vide sulla porta, però, la sorella lasciò cadere la maglia a terra. Aveva gli occhi sbarrati.

Ed in quel momento Alex non poté fare a meno di notare dei segni, rossi e profondi ed in altri punti tendenti al violaceo, che le coprivano l’addome, nudo sotto il reggiseno, insieme alle braccia e alle spalle.

“Alex… co… come ti permetti di entrare in camera mia senza bussare?!?”, balbettò lei. Lo fissò per qualche istante senza sapere cosa fare, poi, chinandosi di scatto, raccolse il maglione ai suoi piedi. Si coprì come poteva per tentare di nascondere alla vista del fratello i lividi, ma lui, avvicinandosi, le strappò l’indumento dalle mani.

“Cosa DIAVOLO sono questi?!”, esclamò.

“Alex… ”.

“CHI TE LI HA FATTI?”.

“Per favore… non urlare… I-io… sono… sono caduta…”.

Il ragazzo la spinse contro il muro della stanza, afferrandola per le spalle.

“Non provare a raccontarmi altre balle”, disse quindi. Non gridava più, ma il tono che stava usando non era di certo pacato. “Perché non sono più disposto a lasciarti vivere un’altra vita di cui non so nulla. Mi ero promesso di non intromettermi, è vero, di non chiederti più spiegazioni, ma solo perché ti vedevo felice. Ora le cose sono diverse. ORA mi dirai CHI ti ha picchiata, e subito dopo IO andrò a restituirgli lo stesso trattamento”.

Kris guardava in basso, gli occhi castani pieni di lacrime. Tremava, e sembrava non riuscire a smettere.

“A-Alex… lasciami, mi fai male… ”.

“Ti ho detto di dirmi CHI è quel FOTTUTO BASTARDO. E in che RAZZA di giri ti sei messa”.

Alex continuò a tenerla contro il muro, senza accorgersi di starle stringendo sempre di più le braccia. Alcune lacrime scivolarono lungo le guance della ragazza, mentre una smorfia di dolore comparve sulle sue labbra sottili, diventate rosse a furia di essere morsicate per il nervosismo.

“Mi stai… MI STAI FACENDO MALE!”.

Kris urlò all’improvviso, e il suo grido sembrò far tornare in sé Alex, che la lasciò immediatamente. Indietreggiò di qualche passo, rendendosi conto solo in quel momento di essere stato troppo impulsivo. Guardò con orrore i segni che aveva lasciato sulla pelle di Kristine, sommati a quelli, innumerevoli, che già aveva, e si pentì della sua reazione violenta. Non credeva di poter arrivare a tanto. Non credeva di poter far del male a sua sorella perdendo il controllo a quel modo.

“Perdonami, io… ”.

“ESCI DI QUI!”.

Alex la guardò, mortificato. Gli occhi verdi del ragazzo erano lucidi, proprio come quelli che stava fissando. Kris sembrava però fuori di sé, ora, e continuava a tremare visibilmente. Era stravolta, e la voce scossa dai singhiozzi usciva a stento, seppur con rabbia, istericamente.

“S-sono… stanca… stanca di TUTTO! Tu credi di sapere come aiutarmi, ma non puoi sapere niente, NIENTE! E non puoi fare NIENTE!”.

Riprese fiato. Si passò una mano sugli occhi arrossati per asciugare le lacrime che ormai le impedivano di vedere, poi fece un passo in avanti, e riprese a parlare. Con tristezza, questa volta, e rassegnazione.

“Voglio solo essere lasciata in PACE. Tu… non puoi fare niente per me. Nessuno… può fare niente per me”.

Si girò.

“E ora vattene, per favore”.

Alex non aggiunse una parola. Fece ciò che gli era stato chiesto e, con lentezza, richiuse la porta alle sue spalle.

Ancora sconvolto percorse il corridoio, ma arrivato alla fine spostò piano gli occhi sul salotto sotto di lui, al piano terra, visibile dalla ringhiera in legno che precedeva le scale.

I suoi genitori erano seduti sul divano. La signora Grover stava piangendo sommessamente, mentre il marito tentava di calmarla, tenendola stretta a sé e dicendole a bassavoce parole che Alex non riuscì a sentire.

Li guardò con compassione. A quanto pare la frase detta prima da Kristine aveva prodotto qualche effetto, dopotutto. Anche se i loro genitori avevano parecchi difetti, non erano privi di sentimenti. Lui l’aveva sempre saputo, sapeva che tenevano ai loro figli più di quanto non sembrasse a prima vista, ma probabilmente solo ora si stavano rendendo conto di aver commesso degli sbagli. Soprattutto con Kris.

Socchiuse gli occhi. Avrebbero avuto tempo per rimediare.

“Chissà se è vero che non c’è nulla che non si possa risolvere…”.

Kris stessa aveva affermato che agli errori si può sempre riparare. Glie l’aveva detto quella sera, a proposito di Kei. Ma adesso, toccava solo ai loro genitori crederci.

Scosse la testa, e asciugandosi gli angoli degli occhi, umidi di lacrime non cadute, scese con fermezza le scale. Passando di fianco ai genitori, questi si voltarono verso di lui.

“Alex, Kris…”, mormorò timorosa sua madre.

“Per ora lasciatela stare. E’ meglio così, credetemi”, la anticipò lui, prendendo il montgomery appeso di fianco alla porta. Se lo infilò, chiudendo gli alamari fino in cima.

La donna lo fissò senza capire, gli occhi cerchiati dalla stanchezza, sfinita dal pianto.

“Ma… e tu dove vai a quest’ora?”.

Lui sorrise brevemente.

“Non vi preoccupate. Torno presto”.

Senza lasciar loro il tempo di protestare, Alex infilò la porta. Fuori soffiava un vento freddo, segnale che l’inverno si stava avvicinando velocemente. Percorse le strade semideserte con le mani affondate nelle tasche, fino a che giunse davanti ad una piccola, graziosa villetta, isolata in fondo ad una stradina non asfaltata.

Entrò nel cancello socchiuso, e dopo aver attraversato il modesto ma curatissimo giardino suonò una volta il campanello. Attese più di un minuto, poi una voce femminile rispose piano, chiedendo chi fosse.

Alex pronunciò il proprio nome, e dall’altra parte ci fu silenzio per un attimo. Si sentì un quasi sussurrato “arrivo”, poi la donna appese il citofono. Dopo qualche attimo comparve da dietro la porta, che aprì di poco.

“Ma lo sai che ore sono?”.

Lo fissò con aria di rimprovero, poi sembrò d’un tratto imbarazzata.

“Lo so che ti ho detto che ci avrei pensato, però non mi sembra il caso che tu… ecco… ”.

“Keith, non si tratta di noi, ma di Kris. Sono qui perché ho bisogno di parlare con te e Nicole”.

Lo sguardo della ragazza si allarmò, e le iridi azzurre tornarono a fissare Alex, brillando nel buio della sera.

“Oh…”.

“Ti prego. Solo un minuto”. Spostò un attimo la testa. “Sono… preoccupato”.

Implorante, il ragazzo continuò a guardare Kei, ma in quel momento la porta si aprì completamente.

“Kei, chi è?”.

Nicole apparve di fianco alla sorella, i fluenti capelli rossi raccolti sulla nuca. Indossava una vestaglia di seta bianca, ed era a piedi nudi, subito visibili sulle piastrelle scure dell’ingresso.

“Alex?”.

Rivolse un’occhiata interrogativa sia all’amico che a Keith, ma quest’ultima rientrò in casa, invitando il ragazzo oltre la soglia.

“Entra pure”.

 

 

Lo specchio le rimandava un’immagine di sé nella quale stentava a riconoscersi.

Il viso sciupato, gli occhi arrossati, i capelli scompigliati.

Il corpo magro, troppo magro, da troppo tempo.

I lividi.

Kris chiuse gli occhi, portandosi una mano al braccio destro, quello che più le faceva male. Il modo con cui Alex l’aveva afferrato aveva riacceso il dolore della sera prima. Anzi, di tutte le precedenti giornate.

Fissò ancora il riflesso davanti a lei con fastidio, poi si voltò, abbandonandosi sul letto come un peso morto. Non era propriamente disgustata da quello che era diventata, ma dal fatto che stesse permettendo di lasciarsi ridurre così.

