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Autore: Some kind of sociopath    19/11/2014    3 recensioni
Anno 1769: Haytham E. Kenway, dopo il suicidio dell'amico Jim Holden e la morte della sorella Jenny è tornato a Boston alla ricerca di Tiio. Lei è sopravvissuta all'incendio del villaggio, nonostante il figlio non lo sappia, e Haytham ha intenzione di ricucire la sua famiglia, quella che non è riuscito ad avere nella propria gioventù. Ma non ha messo in conto gli altri Templari, il suo vecchio Gran Maestro Reginald Birch e la piccola e fastidiosissima Confraternita degli Assassini...
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Il testo dei primi due capitoli è stato rivisto e modificato. Mi farebbe piacere sapere che cosa ne pensate al riguardo e quale "versione" preferite, ;)
 
Genere: Avventura | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Achille Davenport, Altro personaggio, Connor Kenway, Haytham Kenway
Note: What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Spoiler!
Capitoli:
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– Ottantasei. 
Dopo circa tre giorni, avevamo raggiunto la Martinica. Prima di attraccare avevo informato Connor del mio piano. Sarebbe sbarcato lui, poiché io non avevo e non volevo avere nulla a che fare con questa patetica storia dei rifornimenti, e avrebbe detto che Benjamin Church in persona gli aveva chiesto di portare le casse su un'isola meno facile da raggiungere. Povero Church, il grande chirurgo ed eccelso traditore dell'Esercito Continentale perito tanto brutalmente in uno scontro con una nave pirata. Il suo cadavere era ormai in pasto ai pesci – non credo sarei riuscito a dormire bene con la polpa del cranio di Ben sotto il naso per il resto del viaggio –, ma almeno avevamo il suo assassino. Un certo Perez, che era senza dubbio meglio consegnare all'infallibile giustizia britannica. Onore e gloria al Re e bla, bla, bla, dunque. Servire la patria è sempre un piacere.
Pensavo che, per una volta, Connor avesse compreso quel semplicissimo piano senza troppe difficoltà. Invece, mentre il carico dei rifornimenti proseguiva, il ragazzo era piombato in cabina, da me e Tom, esclamando quel numero. 
– Ottantasei – ripeté. Che persona noiosa, se non stava al centro dell'attenzione per un paio di secondi rischiava il suicidio. 
Thomas sollevò il boccale di birra scura davanti a sé con un cenno stizzito. – Veramente sono quindici a dodici per me, bastardo. – Continuava a fissarmi, gli occhi stretti a lanciarmi lampi di sfida.
Lasciai correre con indifferenza, carezzando il mio boccale come avrei potuto fare con una puttana. – Secondo me bari.
Roteò gli occhi. – Oh, certo, baro sempre io – brontolò Tom.  
Mio figlio di schiarì la voce e quando mi voltai a guardarlo, nonostante lo vedessi un po' appannato, nemmeno due boccali di birra avrebbero potuto distrarmi dalla sua espressione corrucciata, fredda e dura, come fosse scolpita su un blocco di pietra. Oh, Gesù, quel ragazzo non aveva davvero idea di cosa fosse il divertimento. – Gara di rutti – gli spiegai con un sorrisetto. – Non credo tu possa capire. – Un altro rutto mi uscì trionfalmente di bocca, il gusto della birra a riempirmi le guance come il fumo di una pipa, dannoso e ricostituente al tempo stesso. – Finalmente! – sbottai, facendo cozzare il boccale con quello di Tom. – E sono tredici.
Thomas arricciò le labbra, come fosse disgustato. E pensare che stava vincendo. – Allora, bastardo, vuoi unirti a noi? – Teneva le mani giunte sotto il mento come una ragazzina civettuola, immagine che Connor ovviamente ignorò. Come faceva? Come poteva andare avanti se restava concentrato sempre e soltanto sulla sua maledetta causa? Non l’avevo mai visto distrarsi, mai cercare la compagnia di qualcuno che non fosse parte della guerra stessa. Non era un ragazzo come gli altri, d’accordo, e non lo ero stato nemmeno io. Cercavo di riscattarmi. Con il sarcasmo, le battutine, gli uomini impiccati e le gare di rutti. Nella vita si fa così.
– No – replicò, i palmi aperti davanti al viso. Tom roteò l’indice alla tempia con un sorrisetto. Sì, Connor forse non era del tutto normale. Annuii, poi tornai a schiacciarmi lo stomaco con il dorso della mano. Forza. Dovevo rimontare. – Ci sono solo ottantasei casse. Erano disposte in tre file. – Tese il braccio verso la porta della cabina, come fossimo troppo stupidi per capire. – Due di qua, un corridoio nel centro e una dall’altra parte. – Mi rivolse un’occhiata perplessa prima di incrociare le braccia sul petto. Andiamo, papà, sgrida il ragazzino che mi ha spinto nel fango!, sembrava dire. Certo. Certo. – Ottantasei non è un multiplo di tre.