Aveva visto gli occhi di suo fratello. Aveva visto la sua reazione. Ne aveva avuto paura ma l’aveva compresa, eccome se l’aveva compresa, anche se lei gli aveva risposto a quel modo.

Gli aveva detto di lasciarla stare, ancora una volta. Di non farle domande. Di non aiutarla.

“Non puoi chiedermi di dirti chi è stato, Alex…”, pensò, assaporando il sollievo dato dal fresco delle lenzuola contro il suo corpo dolorante. “Anche se io stessa…”.

Aprì gli occhi. Sì, avrebbe voluto mettere fine a tutto quanto, ma non poteva.

Anche se avrebbe voluto dire soffrire ancora, non poteva lasciare che vincesse lui.

Lui.

Ricomparso quella sera, emergendo dal buio.

Senza una spiegazione, mandando via Tom.

Guardandola senza vederla davvero.

Aprendo la bocca una sola volta.

Una.

Cominciamo.

I suoi occhi duri.

Gli occhi solitari di un lupo, gli occhi indecifrabili e ipnotici di un animale notturno.

E lei, dopo un attimo di smarrimento, pronta, alla porta.

L’unica cosa che potesse fare, che sapesse fare.

Felice, incredula.

Illusa.

Lui che fa pochi passi indietro per prendere la rincorsa, poi… la sua gamba destra che si solleva.

Il pallone sparire dall’erba in un attimo.

E’ diretto proprio verso di lei, nel mezzo… non è un tiro angolato, no…

Non è… angolato… è forte.

Ma non come quelli di Oliver Hutton, o di un altro attaccante. E’ diverso.

Le ci vuole poco per rendersene conto.

Molto poco.

La sfera che le centra lo stomaco, facendola finire in fondo alla porta.

Sì, basta questo. Ed il dolore.

Un dolore atroce.

Nel fisico, e nell’anima.

Era stata cattiveria pura.

L’hai fatto apposta.

Tossisce mentre lo dice, si porta una mano al ventre, tossisce ancora.

Ma da lui non riceve parole. Solo un altro pallone, insieme a dolore, e freddo.

Ecco ciò che sente ancora. Come se il cuoio fosse diventato ghiaccio.

Proprio come il cuore della persona a pochi metri da lei.

Perché?

Non sa cosa diavolo voglia. Che pari tiri impossibili? O semplicemente vederla distesa su quel prato, a sputare sangue?

Cosa pretendi che faccia? Dimmelo!

Proiettili crudeli.

Sulle braccia, sulle spalle, sulle gambe. Uno anche sul viso.

Tiri su tiri. Tutta la sera. Ripetutamente.

E alla fine, vederlo andare via all’improvviso.

Senza la forza per rialzarsi, osservarlo sparire nel buio, così come era apparso.

Lui, un animale notturno.

I giorni seguenti, poi, la stessa, spietata sequenza.

Con qualche parola in più, ma nulla di molto diverso da offese, insulti, provocazioni.   

Lui, Benjiamin Price.

Lui.

Come se non ce l’avesse più, un cuore.

 

 

“Hai detto proprio così?”.

“Certo. Ed è stato anche poco. Avrei potuto continuare a rinfacciare a tutti e due un milione di cose per ore…”.

“Immagino. Però ho come l’impressione che nonostante tutto non cambieranno idea”.

“Sull’insegnante? No, infatti. Ma non m’interessa. Sono sicura che hanno capito cosa intendevo, e questo mi basta”.

“Mh, lo credo anch’io… la lingua tagliente senza dubbio ce l’hai”.

Sentendo quell’ultima frase, Kristine si girò verso Jude per guardarla con lo stesso sorriso che era comparso anche sulle sue labbra.

“E con questo cosa vorresti dire?”.

L’amica dagli occhi da gatta avvicinò il viso al suo, facendole una smorfia.

“Voglio dire che è colpa tua se siamo qui fuori da un’ora! Potevi contenere il tuo nervosismo almeno per oggi e sfogarti per la prossima serata coi tuoi, no? La prof ha buttato fuori dall’aula anche me… ”.

“Non sono stata l’unica ad averle risposto, mi sembra!”.

“Ma il mio spirito di studentessa ribelle è sorto da quando ho iniziato a frequentare una certa persona… e indovina di chi si tratta?”.

Nel corridoio del secondo piano dell’Istituto privato Shyutetsu risuonò la risata chiara delle due amiche, che dovettero però subito zittirsi quando la professoressa si affacciò dalla porta dell’aula per riprenderle di nuovo.

“Credo che anche l’ultima ora a reggere questi secchi d’acqua non ce la toglie nessuno… ”, mormorò quindi Judith, scrutando il fondo rovinato del contenitore metallico con rassegnazione. Era pieno fino all’orlo, e piuttosto pesante.

Kris non disse nulla, ma sospirò. Quando poi rialzò la testa gli occhi le caddero sul piccolo cortile visibile sotto le finestre del corridoio, come sempre deserto a quell’ora. Erano infatti quasi le quindici, e la giornata scolastica stava fortunatamente giungendo al termine.

Si avvicinò al vetro.

“Che cosa guardi?”. Jude le si affiancò.

“Oh, nulla. Non c’è nessuno”.

Mentre la ragazza dai capelli scuri si sporgeva leggermente dal davanzale, Kris lasciò improvvisamente il secchio, che si posò sul pavimento con un tonfo sordo. A quel rumore, Judith si girò di scatto.

“Stai… stai bene?”.

Kris circondò di nuovo il manico del secchio con le dita, senza però muoverlo da terra.

“Sì… è solo… uhm, niente, mi facevano male le braccia”.

“Troppo allenamento?”.

“Uh… sì, immagino di sì”.

Si massaggiò velocemente le spalle, pensando che per sua fortuna la divisa invernale copriva completamente i lividi che aveva sulle braccia. Se Judith li avesse visti sarebbe stata costretta a spiegarle da dove venivano, e Kris non aveva la minima voglia di assistere ad un’altra scenata. La discussione della sera prima con suo fratello le era bastata… 

“Quand’è la prossima partita?”.

“Tra cinque giorni. Con la Flynet”.

Si appoggiò con la schiena al muro, rifiutandosi per il momento di tenere ancora in mano il contenitore ai suoi piedi.

Jude la osservò, pensando a cosa chiederle. Da quando le aveva parlato dei sentimenti che provava Becker per lei, non aveva più saputo cosa fosse successo. Kris non le aveva detto più nulla, e Tom era sempre stato irraggiungibile via telefono. Con molte probabilità non aveva accettato il suo consiglio di farsi avanti con Kristine. Anzi, di sicuro.

Fece per staccare gli occhi dal cortile che aveva ricominciato a fissare, annoiata, per guardare in faccia Kristine, ma qualcosa attirò la sua attenzione. Una figura familiare era infatti comparsa sotto gli alberi spogli, stretta in una giacca scura. Stava camminando con lentezza.

“Toh, c’è Price”, disse quindi, appoggiandosi ancora al davanzale. “Strano vederlo ancora in giro. Di solito se n’è già andato a quest’ora del pomeriggio”.

Kris si voltò.

“Dov’è?”.

L’altra glielo indicò con un cenno del capo.

“Laggiù”.

Rimasero entrambe in silenzio ad osservare Benji avvicinarsi ad un grosso ciliegio dai nudi rami scuri, per poi sedersi ai suoi piedi lasciandosi cadere mollemente. Da una tasca tirò fuori una sigaretta, la accese e dopo aver fatto un tiro sollevò la testa al cielo nuvoloso. Pareva stanco.

Judith notò con la coda dell’occhio il modo con cui Kris lo stava fissando. Non era capace di definirlo. Era uno sguardo triste, malinconico, come rassegnato a qualcosa di inevitabile, ma allo stesso tempo duro e distaccato, in qualche modo addirittura sprezzante. Uno sguardo dove sentimenti opposti si scontravano.

“Kris, hai capito… cosa provi per lui?”.

Jude le aveva fatto quella domanda quasi a bassavoce. L’altra però non spostò la testa, fece solo un piccolo sospiro e non parlò fino a quando risollevò il secchio d’acqua da terra. Solo allora, con un sorriso triste, guardò l’amica.

“Non ha più importanza, ormai”.

 

 

Il signor Gunnell, in piedi a braccia conserte a bordo campo, guardava concentrato i movimenti dei giocatori al centro del rettangolo. Poco distante da lui, intento invece a studiare lo schema di gioco del prossimo incontro, Oliver Hutton sollevava solo a tratti gli occhi dai fogli stampati fissati alla cartellina che aveva in mano.

Nonostante la temperatura si fosse abbassata notevolmente in quegli ultimi giorni, la New Team non sembrava essersene accorta. Gli allenamenti andavano sempre meglio, e tutti apparivano al massimo della forma. Holly era quasi certo che sarebbe riuscito a fronteggiare senza troppi problemi Callaghan, e magari anche a batterlo. L’intera squadra ne era convinta.

“Uhm… Oliver?”.

Il ragazzo alzò lo sguardo sull’allenatore.

“Sì?”.

L’uomo fece qualche passo verso di lui, mettendo una mano in tasca.

“Ecco… volevo chiederti se… anche tu ti sei accorto che da due giorni Kris Grover non si fa vedere”. Si massaggiò gli occhi con le dita, poi, stanco, tornò a guardare il numero dieci. “Credimi, non voglio darti l’impressione di essermi fissato con Grover. So che da un po’ di tempo lo rimproveravo in modo pesante per i suoi ritardi, e…”.

“Non si preoccupi mister. La capisco”. Hutton si alzò dalla panchina su cui era seduto, posando a lato la cartellina e la biro con la quale stava segnando alcuni appunti.

Già, Holly era certo che la New Team avrebbe battuto la Flynet, se solo… non ci fossero state un paio di cose a preoccuparlo.

Sospirò.

“Anch’io ho notato le assenza di Kris. Tempo fa le avevo detto di non essere troppo severo con lui solo perché credevo che avesse qualche problema personale che gli impediva di essere puntuale, ma…”. Gettò uno sguardo al cielo, plumbeo. “… è anche vero che non possiamo permetterci di avere il nostro primo portiere in forma discreta. Non adesso, a pochi giorni dalla partita”.

Il mister scosse il capo.

“E’ un guaio. Ma nessuno sa dove sia finito?”.

“No. Dovrei chiedere a Benji, ma oggi non è ancora arrivato. E’ lui che allena Grover la sera, anche se forse Kris ha smesso di andare anche ai loro incontri…”.

I due si guardarono, senza sapere che fare. Trascorse così un’altra mezz’ora di allenamento, e quando il sole tornò ad affacciarsi pallido fra le nuvole, il mister richiamò i ragazzi per una pausa.

Holly osservò il gruppo raccogliersi oltre la linea bianca del perimetro, seguendo con particolare attenzione i movimenti di uno dei membri della squadra, l’unico che, da troppo tempo ormai, pareva non essere più lo stesso. Lo vide staccarsi dagli altri e, scuro in volto, dirigersi verso gli spogliatoi, aprendo e chiudendo la porta senza farsi notare. Da nessuno, meno appunto da Oliver, che scusandosi velocemente con gli altri compagni seguì l’amico oltre il corridoio.

“Sei fra noi, Tom?”.

Il capitano si appoggiò al muro della stanza degli armadietti. Pronunciò quella domanda con tono severo e fissando Becker che, fermo davanti al proprio con l’anta aperta, stava controllando qualcosa all’interno del borsone appoggiato sul ripiano metallico.

“Oh…”. Il ragazzo dai capelli castani rimise subito a posto ciò che aveva preso dalla sacca, allontanandosi di colpo dall’armadietto. “Ciao Holly… io… torno su subito, stavo solo controllando che…”.

“Stavi chiamando Grover?”.

Hutton fece qualche passo nella sua direzione, le mani nelle tasche dei pantaloncini. Il suo viso era duro, ma anche preoccupato.

Tom aprì un poco la bocca, sorpreso.

“Io… non…”.

“Ho capito già da un po’ che Kristian c’entra in qualche modo coi tuoi problemi. Non è necessario che cerchi di nasconderlo”, lo interruppe l’altro. “Vi conoscete da tanto, siete amici da anni, e certe volte può succedere che si incrini qualcosa. In un’amicizia, intendo”.

Il capitano sorrise, continuando ad osservare il numero undici della New Team.

“Questo discorso… in parte l’abbiamo già fatto, lo so. E come quella volta, anche adesso non voglio chiederti cosa sia successo. Immagino che quel segreto che non potevi rivelare sia rimasto tale. Però…”.

Arrivò davanti a Tom, e l’altro, a labbra serrate, chinò la testa, già sapendo dove l’amico voleva arrivare.

“… ora la cosa si sta facendo troppo seria”, continuò Hutton. “Dovete risolvere ogni cosa, o l’intera squadra ne farà le spese. So che tu sei capace di giocare al meglio in ogni caso, nonostante il tuo stato d’animo… ma Kris no. Ne abbiamo avuto una prova nella partita con la Artic, se ricordi”.

Appoggiò le mani sulle spalle di Becker e lui, risollevando gli occhi, lo fissò tristemente.

“… Già”.

“Tu sei l’unico fra noi che sa come contattarlo. Ti prego, cerca di fare qualcosa. Riportalo agli allenamenti, cerca di fargli capire che non può lasciarsi andare in questo modo”.

Fece una pausa.

“E se vorrete… io sarò pronto a darvi una mano”.

Tom annuì piano, rivolgendo al proprio capitano un piccolo sorriso, grato.

“Okay”.

Hutton batté una mano sulla spalla del ragazzo, e scambiandosi un altro sorriso i due fecero per tornare in campo. Voltandosi, però, i calciatori dovettero fermarsi un’altra volta.

Perché, fermo sulla porta, c’era Price.

“Di sopra gli altri chiedono dove siete finiti”, comunicò il portiere, fissandoli. “Vi consiglio di sbrigarvi. Non è il caso di far perdere tempo prezioso al resto della squadra”.

Detto questo, Benji portò una mano alla tasca posteriore dei jeans, tirando fuori un pacchetto di sigarette e un accendino. Ne accese una.

Mentre con disinvoltura il ragazzo iniziava a fumare, Oliver e Tom rimasero a guardarlo, senza parole.

Price si voltò quindi per tornare nel corridoio, ma Hutton lo richiamò.

“Benji…”.

“Mh?”.

“Scusa, è che…”. Il numero dieci si schiarì la gola. Ultimamente, Price lo metteva a disagio molto spesso. “… ci stavamo domandando se, per caso, sapevi perché Kris non è venuto agli allenamenti di questi ultimi due giorni. Magari, visto che voi vi vedete ogni sera…”.

“Non ne so niente. Mi spiace”.

“…Ah”.

Benji riprese a camminare. Era visibilmente scocciato, ma la voce preoccupata di Hutton lo bloccò ancora.

“Mi sembra che… che tu… non abbia mai fumato”.

Silenzio.

“E allora?”.

“Ecco… beh, un… uno sportivo non dovrebbe fum…”.

“Fatti gli affari tuoi, Hutton”.

Il portiere lo guardò infastidito, ma non riprese a camminare, forse in attesa di una replica. Holly, però, letteralmente gelato dalla risposta secca e dura di quello che aveva sempre creduto un amico, non sapeva che altro dire. Era già la seconda volta in poco tempo che Price si comportava in quel modo, la seconda dal giorno della famosa partita con la Artic.

Era chiaro che anche il suo atteggiamento, in qualche modo, doveva c’entrare con Kris, ma il numero dieci non aveva idea di come affrontare la discussione con Benji. Non sembrava troppo disposto a parlare. Decisamente no…

Gettò così un’occhiata interrogativa a Tom, fermo a pochi passi da lui, speranzoso in un suo aiuto.

Ma Becker non era girato nella sua direzione. Stava infatti fissando con gli stessi, identici occhi di Price proprio l’SGGK.

Occhi gelidi, dallo sguardo tagliente come una lama.

“Holly, tu torna pure su. Di’ al signor Gunnell che arrivo tra un secondo”.

Il capitano osservò l’amico meravigliato, ma non si oppose alla sua richiesta. Probabilmente, anzi, molto probabilmente, lui e Price avevano qualcosa da chiarire. Ed era sicuramente meglio se lui ne restava fuori.