Thomas sollevò gli occhi. – E, sentiamo, bastardo, quanto credi che me ne freghi da uno a dieci? – Unì pollice e indice in un cerchio perfetto. – Zero. Un multiplo di tre.
Connor sbuffò. – Zero non è un multiplo di tre. E non sta nemmeno tra uno e dieci.
– Ah, certo che è un multiplo di tre. Lo è per tutti numeri. – Mi esposi con sicurezza, essendo l’unico a quel tavolo con un precettore in età infantile.
– Sentito? – Tom tracannò altra birra. – Il capo ha sempre ragione.
Pensai che Connor non avrebbe mai potuto odiarmi di più. – Non è di questo che volevo parlare. Manca una cassa, come minimo. Le ho sistemate nella stiva, c’è proprio un buco. – A dire il vero non capivo dove volesse arrivare. – Che cosa dirò a Washington?
Aggrottai la fronte. – Che le hai trovate così. La verità. – Sollevai il boccale mezzo vuoto in un muto brindisi alla sua. Forse bere un po’ lo avrebbe distratto da Washington, dall’esercito. Da tutta quella maledetta storia.
– Credi che sia così facile? – I suoi occhi lanciavano dardi brucianti. Be’, sì. Che c’era di complicato? Bastava portare quelle ottantasei magnifiche casse al cospetto di George, inchinarsi fino a leccargli gli stivali e andarsene con i nostri migliori saluti. Come bere un bicchiere di birra e perdere una gara di rutti contro Thomas Hickey. – Da quelle casse dipende l’esito della guerra, Haytham. Ognuna può decretare la sopravvivenza dei patrioti! Di decine di patrioti! Una sola perduta e…
Sporsi il labbro inferiore. – Scusa per non aver compreso immediatamente l’enormità di questo dramma, ragazzo. Mi spiace tanto. Se aspetti cinque minuti, solo che la birra faccia effetto, eh, forse cagherò una cassa piena di coperte in quell’angolo. – Gli diedi una pacca sul braccio, i muscoli gonfi sotto la stoffa pesante della tunica da Assassino. – Abbi un po’ di fede.
Mio figlio sospirò ancora. – Non scherzare.
Mi hai mai visto più serio? – Che dici? Io non scherzo mai. – Un rutto mi uscì spontaneamente dalle labbra, lasciando Tom spiazzato. Connor abbassò lo sguardo, sicuramente pensando che ero un caso disperato. Oh, be’. Quattordici a quindici, quantomeno.
Erano soddisfazioni. – Lascia perdere.
– Certo che lascio perdere! – esclamai mentre mi voltava le spalle. – E dovresti farlo anche tu. Da quando siamo partiti non hai fatto che preoccuparti per Washington. Un Templare è morto. Sveglia! Dovresti essere felicissimo, brindare, ringraziarmi, quantomeno. Non ti sei nemmeno dovuto sporcare le mani, grazie al tuo adorabile paparino. – Scrollai la testa. – Complimenti. Questa sì che è gratitudine.
– Dovrei esserti grato per aver ucciso un uomo? – Il tono tradiva la sua rabbia. Lo disgustavo. Sai che novità.
– A dire il vero, sì! Sembri sempre così disperato all’idea di porre fine alla vita di qualcuno! – Ricordavo la sua assurda scenata nel mezzo della frontiera. Gli Assassini di norma non provavano piacere nella morte delle loro vittime. Non poteva avercela con me solo perché gli avevo impedito di sentire le ultime poetiche parole di Benjamin. Non era corretto. – Dimenticavo, forse Church avrebbe saputo dove trovare la tua ottantasettesima cassa, così Washington sarebbe felice e i patrioti vivrebbero mezza giornata in più!
Mi guardava con la mascella serrata e i pugni stretti. Come se non sapessi quello che stavo dicendo. – Vuoi sapere la verità, Connor? È una guerra, hai sentito? Guerra! La gente muore ogni giorno, e non è certo una coperta a salvarla, o un pezzo di carne secca. Non c’è niente da fare! Continueranno a morire finché non finirà, sempre che succeda. Per quanto sia nobile il tuo intento, aiutare non ha mai posto fine alle uccisioni. Ti rendi conto di quello che stai facendo? – Avevo il fiatone, ma al tempo stesso non riuscivo a smettere di parlare. Dovevo aprirgli gli occhi. Non sapeva niente di ciò che accadeva davvero su un campo di battaglia. – Con le tue azioni così carine e gentili stai ammazzando decine di giubbe rosse. Innocenti, persone come me e te. Che colpa hanno? Sono arruolati nell’esercito sbagliato, e allora? Tu stai collaborando alla loro dipartita. Era questo ciò che volevi, Connor? Forse non hai bene idea di che cosa significhi vincere una guerra. Apri bene le orecchie, ragazzo. – Balzai il piedi e la sedia cadde a gambe all’aria dietro di me. Non importava. Sollevai l’indice, sventolandolo davanti al suo viso. – Si vince soltanto in due casi. Quando l’esercito avversario è così sfornito da essere costretto alla ritirata, e questo è il primo, o quando sono tutti morti. – Allargai le braccia. Adesso basta. – Scegli tu. – Eroe di ‘sto cazzo. – Vediamo come ti sentirai a posto con la coscienza davanti a tutte le donne delle Colonie rimaste vedove, tutti i ragazzini rimasti orfani. Preparati a consolarli, e non dimenticare un bel discorso. Non so, qualcosa del genere “Mi spiace che tuo padre sia morto, ma, ehi, stava nel Britannico. È stata colpa sua. Ucciderlo non è stato bello, no. Condoglianze, a proposito”.