“Forse un giorno tutto questo mi risulterà più chiaro…”.

Superò i due giocatori e, con una breve corsa, sparì alla fine del corridoio.

Rimasti soli, Becker e Price restarono in silenzio per un lungo istante. Poi, facendo solo qualche passo in avanti, Tom sorrise sardonico.

“E così hai iniziato a fumare. Uhm, a quanto pare devi essere piuttosto nervoso. Ma Holly ha ragione, non dovresti”.

“Ed io non ho bisogno delle vostre prediche. Faccio quello che mi pare”.

“Sì, immagino… in fondo, l’hai sempre fatto”. Fece una pausa. “Cos’è successo, Benji?”.

“Di che stai parlando?”.

“Con Kris”.

Il portiere non rispose. Si limitò a fare un altro tiro, e mentre il fumo si disperdeva nell’aria, Becker si avvicinò ulteriormente a lui.

“Spero per te… che tu non abbia fatto quello che penso”, gli disse quindi con vago tono di minaccia, cercando di capire qualcosa dall’espressione del suo viso che, però, non sembrava tradire alcuna emozione. “Ti conosco, Benji. Come conosco il Benji di una volta. So cosa puoi esser capace di fare se viene risvegliato il tuo orgoglio. E l’idea mi spaventa”.

L’altro fece qualche passo nel corridoio, osservando le spirali grigie nelle quali era immerso muoversi al soffio del suo respiro.

“Anche se fosse, la cosa non ti riguarda”.

Becker strinse i pugni lungo i fianchi, spalancando gli occhi.

“Allora… l’ha fatto davvero…”.

Deglutì, pentendosi amaramente di essersene andato via, quella sera al campo. Di aver commesso un altro errore, l’ennesimo sbaglio che poteva essere evitato. Kris l’aveva respinto, Benji era tornato reclamando il suo posto come allenatore e il suo stato d’animo di quel momento aveva fatto il resto.

L’aveva deciso.

Aveva creduto che lasciarla lì, con Price, sarebbe stata la cosa migliore per lei, quello che desiderava, quello che Kristine voleva.

Ma per lui, invece, era stata la più comoda. La via più semplice per non soffrire ancora.

“Invece, è stata lei a soffrire. E la cosa peggiore è… che sapevo che sarebbe successo”.

Sentì un nodo formarsi in gola, ma capì che quello non era il momento di pensare ai rimorsi. Avrebbe avuto tempo dopo per rimettere a posto le cose, per parlare con Kris. Ora, c’era qualcun altro con cui doveva finire una chiacchierata.

Chiuse gli occhi con un profondo respiro e, una volta che li ebbe riaperti, fulminò Benji con un’occhiata.

“La cosa mi riguarda, invece”.

Fece per proseguire, ma senza avere nemmeno il tempo di capire cosa fosse successo Tom si ritrovò spinto con violenza contro la parete alle sue spalle. Le dita di Benji tenevano stretta in una morsa ferrea la sua maglietta, appena sotto al collo, ed il calciatore poteva sentire la pressione contro il suo sterno farsi ogni secondo sempre maggiore.

“E perché dovrebbe? Decido io come allenare il mio sostituto, Becker”.

“Ma anche Kris ha un limite. Non è un robot, lo vuoi capire?! Andando avanti così potrebbe anche non riuscire a giocare, la prossima domenica”. Cercò di riprendere respiro. “Lo sfinirai, fisicamente e psicologicamente… non hai nessun diritto di trattarlo in un modo simile solo perché hai il sospetto che sia…”.

“Ne ho tutti i diritti, invece”, scandì sibilando il portiere, senza staccare lo sguardo da quello, furioso, di Tom. “Eccome se ne ho. Quel Grover ha bisogno che qualcuno gli faccia capire come ci si comporta in campo. Io non accetto né sfaticati, né femminucce che mi sostituiscano. Voglio uomini veri. E se lui non è capace di esserlo, glielo insegnerò io. Con le cattive, se necessario”.

L’espressione del numero undici, a quella frase, si fece ancora più aspra.

“Scommetto che non hai pensato nemmeno per un momento che potresti esserti sbagliato riguardo a quella notte, vero?”.

Price indebolì la spinta sul petto di Becker.

“No, e comunque non so proprio come potrei essermi sbagliato. In ogni caso per la partita con la Flynet Kristian ci sarà di sicuro, te lo garantisco. E sarà in piena forma”.

Price lasciò finalmente il calciatore. Lo guardò ancora con i suoi occhi scuri, e dopo essersi portato un’ultima volta alla bocca la sigaretta, ormai diventata un mozzicone, la spense sotto i piedi.

Si girò, dirigendosi all’uscita per il campo.

Becker, invece, rimasto fermo contro il muro, si passò con calma una mano sulla maglietta spiegazzata. Attese qualche secondo, poi ripuntò gli occhi sulla schiena del portiere che si allontanava.

“Sai, Benji, ero convinto che avessi capito da tempo certe cose. E cioè cosa c’è davvero di importante, da salvare, in questo mondo che ormai conosce solo parole come egoismo, potere, vittoria. Orgoglio”.

Il portiere mosse di poco il viso, senza però voltarsi.

“Ma a quanto pare mi illudevo. Le persone come te non sono capaci di cambiare. Sei rimasto lo stesso ragazzino odioso di otto anni fa. E stai certo che continuando così rimarrai di nuovo solo, proprio come lo eri allora”.

Tom non aggiunse altro. Si staccò dalla parete e, superato l’SGGK, immobile in mezzo al corridoio, si incamminò fuori dagli spogliatoi.

 

 

Quella sera, una notte senza luna. Freddo, un freddo secco, non un filo di vento. Nessuno in giro.

Con gli occhi bassi, Kris camminava lungo la rete del campo d’allenamento. Da almeno dieci minuti non si decideva ad entrare, ma non perché fosse arrivata in anticipo. Almeno, non solo per quello.

Mentre osservava il campo attraverso i piccoli rombi vuoti creati dai fili verdi incrociati, annusava attentamente l’aria. Non aveva mai fatto caso prima agli odori che c’erano la sera, ma ora che li aveva sentiti ne era rimasta disgustata.

Gas di scarico, e poco altro.

Infilò le dita nella rete, fissandosi la punta delle scarpe da ginnastica ormai consumate. In realtà aveva respirato bene i profumi di Fujisawa, quell’estate. Ma erano stati profumi. Piacevoli.

Quello dell’oceano, che arrivava fin nell’ufficio di Nicole, trasportato dal vento.

Quello dell’erba appena tagliata, proprio lì, al campo, durante gli allenamenti.

Sensazioni. Ricordi, in pochi mesi già così tanti. Ma che forse, adesso, era meglio prendere e gettare via.

Tutti.

“Ora nemmeno l’aria è più quella di quando sono arrivata”, pensò. “Niente. Niente è uguale a quando sono venuta qui”. Alzò gli occhi al cielo. Era nero come inchiostro, e per nulla consolante. “Forse sono arrivata davvero alla fine. E forse sarebbe meglio lasciar perdere ogni cosa”.

Si staccò dalla maglia metallica con un movimento improvviso, provocando una vibrazione lungo tutta la rete. Era veramente tentata ad andarsene, ma al tempo stesso… non ci riusciva.

Scosse la testa, pensando che era una stupida a continuare a sperare. In cosa, poi?

“Muoviti”.

La voce di Price, emersa dall’oscurità, fece sussultare Kris, che si voltò di scatto, facendo due passi indietro. Fissò la figura ferma a pochi passi da lei, e deglutì. A quanto pare anche lui era arrivato in anticipo. Fantastico…

“… arrivo”, mormorò piano, quasi per non farsi sentire. Stava iniziando a non poterlo più vedere, ma non avrebbe voluto che succedesse. Non voleva odiarlo.

O, più precisamente, non poteva. Nonostante tutto il male che le stava facendo.

“Iniziamo subito”.

La guardò un attimo. Anche Kris sollevò il viso, ma appena il suo sguardo incrociò quello di Benji, il ragazzo si voltò. Raggiunse l’ingresso del campo, e lei ne seguì i movimenti con occhi lucidi di lacrime che Price, di sicuro, non aveva notato.

Sì. Avrebbe continuato a subire quel calvario senza lamentarsi, e non solo per provare a se stessa che poteva farcela.

Si passò una mano sulle guance.

“Io ti amavo. E non posso dimenticarlo”.

Ora l’aveva capito. Non poteva sfuggirgli, non poteva opporsi.

E non se ne sarebbe andata. Qualunque cosa Price avesse fatto.

Qualunque…

Lentamente, entrò nel rettangolo di erba scura. Ma mentre si posizionava in porta, ormai preparata a ciò che avrebbe dovuto sopportare per le prossime ore, Kristine notò Benji avvicinarsi insolitamente a lei. Aveva lasciato i palloni dell’allenamento a terra, più indietro.

“Perché non stai più venendo agli incontri con la squadra, al pomeriggio?”, le chiese improvvisamente, rompendo il silenzio intorno a loro.

Kris lo fissò, stupita. Non le aveva mai fatto domande su nulla, in tutte quelle sere.

“Beh…”.

“Allora?”.

“Ecco, è che… non riesco… a riprendermi dai tuoi…”. Rimase per qualche istante a pensare a come chiamarli. “…a… allenamenti, in sola mezza giornata. E la mattina vado a scuola. Quindi…”.

“Non dire assurdità. Vedi di tornarci prima che decida di raddoppiarti le ore con me”.

“Ma…”.

“Ho detto”, la interruppe ancora, alzando la voce. “che ci tornerai. Nessun ma. Uhm, anzi…”

L’SGGK ridusse gli occhi a due fessure, fermandosi un attimo.  

“… Credo che le cose si possano tranquillamente fare entrambe. Perciò, da domani, le ore diventeranno tre. Siamo intesi?”.

Kristine mosse le labbra per replicare, ma dalla sua gola non uscì alcun suono.

“E’… è pazzo… tre ore… con lui?”.

Osservando l’espressione comparsa sul viso di Grover, Price fece un piccolo sorriso di soddisfazione. Non aveva avuto il coraggio di rispondergli, proprio come aveva immaginato.

“E’ così che alleno i miei sostituti, Becker”, sussurrò, prima di voltarsi d’improvviso. “Precisamente… in questo modo”.

Corse verso il gruppo di palloni abbandonati fra l’erba e, impossessatosi di una delle sfere, scattò in avanti, dirigendosi velocemente verso la porta.

Kris, ancora sconvolta per le sue parole di poco prima, vide con orrore il ragazzo avvicinarsi a lei. Non aveva nemmeno avuto il tempo di indossare i guanti, ma dubitò che a Benji importasse. Come sempre.

La palla si staccò dal piede del calciatore dopo pochi metri di corsa e raggiunse, con una violenza inaudita, lo stomaco della ragazza che, ferma fra i pali, crollò subito a terra.

La sfera rotolò davanti a lei. Kris la fissò, e appoggiando entrambe le mani sull’erba tentò di riprendere fiato. Ma non riuscì nemmeno a sollevare la testa perché un altro, fortissimo colpo la scagliò, dopo solo pochi secondi, col viso nella rete.

Riaprì gli occhi con fatica. Un dolore intenso le martellava le tempie, ma tentò di ignorarlo.

“Allora? Non sei più capace di bloccare il pallone? Su, rialzati!”.

Dopo altri tre tiri dello stesso genere, Benji ripeté ancora quella frase. E dopo altri due, ancora.

E ancora.

la cosa non ti riguarda" soffio del suo respiroIl portiere della New Team, visibilmente stremato, cercò di rimettersi in piedi per l’ennesima volta, ma un altro bolide lo anticipò. Il pallone lo colpì questa volta alla spalla destra, scaraventandolo brutalmente in fondo alla porta.

Kris rimase immobile, appoggiata con la schiena alla maglia di corda bianca, la mano sulla spalla dolorante.

“Vuoi iniziare a lavorare seriamente, Grover?”, esclamò allora Price, continuando a fissarla freddamente.

La voce del ragazzo risuonò nella mente di Kristine che, con la testa abbassata, tentava di controllarsi. Aveva una voglia disperata di scoppiare a piangere, ma non lo fece.

“Non era questo che volevo. Non era questo che volevo…”.

In quel momento, però, una nuova, feroce pallonata la colpì ancora allo stomaco, facendola tornare crudelmente nel presente. Si accasciò in ginocchio, tossendo.

“Dimmi…”.

Finalmente, Benji si fermò. Smise di calciare palloni, avvicinandosi senza fretta ai due pali bianchi.

Il freddo, adesso, iniziava a farsi insopportabile.

“… devo prendere in considerazione… l’idea di sbatterti fuori dalla squadra?”.

Kris sollevò lentamente lo sguardo. Price era a pochi centimetri da lei e la stava fissando, le ginocchia piegate per guardarla negli occhi. Nei suoi, glaciali, non c’era la minima compassione, e non accennavano a volersi distogliere dal suo viso.

Un brivido percorse la schiena di Kristine. Non sapeva se fosse colpa del freddo nell’aria o di quello nello sguardo di Price. Non riuscì a dire nulla, ma proprio allora il ragazzo mutò espressione, ed un sorriso beffardo gli comparve sulle labbra.

“Prima di offrirti come portiere ti saresti dovuto informare meglio, lo sai?”.

Kris dischiuse la bocca.

“Co… cosa vuoi dire?”, mormorò.

Benji la fissò ancora per un istante, poi si rialzò, iniziando a camminare lentamente, di nuovo, verso la linea mediana.

“Che il calcio non è uno sport per donnicciole”.

Quelle parole sprezzanti sembrarono aleggiare, per un attimo, in quella cupa notte senza luci, e a Kris parve che il proprio flusso sanguigno si fermasse, solo per poco. Che si fosse fermato il battito del suo cuore.

Ma che bel visino! Lo sai, Grover?

Ora che ti guardo bene mi sembri un po’ troppo gracile e delicato per resistere all’intero campionato…

Era quello che le aveva detto Mark Landers, mesi prima.

Si è messo in mostra come al suo solito, non è vero?

Posso immaginare come si sarà comportato nei tuoi confronti, avrà tentato di umiliarti in tutti i modi…

E Benji. Quello che aveva detto quando l’aveva saputo.

Nella sua mente, in quel momento. Quelle parole.

Se le ricordò.

Grover, mi dispiace. Avrei dovuto esserci.

Kris strinse le dita attorno ad un ciuffo d’erba, strappandolo.

Aveva creduto…

Aveva creduto che fossero diversi. Ne era convinta.

E invece…

Il calcio non è uno sport per donnicciole.

Price aveva detto le stesse cose.

Per donnicciole.

Price…

In fondo… io e Landers eravamo molto simili, qualche tempo fa. Ecco perché iniziammo a odiarci cordialmente…

Era sicura che fossero diversi. L’aveva sentito, percepito. Quel pomeriggio, a casa di Benji, nonostante quello che lui le aveva detto.

Dici sul serio? Non ci credo… tu non assomigli per niente a quel tipo…

Che idiota. Idiota. Idiota.

Non poteva dimenticare che l’aveva amato?

Non poteva… andarsene?

Sfuggirgli?

Strinse i denti, e fissò Price. Lo fissò, come volendolo trapassare. Come potesse lanciare delle lame, al posto di sguardi.

Lo fissò con un odio che non sapeva di poter provare e con una rabbia che ormai, da troppo tempo, stava trattenendo dentro di sé.

Affondò con forza le dita nel terreno. Strinse il pugno attorno alla terra umida, sentendosi ribollire.

Non l’aveva mai guardato così. Non aveva mai guardato nessuno così.

Lo sapeva, se ne rendeva conto, ma adesso…

Adesso…

Benji…

Aveva superato il limite.

Si alzò, reggendosi con una mano al palo.

“Tu… tu cosa vuoi saperne?”, iniziò prima piano, con un sussurro rabbioso. “Non sai… non sai proprio nulla… non sai assolutamente NIENTE di me, Price!”, continuò poi, gridandogli la stessa cosa che aveva detto a suo fratello, la sera prima. Si sentiva strana, ma probabilmente era colpa dell’ira che le stava annebbiando la vista o, ancora più probabilmente, del dolore che le pervadeva il corpo. Ebbe l’impressione di perdere l’equilibrio, e si riappoggiò contro il palo.