Rimasi a guardarlo in silenzio per qualche attimo, mentre assimilava le mia parole con il corpo teso all’indietro, rigido e pronto a scattare come una fionda. Potevo restare in quella posizione per tutto il giorno, i pugni chiusi e la mascella contratta. Mi facevano male i palmi. Dovevo averci affondato le unghie nella foga del mio discorso. Maledizione. Volevo che capisse. Non era stato in guerra, non sapeva come andavano le cose. Fingeva di essere una persona matura, di quelle che disprezzavano la causa bellica e ci era dentro per forza di cose. Invece no. La gente moriva da entrambe le parti, cazzo. Per lui c’erano soltanto i patrioti.
E, non so, forse per merito del mio passato tra le giubbe rosse, ma l’odiavo con tutto me stesso per questo.
Ero pronto anche a picchiarlo, se fosse stato necessario.
Poi Tom era scoppiato a ridere, il capo chinato indietro e una mano all’inguine. Se la stava facendo addosso. Prese persino ad applaudire calorosamente, lacrime divertite ad appesantire gli angoli dei suoi occhi. – Finalmente! – sbottò. – Oh, sì, Kenway, sì! – Si asciugò le lacrime con l’indice, sorridendo spensierato. – Sai da quanto aspettavo qualcosa del genere? Hai illuminato la mia giornata, cazzo.
No, non ci credo. Più della gara di rutti? – Davvero, sei… – Scrollò la testa come un cavallo. – I miei complimenti. Davvero.
Tom s’incamminò verso il ponte, ma riuscivo ancora a scorgere la sua sagoma dondolante oltre le spalle di Connor. Continuava a ridere. – Scegli tu. La gente muore, cazzo! – Dovetti mordermi le labbra per non permettere a quel sorriso di sfuggirmi. Mi faceva il verso. Oh, Thomas Hickey. – “Scusa, papà, non è colpa mia se sono un coglione!” “Ah, di certo non hai preso da me!” Cristo santo…
Diciamo che sì, facevo progressi sul fronte del buon padre.    
Ridacchiai. Gesù, non poteva… Pensavo di essere io quello con il senso dell’umorismo, ma Tom era capace di rendere ridicola qualsiasi situazione. Qualunque, davvero. Dall’impiccagione di un uomo a quella stupida ramanzina che volevo fare a mio figlio. – Be’ – esclamai con le braccia aperte, – spero che tu abbia capito.
Connor abbassò lo sguardo. – Devo portare tutto a Valley Forge – sussurrò. – Verrai con me?
Che onore. – Oh, no, non vorrei coglierlo di sorpresa. Dagli almeno il tempo di preparare la forca. – Tornai a sedermi. Avevo già fatto abbastanza.
– Voglio che glielo dici.
Cosa? Avevo capito bene? – Vieni all’accampamento e parlagli come hai parlato a me. – Reclinò il capo e prese un respiro profondo. Oddio. Era… Una vittoria. Una vera vittoria, non come sconfiggere Tom a una gara di rutti. Mi stava dando ragione. Voleva che parlassi con il suo idolo.
Oh, mio Dio. – Hai ragione. Non so niente della guerra, ma lui sì. Digli di fermarsi. Che è tutto sbagliato. Basta trovare un’altra soluzione. – Usando la diplomazia, magari. No. Non era nello stile di Washington. – Gli riporterò queste cose e poi… ne esco. – Davvero, non riuscivo a credere a quello che stava dicendo. Mio figlio, che ammirava George Washington come fosse Dio, aveva davvero intenzione di lasciare perdere la sua causa?
Andiamo, lo conoscevo. In quel momento pensai che, davanti all’ennesima richiesta di aiuto del Continentale, si sarebbe inginocchiato come una puttana e sarebbe tornato dietro ai cannoni. Così andava, nella sua testa. – Lascerai che il Continentale combatta? – sussurrai, poco convinto. – Senza fare niente?