Intanto Price, per tutta risposta, aveva continuato a camminare, completamente indifferente alle sue parole. Solo dopo un po’ si fermò, girandosi.

“E questo cosa c’entra? ” disse.

Lei rimase immobile, incredula di fronte all’incredibile distacco con cui andava avanti a parlarle. Si portò una mano alla fronte, ormai sul punto di non capire più nulla.

Pazzesco. Era tutto assolutamente pazzesco…

Ma doveva finire.

Si lanciò furente dietro di lui, fino ad arrivare nei pressi delle panchine a bordo campo. Il dolore adesso non importava, anche se ad ogni passo le sembrava di non essere più in grado di continuare.

Quando afferrò Price ad una spalla il suo viso si contrasse in una smorfia di dolore ma, almeno, riuscì a bloccarlo.

“Mi sembra che fra uomini ci si debba parlare a viso aperto, o mi sbaglio? In questo caso sei tu la femminuccia, Benjiamin Price!”, lo accusò Kris col fiato corto, senza però smettere di fissarlo.

Ma il ragazzo, sempre estremamente calmo, a quel giudizio assunse un’espressione indecifrabile.

“No, ti sbagli. E’ solo che mi sembra stupido e inutile perdere la mia calma e il mio tempo per discutere con te di una cosa simile. I problemi, qualunque essi siano, si devono lasciare fuori dal campo. Te l’ho già detto una volta, mi pare. Per oggi, in ogni caso, è meglio che la smettiamo qui”.

Dopo queste parole, Benji si sistemò il cappello ma, nel momento in cui fece per avviarsi verso lo spogliatoio, Kris gli sbarrò la strada. Era sempre più furiosa.

Furiosa, e addolorata.

“Per quale motivo ti comporti così? Cosa DIAVOLO ti ho fatto?!”, urlò senza quasi più voce, fermandosi a pochi centimetri dal suo viso. Questa volta, Kristine stava piangendo.

Questa volta, non era riuscita a trattenersi.

“Perché non cerchi di capirmi, almeno un po’? Sei freddo e crudele, ma io non sono solo un tuo compagno di squadra, o un sostituto che devi allenare! Io…”. Kris si portò una mano al petto, abbassando un attimo gli occhi. La mano le tremava. “… una volta ero anche tuo amico, e tu lo eri per me… o forse hai solo finto di esserlo? Dimmi, è così?!”.

Tornò a guardarlo.

“Come… come puoi dirmi di lasciare da parte i miei problemi, senza neanche sapere cosa… mi fa star male, o la gravità delle mie preoccupazioni?! Rispondimi! Tu… non sei più la persona che conoscevo. Quella con cui avevo parlato tempo fa, a casa tua. Cosa… cosa ti ho fatto per essere trattato in questo modo?! DIMMELO!”.

Le parole le erano uscite dalla bocca come un fiume in piena. Non le importavano le conseguenze. Voleva… voleva solo capire.

Far terminare quella messa in scena crudele, e capire.

Benji l’aveva ascoltata muto. La guardò negli occhi, dopo un istante di pesante silenzio.

“I tuoi problemi non mi possono interessare. E poi, è giusto che prima o poi impari a crescere. Se i sentimenti ti rendono più debole, allora dovrai sbarazzartene. Non mi importa se per te sarà difficile, o doloroso… dovrai cambiare atteggiamento se vorrai continuare a giocare con la New Team. Altrimenti, ripeto, per me te ne puoi anche andare subito”.

Il silenzio calò ancora una volta sul campo immerso nelle ombre, ad eccezione fatta per i due fari accesi da Benji ai lati del rettangolo. Kris guardò quel vuoto scuro davanti a sé per un lungo, lunghissimo momento, riuscendo però a pensare ad una sola, unica cosa.

“No. Questo è davvero troppo”.

Basta. Basta.

La ragazza alzò un braccio e, con tutta la forza che aveva, diede uno schiaffo a Price.

Nell’aria si udì un rumore sordo, e l’SGGK rimase fermo. Immobile, allibito, con il viso piegato di lato.

Gli occhi, spalancati, fissavano il vuoto, proprio come Kris pochi attimi prima.

“Non ti preoccupare. Me ne vado immediatamente”, dichiarò quindi lei, a denti stretti. “Comunque, avrei dovuto immaginarlo che il grande e infallibile portiere Benjiamin Price, così orgoglioso e pieno di sé, allenatosi e specializzatosi per anni in Germania, non avrebbe mai accettato un principiante per sostituirlo. Ma penso proprio che nemmeno un professionista del tuo stesso livello si sognerebbe mai di presentarsi come tuo sostituto. Quindi, scordati pure la vittoria della New Team in questo campionato, perché nessuno verrà ad aiutare un pallone gonfiato come te”.

Kris si fermò per riprendere fiato. Non aveva idea di come potesse parlare in un modo tanto orribile proprio alla persona che per anni aveva considerato un modello da imitare. Che aveva amato con tutta se stessa, seppur senza rendersene conto davvero.

Ma in quel momento, niente contava più. Niente.

Son tutti ricordi da gettare via. Tutti quanti.

La ragazza fece un profondo respiro, poi passò di fianco a Benji, dirigendosi verso lo spogliatoio.

Prima di lasciare il campo, però, si girò un’ultima volta verso di lui.

“Ah, dimenticavo… l’unica ragione per cui ho accettato di entrare nella New Team è stato perché avrei potuto giocare al fianco di campioni del calibro di Oliver Hutton e Tom Becker. E ancora adesso sono convinta che questa squadra valga qualcosa solo grazie alla loro presenza. L’amicizia e l’intesa che c’è tra di loro sta alla base della loro forza e della loro determinazione. E se per te i sentimenti davvero non sono importanti, allora… beh, mi dispiace, ma non sarai mai nessuno. Addio, Benjiamin Price”.

Detto questo, Kristine aprì e richiuse la porta, scendendo nel corridoio che portava agli spogliatoi.

Price, ancora immobile, aveva la fronte imperlata da gocce di sudore. La decisione e la violenza con cui Kristian gli aveva detto quello che pensava l’aveva lasciato letteralmente senza parole. Non si sarebbe aspettato neanche lontanamente una simile reazione, e quella spietata sentenza aveva indubbiamente prodotto qualcosa in lui.

Quelle frasi, così simili a quelle di Becker.

Quelle maledette parole alle quali aveva cercato di non pensare per tutto il giorno.

Le persone come te non sono capaci di cambiare.

Si scosse, e sollevando gli occhi fissò uno dei fari accesi sopra il campo. Sorrise tristemente. Alla fine, la situazione si era ribaltata. Grover gli aveva restituito ogni parola, ma la differenza stava proprio nel fatto che tutto quello che Kris gli aveva detto era vero, dannatamente vero, mentre le sue crudeli recite erano sempre state solo penose mascherate.

Non era però mai arrivato agli estremi di quelle sere. E non aveva nemmeno mai creduto di essere in grado di diventare così.

E Tom, questo, non lo sapeva.

Sia Becker che Grover non sapevano che si era odiato, dio solo sa quante volte.

Ma aveva fatto finta di nulla e sempre, guardandosi allo specchio, aveva provato a convincersi di stare osservando il solito Benji. Un Benji che sapeva quello che faceva, quello che voleva.

Sì, aveva fatto finta di nulla… perché quello che era successo quella notte, quando Kris si era ubriacato, l’aveva costretto a commettere tutto ciò che aveva fatto subire a Grover.

Non aveva potuto farne a meno. Per difendersi.

Stai certo che continuando così rimarrai di nuovo solo, proprio come lo eri allora.

Lo sapeva. Dannazione, lo sapeva. Era stato più forte di lui.

Invece di parlare…

Invece di chiarire…

Aveva preferito crearsi uno scudo, per far guarire il suo orgoglio offeso.

E per dimenticare.

Quella notte, quando Kris mi ha toccato, mi sono sentito… attratto da lui.

E non posso negare che… che ancora adesso lo sono, ma… non riesco a capirne… il perché.

Ripensando a quelle parole, Benji si portò una mano sul viso, coprendosi gli occhi.

Era stata quella l’unica, vera ragione per tutto quanto.

Cosa aveva iniziato a provare, da quel momento, per Kristian?

Cosa?!