Si strinse nelle spalle. – No. Voglio convincerlo che sta sbagliando. – Quale nobile intento. Come poteva essere così illuso? Mi misi una mano sulla bocca per non scoppiare a ridere davanti a lui. – Non cerco l’onore in battaglia, né la guerra – grugnì. Davvero? Oh, e io che pensavo ci fosse portato. Così obbediente, così flessibile, così fisicamente preparato. Per favore. Quello non avrebbe distinto la propria testa da una palla di cannone. – Gliene parleremo. Cercheremo una soluzione con il Re, con i comandanti britannici. – Annuii. Se ne era convinto lui…
Scostai la mano dal viso, lasciando trapelare un sorrisetto. – E se non ci riusciamo?
– Ci riusciremo – brontolò, le mani strette l’una nell’altra. – Vedrai. Washington mi ascolterà.
Scrollai il capo. – Washington non ascolta nessuno. – E men che meno ascolterà me. – Connor, tua madre lo ha quasi ammazzato. Io l’ho quasi ammazzato. Non mi darà retta. – Presi fiato, cercando le parole giuste. La verità era che mio figlio mi dava sui nervi. Perché non riusciva soltanto a lasciar perdere? Consegnava le casse piene a Washington e poi se ne andava senza una parola. Faccenda chiusa. No. Lui doveva provare a convincere le persone, anche se erano casi disperati come il comandante in capo. – Credimi, per una volta.
Strinse i pugni. Non sopportavo il suo stupido desiderio di voler sempre cambiare il mondo. – Lo scopriremo a Valley Forge – sussurrò mentre mi voltava le spalle, pronto per tornarsene al timone, a scrutare noi comuni mortali dall’alto della sua magnificenza. Come se essere un Assassino lo rendesse diverso da me, da Tom o da qualunque figlio di puttana marciasse sulla terra.
Abbassai gli occhi sui miei stessi calzoni. Dunque si tornava sulla terraferma, dove potevo fare tre passi senza che il terreno mi ondeggiasse sotto i piedi. Lo stesso terreno devastato dalle bombe e dalle marce degli eserciti che George Washington osservava con un sorriso sbilenco. Sapeva di essere sull’orlo del collasso o, come mio figlio, era talmente stupido da ignorare quel dettaglio?
Su, in fondo che poteva essere di così grave? Una ritirata in più. Un altro pezzo di terra ceduto, una città che tornava sotto la calda e confortevole ala di Sua Maestà. Per lui non era niente, finché teneva il culo al sicuro dentro la sua stupida tenda. Non aveva la più pallida idea di cosa significasse davvero.
La fame, la povertà, le famiglie distrutte.
L’incendio. Credeva che qualche ubriacone stesse giocando con una scatola di fiammiferi davanti a Fort George, forse?
Schifoso figlio di puttana.
Oh, sì, un faccia a faccia con il comandante in capo dell’Esercito dopo aver tentato per due volte di farlo fuori. Proprio il sogno della mia vita, direi. Niente da aggiungere.
Il tossire rauco di Tom, intento a rigettare la birra mandata giù quella mattina – alla faccia della gara di rutti – arrivò alle mie orecchie attraverso la porta aperta della cabina. Sospirai.
D’istinto allungai una mano verso il suo boccale e ne mandai giù la metà restante in un colpo solo. Dovevo schiarirmi le idee. Quello che stava combinando mio figlio era un gran casino. Portarmi dritto davanti a quel bastardo… Che cosa gli saltava in testa?
Avevo la netta impressione che non ne sarei uscito vivo. Non quella volta. Me lo sentivo nello stomaco, un presagio. La spada di Damocle sospesa sulla mia testa e pronta a trapassarmi da parte a parte come un panetto di burro.
Ero sopravvissuto a due impiccagioni, innumerevoli attentati, battaglie con gli Assassini, con guardie di svariate città e schiere di soldati senza nome. Alla morte di mio padre. A Jenny, mia madre, Holden, Tiio e gli altri.
Tutto per essere ucciso come un idiota da George Washington. Gettandomi tra le sue braccia come una verginella solo perché Connor voleva così.
Il pensiero era talmente ridicolo da mandarmi fuori di testa.
Lasciai cadere mollemente il cranio, la fronte tenuta nel palmo. Strizzai gli occhi. Che razza di fine.
Stavo per sbuffare di nuovo, quando un rutto più forte dei precedenti mi scosse dalla testa ai piedi, facendomi sussultare.
Quindici a quindici.
– Porca troia! – Mi voltai verso l’uscio. Potevo scorgere Thomas accasciato contro il parapetto, il fiato grosso e una mano premuta sulle labbra per trattenere nel corpo quel poco che gli restava.
Poverino. Ormai eravamo tutti abituati a quel dannato dondolio, tutti tranne lui.
Battei le palpebre,focalizzando per un secondo.
Aveva... Aveva vomitato.
Da quando il nobile sport della gara di rutti era stato portato tra i gentiluomini, c’erano sempre state due fondamentali regole.
Numero uno, barare era da maledetti e disonorevoli figli di puttana.
Secondo, solo le peggiori donnicciole finivano per vomitare.
In silenzio, rimasto solo nella cabina in penombra, scoppiai a ridere tra me e me, la testa che sussultava dolcemente nelle mie mani.
Forse Washington avrebbe ordinato di spararmi a vista. Forse di lì a qualche giorno sarei morto.
Cristo, volete mettere la soddisfazione di andare all’Inferno sapendo di aver sconfitto Thomas Hickey – Thomas Hickey – in una gara di quel calibro?
Ne valeva la pena, no?
 
Tenemmo la rotta con la Welcome fino a Philadelphia, in un viaggio di ritorno decisamente più noioso dell'andata. Non c'era molto da discutere, e se prima odiavo aprire la bocca, sapendo che le conversazioni sarebbero sempre cadute su Benjamin, ora non l'aprivo proprio, nel cieco terrore che Thomas si mettesse a parlare di Reginald. 
Non avevo ancora assunto la piena consapevolezza di esserci arrivato. Tutti gli altri erano morti, corpi senza vita trascinati negli abissi dalle nostre battaglie. O, quando le cose andavano davvero male, da Connor. Il fatto era che uccidere Ben mi aveva fatto sentire bene, quasi come quando avevo fatto fuori William Johnson. Per vincere una guerra devi avere un esercito organizzato, e l'unico modo per ottenerlo è la disciplina. Se mi toccava liberarmi dei frutti marci per ammazzare Reginald, lo avrei fatto. 
Frutti marci. Dio. Una volta erano miei amici, fratelli che mi avevano aiutato a raggiungere uno scopo comune. Perché Birch doveva sempre rovinare tutto? Prima la mia famiglia, poi i Templari, e dopo chissà cos'altro. Dovevo fermarlo. Non solo per una questione di orgoglio. 
Probabilmente era anche la mia unica possibilità di porre fine a quella storia con una mente ancora funzionante, prima che i Precursori me la fottessero del tutto. – Hai già pensato a come lo farai? 
Buttai con noncuranza una carta sul tavolo tra di noi, sbuffando un po'. Il poker era diventata la nostra migliore occupazione, dato che parlare con Connor di quanto George Washington fosse carino mentre io lo consideravo niente più che un sacco di merda mi avrebbe fatto letteralmente impazzire. – Di che parli? – Ah, inutile. Lo sapevo benissimo. 
– Ammazzare Reginald. Userai la lama celata, no? – La voce di Tom non era mai stata così seria, probabilmente nemmeno quando mi aveva confessato le sue grandi debolezze davanti agli omicidi. Vecchi fatti che lentamente scappavano dalla mia testa, pezzi di un rompicapo che prima o poi si sarebbe riempito di buchi.
Aggrottai la fronte, studiando le carte rimaste nella mia mano. – Perché dovrei usare la lama celata? – Non ci avevo ancora pensato, a essere sincero. Cercavo di evitarlo. La mia testa andava più verso Charles. Avevo una gran paura. E se fossi arrivato troppo tardi per riportarlo dalla mia parte? O, peggio, se Reginald l'avesse già ucciso? No. Quel bastardo avrebbe aspettato, per farlo fuori davanti ai miei occhi. 
E io non potevo permettere che accadesse. – Per la storia di tuo padre. – Trasalii quando gettò un jack sul tavolo, ma le carte non c'entravano proprio niente. – Orgoglio di famiglia o che cazzo ne so io. 
Schioccai la lingua. Omicidio teatrale. Proprio un affare da Thomas, quello che impiccava file di uomini per estorcere informazioni. Già. – Se fosse così dovrei lasciare che lo faccia il ragazzo. – Scagliai una carta qualsiasi in mezzo a noi. – Colpire con un Assassino per vendicarne un altro. 
– Ma la soddisfazione dove sarebbe? – disse Tom, un gran sorriso aperto sul volto, e mi resi conto che aveva ragione. Proprio io, che da giovane lagnavo di non aver mai tratto piacere dall'omicidio di qualcuno, avevo voluto occuparmi personalmente di Ben. E la stessa cosa valeva per Reginald. Lasciare che Connor se ne occupasse era fuori discussione.
Ero io quello che ne aveva subite di più da parte di Birch. Dunque dovevo essere io a riscuotere il conto, con tutti i fottuti interessi che c'erano di mezzo. Dovevo essere io a godere della sua fine, imprimendola con le mie stesse mani. – Mi ritiro. – Abbassai le carte sul tavolo con un sibilo, alzandomi per raggiungere il ponte. Avevo bisogno d'aria. 