Grover era un ragazzo, è vero, ma c’era qualcosa nel suo atteggiamento, nel suo sguardo e nel suo modo di fare che lo attraeva. Lo attraeva in modo incredibile, innaturale per lui. Non poteva negarlo, anche dopo aver cercato mille volte di dimenticare quella sensazione. E poi, quando quella sera Kris lo aveva abbracciato… quando aveva sentito sul proprio corpo il tocco di quelle sue mani dalle lunghe dita pallide e affilate non sapeva più, esattamente, cosa avesse provato o pensato...

Una sola cosa gli era però stata chiara. E cioè che non sarebbe più riuscito a togliersi dalla testa quel contatto.

No, era assurdo. Lo era tutto quanto. Di sicuro non gli piacevano i maschi, ma… ecco, per Kris era differente. Era sempre stato differente, anche prima di quella notte. L’aveva capito solo più tardi, ma lo era sempre stato. Sempre.

Tornò con la mente al loro prima incontro.

Mi chiamo Kris Grover, e ho 17 anni.

I suoi occhi limpidi, la sua voce sicura, il suo corpo sottile.

Ecco, usa questi.

La fiducia che gli aveva dato.

Sei sicuro che posso usarli? In fondo, per te, devono essere importanti…

Quante volte ci aveva ripensato. Quante.

Sospirò. Comunque, aveva davvero esagerato. E come gli aveva detto Tom, non poteva nemmeno essere totalmente certo che Grover, quella notte, avesse agito con lucidità. In fondo era ubriaco, e magari non si stava rendendo conto di quello che stava facendo, di quello che stava dicendo…

Benji sollevò lo sguardo al cielo notturno. Non avrebbe dovuto giudicare subito Kris, anche se adesso il problema non riguardava più soltanto lui, ma soprattutto se stesso. Voleva assolutamente capire il perché delle sensazioni che aveva provato e che continuava a provare in presenza di Kris. Non aveva mai avuto alcun interesse per il sesso maschile, e allora… allora perché? Perché provava quella confusione?

Aveva come l’impressione che qualcosa gli fosse sfuggito.

Qualcosa di incomprensibile, nascosto proprio in Kristian Grover.

Iniziò a soffiare una corrente gelida, ed il portiere della New Team, con un altro sospiro, si tolse il cappello.

Avrebbe parlato con Kristian, si sarebbe scusato. Avrebbe fatto tutto ciò che avrebbe dovuto fare fin dall’inizio e forse, una volta per tutte, sarebbe riuscito a chiarire tutti i suoi dubbi.

E, infine, avrebbe chiesto a Kris di restare.

 

 

Nel frattempo, nello spogliatoio, la ragazza aveva appena sbattuto violentemente la porta del proprio armadietto.

“Perché… gli ho detto quelle cose?”.

La sua voce risuonò nella stanza, producendo un piccolo eco. “E poi, quello schiaffo…”.

Si coprì il viso con una mano, pentita, appoggiandosi all’armadietto con l’altra.

“Anche se non ce la facevo più… forse ho esagerato”. Sospirò, passandosi le dita tra i capelli.  “Ma purtroppo ora non posso più cambiar nulla. Ormai non m’importa più di sapere la verità sul comportamento di Benji. Anche se lo scoprissi, e cercassi di far tornare le cose come un tempo, lui mi odierebbe comunque dopo quelle mie parole orribili… ”.

Si guardò il palmo, e lo chiuse a pugno.

Forse sono arrivata davvero alla fine.

Scosse la testa. Portò il dorso della mano sulla guancia, e si asciugò una lacrima di rimorso che le era appena scesa sul viso.

“Già… è finita. E’ proprio finita. Non mi farò più vedere dalla New Team… e non saluterò nessuno, nemmeno…”.

Si bloccò.

“… nemmeno… Tom”.

La ragazza pronunciò il nome del giocatore ad alta voce, volgendo tristemente lo sguardo verso il suo armadietto, poco lontano dal proprio. Si avvicinò, e sfiorando con le dita la targhetta col su il nome del numero undici sorrise dolcemente.

“Grazie di tutto… mi mancherai, ma non voglio più crearti problemi. E anche per te sarà meglio se mi dimenticherai”.

Rimase un attimo ferma, gli occhi fissi su quel nome stampato che aveva contato e contava per lei più di quanto immaginasse. Poi, lentamente, iniziò a cambiarsi, consapevole che quella sarebbe stata l’ultima volta che avrebbe lasciato le sue vesti di portiere in quello spogliatoio.

Iniziò ad indossare la camicia. Quando impersonava Kristian si era sempre dovuta vestire con felpe abbondanti e di qualche taglia più grande per nascondere le sue curve femminili, nonostante utilizzasse comunque la fasciatura al petto. Ma, adesso, questo non sarebbe stato più necessario. Stava per ritornare per sempre solo Kristine. Solo lei, e più nessun altro.

Proprio in quel momento, però, sentì girare la maniglia della porta dello spogliatoio. Si irrigidì, coprendosi istintivamente davanti con le braccia. La camicia era infatti ancora slacciata.

L’anta si aprì, e qualcuno entrò. Kris udì alcuni passi, che poco dopo si arrestarono.

Si chiese chi potesse essere, ma non provò nemmeno a girarsi, né finì di allacciare la camicia. Non ci riusciva. Immobile, non si voltò. Sapeva che la persona misteriosa era adesso dietro di lei, distante solo pochi metri, ma la paura di essere scoperta l’aveva inchiodata davanti al proprio armadietto.

Cosa… cosa poteva fare?

“Dobbiamo parlare, Kristian. E’ importante”.

Era la voce di Benji.

“Non ero in me in queste settimane. E non avrei mai voluto ridurti così, credimi”. Una pausa. “Ma avevo… le mie ragioni”.

Kris trattenne il respiro.

“No, questo non deve succedere. Non deve”.

Chiuse gli occhi.

“Vattene…”, sussurrò, a denti stretti. “Vattene, Benji, prima che tutto si rovini davvero… ”.

Ma il ragazzo non l’aveva sentita.

“… Kris?”.

Lei non si mosse.

“VATTENE”, ripeté, a voce più alta.

A quel comando, Price fece invece un passo in avanti.

“Lo so, anche tu adesso hai… mille ragioni per non volermi più vedere, ma ci sono delle cose che devi assolutamente sapere… e altre, che ti devo chiedere. Quindi… ”.

“Fermati… n-non avvicinarti di più!”.

Kris si strinse ancora di più nelle braccia, e Benji, stupito, la fissò.

“E perché non dovrei? Avanti, girati e parliamone… adesso sei tu che non mi vuoi parlare guardandomi negli occhi. Di cosa hai paura? Forse…”. L’espressione del ragazzo si fece sospettosa.

“…forse mi stai nascondendo qualcosa?”.

L’altra spalancò gli occhi, nervosissima.

“… no… cosa… cosa ti dovrei nascondere?”, rispose, la voce tremante. “Voglio solo… che mi lasci in pace!”.

Price rimase in silenzio per qualche istante. Kristine pensò che, alla fine, avesse deciso di rinunciare a parlare. Invece, all’improvviso, si diresse velocemente verso di lei, afferrandole la spalla.

Kris trasalì.

“Son venuto qui per spiegarti tutto… a chiederti scusa dopo che te ne sei andato mollandomi quello… quello schiaffo, e adesso, proprio tu che fino a poco fa mi pregavi di capirti, non vuoi parlare?! C’è qualcosa di strano in te, Kristian… che cos’è che non mi hai detto? Rispondimi, maledizione… e almeno, se non vuoi parlare, girati! Forse ti vergogni a cambiarti di fronte ad un altro ragazzo?”.

Benji strattonò violentemente la spalla di Kristine, cercando di farla voltare. Lei tentò di opporsi con tutte le sue energie, ma il portiere le afferrò il collo della camicia, tirandolo con forza.

Tirò, e dopo tutti gli errori che aveva commesso, quella fu l’ultima cosa che avrebbe dovuto fare.

Ci fu uno strappo, poi il silenzio.

Trascorsero alcuni secondi prima che Price si rendesse conto della realtà dei fatti. Davanti a lui Kris, sconvolta, era in piedi, le braccia incrociate sul petto nel tentativo di nascondere le bende sotto la camicia, ora mezza lacera.

Il ragazzo la fissò, shockato.

Così… era questo il segreto di Kris. Kris… Kristian, era una ragazza.

Una ragazza.

Ora… era tutto chiaro.

Dio santo, come… come aveva…

“Tu…”, cercò di dire.

Kris alzò lo sguardo, gli occhi lucidi.

“Mi dispiace, Benji… io… i-io non potevo dirtelo… cerca di capire… non… mi avreste mai fatto giocare… e questo era il mio sogno…”, mormorò, sull’orlo del pianto.

Lui strinse i pugni.

“Tu… tu mi hai ingannato… ci hai ingannato per tutto questo tempo…”. Puntò gli occhi per terra, cercando di contenere la rabbia. “Come… come hai potuto farlo? Volevi… prenderti gioco di ME? Cosa volevi dimostrare, eh? Dimmelo!”, gridò, avanzando di colpo di un passo e tornando a fissare la ragazza.

Lei sobbalzò indietreggiando, e si coprì il volto con le mani. Era disperata.

“No! Io non volevo prenderti in giro… io… io volevo solo…”, balbettò, mentre le lacrime le iniziavano a scendere lungo le guance. “…volevo…”. Ma la voce le morì in gola.

Ad un tratto, però, dopo un momento di pesante silenzio, il rumore della porta dello spogliatoio che sbatteva attirò l’attenzione di entrambi. Tom Becker era lì, vicino alla fila degli armadietti, e guardava addolorato Kris.

“Tom! Che ci fai qui?”, lo aggredì Benji.

Il compagno non gli rispose, fulminandolo, in compenso, con una severa occhiata. Poi lentamente si avvicinò a Kristine, ancora tremante. La ragazza lo guardò attraverso il velo opaco delle lacrime.

“Oh, Tom… ”, sussurrò.

Lui si tolse velocemente la giacca della tuta, mettendogliela sulle spalle nude.

“E’ tutto a posto… sta’ tranquilla. Ora ci sono qui io”, le mormorò con dolcezza. “E’ tutto a posto, Kristine”. La abbracciò, e lei si abbandonò al numero undici lasciandosi stringere senza opporre resistenza.

Price, di fronte a loro, aveva intanto osservato la scena allibito.

“Cosa? Kristine?”, ripeté il portiere, marcando il nome della ragazza. “E tu, Tom… tu lo sapevi? L’ hai sempre saputo e non mi…”. Deglutì.  “… non… ci hai mai detto niente?”.

Becker fissò, duro, il compagno di squadra.

“E’ stata lei a pregarmi di non dire nulla, e per la verità ho pensato anch’io che, alla fine, fosse la cosa migliore da fare. Kris non voleva rovinare l’amicizia che era nata con te, con gli altri. Inoltre, se vi avesse detto chi era veramente, non avrebbe più avuto la possibilità di giocare nella New Team. Io ho scoperto il suo segreto per caso, ma non l’ ho accusata di nulla. Anzi, ho compreso il motivo del suo gesto, e l’ ho sostenuta. Sappiamo tutti e due cosa significa avere un sogno, non è vero Price?”.

Fece una pausa, sperando che l’altro capisse, ma inutilmente. L’SGGK si limitò infatti a fissare sia lui che Grover con ancor più astio, e Becker scosse piano la testa.

“Anche tu dovresti capirla, e non prendertela come stai facendo ora”.

“Capirla? SOSTENERLA?”. Benji allargò le braccia, incredulo. “Tom, questa ragazza ci ha INGANNATI!”, sentenziò, puntando l’indice contro Kris, che, ancora, aveva il viso nascosto nel petto del calciatore. “Si è unita illegalmente alla squadra! E’ una donna, e non può giocare con noi! Se lo sapesse la Federazione, il signor Parson…”.

Ma l’altro lo interruppe, senza nemmeno far caso alle sue ultime parole.

“Mi dispiace davvero che la pensi così. Kris ti ha sempre ammirato. Per lei, tu sei sempre stato un modello da seguire. Possiede il talento e la volontà per diventare un grande portiere, e tutto ciò che sai dire è… ”.

“No, basta. Vi prego”.

Becker venne invece fermato dalla stessa Kris che, liberatasi dall’abbraccio rassicurante dell’amico, si mise fra i due ragazzi. “Non voglio che voi due litighiate. In fondo Benji ha ragione, Tom. Vi ho ingannati. Non merito più la vostra fiducia, né quella della squadra”.

Chiuse gli occhi per un lungo istante.

“Quindi, vi prego… lasciate stare. Me ne andrò”.

Detto questo, Grover spostò lo sguardo verso Tom. Sorrise, anche se con molta amarezza.

“Grazie per tutto quello che hai fatto per me. Non me lo dimenticherò mai, stanne certo. E poi… ”.

Non riuscì però a terminare la frase, perché Becker le prese le mani, stringendole. La guardò negli occhi.

“Non se ne parla, Kris. Tu non te ne andrai. La New Team ha bisogno di te, ci serve il tuo aiuto per vincere il campionato. Sono sicuro che tutti saranno d’accordo con me. Anche se sei una ragazza, vedrai che spiegando loro le cose capiranno…”.

Lei gli sorrise ancora, questa volta dolcemente, per poi stringergli le mani a sua volta.

“Grazie, ma… ”. Si intristì. “… ma non penso che Benji sia dello stesso parere”.

Ci fu un attimo di silenzio e Price, che aveva ascoltato la conversazione senza intervenire, rimase un attimo con la testa girata, gli occhi fissi sul muro.

Né Kris, né Tom riuscirono a capire quali pensieri gli fossero passati per la mente in quell’istante, ma pochi secondi dopo il ragazzo si voltò, iniziando a camminare verso l’uscita dello spogliatoio.

“No. Per me va bene”, disse con voce incolore, voltato di spalle rispetto ai due. “Ma non diremo nulla ad agli altri. Il clima della squadra si potrebbe rovinare. Meglio aspettare la fine del campionato”.

Il portiere sganciò dalla cintura a cui l’aveva fissato il cappello che aveva tolto poco prima in campo, e se lo rimise in testa, abbassandolo sulla fronte.

“In ogni caso”, precisò, prima di afferrare la maniglia, “quello che hai fatto, Grover, non ha la mia approvazione”.

Aprì la porta, ed in tono gelido aggiunse le ultime parole.

“E non l’avrà mai”.

Grover e Becker osservarono Benji uscire sbattendo la porta. I suoi passi risuonarono per un po’ in corridoio, poi la calma tornò a regnare nella stanza.

“Price…”, riuscì solo a dire Tom. “… ora… ora lo sa anche lui”.

Kris spostò lo sguardo indietro, nel punto in cui, un attimo prima, c’era stato Price.

“Ma perché… è dovuta finire così?”, mormorò.

Il numero undici, fermo dietro di lei, la osservò senza sapere che risponderle. In quel momento non poteva fare niente per alleviare il suo dolore. Niente.

Perché Becker ormai sapeva.

Sapeva cosa c’era nel cuore di Kristine Grover.

E Benjiamin Price, adesso, vi aveva lasciato una ferita profonda, forse impossibile da cancellare.

Impossibile da guarire.

La ragazza si strinse nelle braccia, mordendosi il labbro inferiore. Chiuse gli occhi, ed un’unica lacrima scese a rigarle il volto abbassato.

“Anche se potrò ancora giocare, il mio sogno è finito qui. E non tornerà più”.

 

 

NOTE

 

Weh ^_^ Sono Leia!! Volevo solo dire una cosuccia su questo capitolo, e più precisamente sul titolo. Credo renda bene l’idea che volevo dare con la parte finale del 18, e con il termine della prima parte in generale. Però è anche vero che molto altro si concentra nel capitolo… la rabbia, la tristezza, la solitudine, l’impotenza di fronte agli eventi, l’incontrollabilità della parte irrazionale di noi. Ho riunito un sacco di cose in queste ultime pagine, forse anche un po’ troppe, ed è per questo che, in teoria, sarebbero potuti andar bene un altro paio di titoli. Un po’ mi dispiace di non averli potuti usare!! Uffa!! ;_; basta, volevo solo dire questo… :P quindi siate comprensivi, fatemi felice e piangete la morte prematura degli altri titoli con me. BUUHHH!!! (quanto sono scema…)

  
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