– Quindi ho vinto io! – Tom era felice come un bambino, un grosso sorriso aperto in faccia.
– I miei complimenti.
– Ehi, capo, lo sai che mi devi un giro di whiskey quando arriviamo giù, vero? – Si alzò e mi prese per un braccio, tutto contento della sua grande vittoria.
Grugnii, conscio del fatto che solo tra disperati si scommette dell'alcool. Disperati e ubriaconi. – Tutto quello che vuoi – replicai. A volte mi piaceva parlare con Thomas, ma pensavo che in quel periodo mi sarei sentito meglio se fosse rimasto in silenzio, muto, a lasciarmi riflettere. 
Era tutto così incasinato. Avevo ucciso Benjamin, e ora l'unica cosa che mi mancava per sconfiggere Reginald era la Mela. Ma potevo fidarmi di mio figlio? Giunone poteva avergli detto qualsiasi cosa. E se avesse rivalutato il suo compito, certo che ci fosse un motivo se la Prima Civilizzazione non voleva il Tempio nelle nostre mani? No. Andiamo. Connor poteva essere uno stronzo egoista – e chissà da chi aveva preso –, ma non credevo fosse furbo al punto da sfruttarmi per anni e non concedermi, alla fine, ciò che bramavo con tutto me stesso. – Thomas – brontolai mentre varcavo la soglia della cabina, – pensi mai che il ragazzo potrebbe farmi arrivare davanti a Birch e negarmi il Frutto dell'Eden? 
Mi seguì con una mano sullo stomaco, prevedendo che cosa sarebbe successo di lì a poco. Stringeva i denti, cercando la terraferma oltre le vele chiuse e ciondolanti dell'Aquila. – Non credo abbia mai pensato una cosa del genere. – Poggiò i gomiti al parapetto e mi scoccò un'occhiata d'intesa. – Immagino sia troppo preso a immaginare l’espressione di Washington quando gli infilerà il cazzo dove dico io. 
Non riuscii a trattenere un sorrisino mentre guardavo Connor, sopra di noi come una figura divina. Incredibile. Quando stava al timone sembrava estraniarsi dal mondo, ma senza alcuna soddisfazione. Era solo terribilmente concentrato, e guardandolo lì, sul cassero di poppa, con quell'espressione seria e quasi minatoria, mi chiesi se avesse una passione, nella vita. Se qualcosa gli avesse mai acceso una scintilla nel petto. Se ci fosse stata una qualsiasi cosa, da quando era nato, che gli piacesse fare davvero. Non solo perché qualcuno gliel'aveva ordinato. 
Thomas aveva le donne e il vino. Io... be', non lo so, di preciso. Mi piaceva bere, mi piaceva navigare. Più di qualsiasi altra cosa, amavo perdermi in ciò che pensavo. Nella mia stessa vita. Non voglio fare il supponente, ma immagino che poche persone potessero vantare un'esistenza più... travagliata. Sì, quello era il termine corretto. 
E Connor? Sembrava facesse ogni cosa solo perché gli toccava. Non aveva ancora rischiato la vita e ammazzato a sufficienza per cogliere la bellezza delle piccole cose. Lui puntava in alto. La libertà. 
Razza di idiota. – Manca molto? – gridai nella sua direzione, il tricorno sollevato in cenno di saluto. Era riuscito a gestire la nave fino alla Martinica, e di lì a Philadelphia, praticamente tutto da solo. Oh. Che ragazzo in gamba. Ci mancava solo che dovessi controllarlo ogni cinque minuti. Era un uomo, almeno anagraficamente. 
Pff. Vane illusioni, le mie. – Dovremmo esserci – grugnì lui in risposta. 
– Fammi capire, bastardo, dov'è che stiamo andando? – Ecco, un'altra passione di Tom che condividevo pienamente era prenderlo per il culo. Mi rendeva felice. Fiero di me. 
Connor sbuffò. – A Philadelphia. E da lì a Valley Forge. 
Tom sputò in mare. – E non potevamo andare direttamente a New York e consegnare questa roba alla flotta di Georgie?
Uh. A essere onesto non ci avevo pensato nemmeno io. Non sapevo cosa fosse più divertente, se scoprire i risvolti quasi geniali di Thomas o vedere quale scusa avrebbe campato in aria Connor questa volta. – La Marina Continentale ha tutto ciò che serve. Sono le truppe sulla terra a essere sfornite. – Oh, certo. Erano informazioni che chiunque, dopo due mesi passati in mare, avrebbe potuto ricevere facilmente. E se la situazione si fosse capovolta, nel frattempo? Figuriamoci. – E poi devo parlare con Washington. Gli inglesi stanno marciando sulla città, presentarsi al porto ci avrebbe procurato un'impiccagione. 
– O l'ovazione! – Tom sollevò le braccia sopra la testa con un gran sorriso. – Pensaci. Potevamo infiltrarci nel Britannico e fingere di consegnare la roba.
Mio figlio roteò gli occhi, poco convinto. – E poi come la riprendevamo? 
Intervenni. Ci mancava solo che si scannassero. – Con l'aiuto della tua eccezionale retorica, mi pare ovvio. – Connor decise di non rispondermi. Nell'ultimo periodo lo faceva sempre più spesso. Come se fingere di non sentire le mie battutine lo aiutasse a trovare buone ragioni per convincere il suo stupido villaggio ad aiutarmi. 
Che c'è? Mi avevano mozzato un dito e dovevo pure essere bendisposto? – Non farò marcia indietro solo perché voi...
– Sveglia, è una fottuta nave. – Tom gli diede le spalle, voltandosi a guardare il mare sempre più grigio man mano che ci avvicinavamo alla città, alla costa. Alla civiltà. 
Non mi era affatto mancata, se devo essere onesto. – Non puoi mica fare marcia indietro. – Nella civiltà c’erano i Mohawk, i rivoluzionari e i lealisti, c’erano gli ultimi Templari rimasti e c’erano i Figli della Libertà. Non ne avevo bisogno. Sulla Welcome, in mezzo all’Oceano, avevo tutto ciò che poteva essermi utile: alcool, il mare, la compagnia di Tom e quella di Connor quando la vita si faceva veramente troppo noiosa. La terraferma, il posto schifoso in cui inglesi e inglesi – perché quello eravamo, niente di più – combattevano senza sosta per qualcosa di inesistente, poteva benissimo fottermi. Io stavo da Dio lì.
E l’idea di rivedere Washington in faccia mi dava il voltastomaco. Ecco cos’altro c’era di orribile in mezzo alla civiltà. Il comandante in capo dell’Esercito Continentale. – Chiudi il becco, Hickey. – Assurdo. Quel pretesto, l’unico che spingeva Connor a continuare il viaggio, mi faceva sentire male soltanto al pensiero. Non c’entrava niente l’essere un Templare o un Assassino. Mio figlio amava Washington per ciò che rappresentava, ignorando completamente chi fosse.
Era quello il motivo per cui io e lui non ci saremmo mai capiti. Ogni dannata persona può vivere di principi che sembrano giusti, le differenza sta in come vengono applicati. I Templari, secondo loro, avevano un fine giusto e metodi sbagliati, ma George Washington, che in nome della libertà bruciava il suo villaggio e quasi ammazzava sua madre, veniva considerato un dio.
Vaffanculo. Quella logica mi faceva incazzare più di qualsiasi altra cosa.
Tom sventolò il medio verso Connor. – Fottiti, bastardo. Non prendo ordini da te. – Sbuffai.
Nemmeno una scenetta del genere mi avrebbe sollevato il morale. – Non rischiamo di farci ammazzare saltellando davanti al Continentale come agnellini? – L’idea di essere ammazzato da Washington mi faceva ancora più ribrezzo dello stesso comandante. Se dovevo morire, per carità, almeno che non fosse lui a farmi secco.
– Garantisco io. Non vi farà niente. – La voce di mio figlio trasudava frustrazione. Non sembrava affatto deciso. Insomma, quello non era il suo classico tono supponente, quello che usava sempre, fin da quando era solo un ragazzino, convinto che qualunque cosa gli avessero inculcato in testa gli Assassini o gli anziani del suo villaggio fosse una verità assoluta.
Soltanto che, ops!, Achille non aveva più intenzione di suggerirgli passo per passo la retta via, e probabilmente non ricordava nemmeno come si parlasse la lingua dei Mohawk. Poteva contare solo su se stesso.
Come me. Mi scappò un sorrisetto ripensando a quanto Thomas mi aveva detto dopo la morte di Ben Church. –  Ne sei sicuro? Mi piacerebbe avere ancora la testa sul collo quando ucciderò Reginald.
Tom mi diede di gomito. – Porca puttana, capo, perché parliamo sempre e soltanto di ammazzare gente? – Aveva la fronte aggrottata in un’espressione curiosa. – Dico sul serio. Che so, non abbiamo altri argomenti di conversazione?
– Con te si può solo giocare a chi ce l’ha più lungo. – Presi un respiro. Aveva ragione, ma ci eravamo scelti quella vita. E poi, lo ammetto, parlare di morte non mi dispiaceva così tanto.
Erano le scelte a mettermi ansia. – D’accordo. Quand’è stata l’ultima volta che sei andato a teatro?
– Va’ a farti fottere col tuo bastardo – ghignò in risposta. – Scommetto che sareste una bella coppietta.
Se ne è convinto lui. – Certo, Tom. Sei tu quello che scoperebbe anche con questa nave.
Sollevò un sopracciglio. – Ha un non so che di affascinante.
– Così affusolata, leggiadra… Ah, non ci sono più tante donzelle così.
– Non prendermi per il culo.
Sospirai. – Allora facciamo un gioco. Io nomino un animale e tu mi dici in che modo l’ammazzeresti. Puoi partecipare anche tu, ragazzo! Siamo aperti a tutti gli sfidanti.
Emise uno sbuffo rumoroso. Già. Tutto quel tempo in mare insieme cominciava a diventare troppo. Per me lo era diventato subito dopo la morte di Faulkner, quando le attività disponibili sulla nave erano discutere con Connor o discutere con Tom. Merda. – Piantatela di fare gli idioti e prendete la passerella, piuttosto. – Scese dal cassero, afferrando una grossa cima abbandonata a terra. – Attracchiamo.
Philadelphia. Ci ero stato solo un’altra volta, sempre per mare, e non era stata proprio la migliore delle esperienze. Pregai soltanto di andarmene il più in fretta possibile da quella fogna colorata con le pallide tinte della libertà.
Nient’altro che idiozie.  – Come? – Tom gli mollò una pacca sulla schiena più simile a uno schiaffo. – Tu non eri quello che fa tutto da solo?
Il ragazzo grugnì in risposta, lanciando i capi della lunga corda verso il molo. Philadelphia era una città dall'apparenza florida e ordinata, la capitale per eccellenza dei patrioti. Fatto era che l'Esercito Continentale non avesse bisogno di quella terra, e New York fosse mille volte più utile. Già solo perché si trovava nelle mani degli inglesi. – Lascialo perdere, Tom. – Pareva quasi fosse lui mio figlio. Incredibile come alla fine andassero le cose, ma Connor non aveva mai mostrato di aver bisogno di me. Aveva Achille, aveva avuto Faulkner, e gli restava sempre la sua malsana convinzione di essere dalla parte giusta. Valeva più di un Templare cinico che gli remava sempre contro, immagino. 
– A un cervo sparerei. – Tom si passò una mano sullo stomaco. Da quando non buttavamo giù un pasto decente, con vera carne e vero vino? 
Più o meno dal nostro arrivo alla French. Persino l'odore di pesce che si respirava ai moli pareva invitante. Presi fiato, l'acquolina che mi annegava la lingua in bocca. – E per i buchi? – Connor s'intromise con la solita aria da esperto. – Devi piazzare una trappola vicino a ciò che mangia. Poi aspetti. 
– Ora come ora me lo mangerei anche vivo, un cervo. – Si passò la lingua sulle labbra e la schioccò. Incredibile come Tom sembrasse un pervertito in ogni cosa che faceva. – Ma non dirlo alla tua gente, eh! Non vorrei mai che decidessero di mozzarmi la lingua. – Mi guardò dritto in faccia e scoppiò a ridere, col rischio di cadere oltre il parapetto, nelle acque grigie del porto. 
Non mi divertiva affatto. – Piantala – brontolai mentre gli tiravo uno scappellotto sulla nuca. Era anche colpa sua se non riuscivo più a essere sereno. Il potere di una buona squadra è sempre stato nella collaborazione. Da quando avevo ucciso Ben non facevo altro che pensare a quanto sbagliato potesse essere tutto ciò che facevo. Tutto ciò che avrei fatto. Essere il Gran Maestro comportava un peso bastardo che forse non volevo, ma dovevo pur pagarlo se volevo estirpare il marcio dall'Ordine. Ecco perché Reginald mi aveva mandato nelle Colonie mentre lui si crogiolava tranquillamente – almeno all'inizio – in Francia. Per scaricare su di me i suoi oneri.
Solo che allora era diverso. La squadra funzionava, io credevo ancora che Reginald mi avesse salvato dopo quella notte di dicembre, impedendomi di restare solo a fare la balia di mia madre, ed eravamo tutti più concentrati sulla causa. Ma eravamo solo uomini. Nonostante tutto, non sarei mai arrivato a pensare di finire così. – Porca puttana, Haytham. – Mi voltai di scatto verso Tom, sbattendo le palpebre. – Senti, lo so quello che ti ho detto, eh, ma non puoi andare ad ammazzare Birch con quest'atteggiamento del cazzo.
– Ti sbagli – replicai, le mani serrate l'una nell'altra, – è l'unico modo che ho per preparare una buona offensiva. 
– Sei troppo ansioso. – Ci credo, Thomas non era mai stato agitato per qualcosa in vita sua. Aveva sempre tutto sotto controllo, e se non era così, be', che importava? Un sorso di whiskey rimetteva in piedi l'ordine naturale delle cose. – Dovresti rilassarti, finché non siamo sicuri di avere la Mela. 
Scrollai la testa. – Rilassarmi? – Un sorriso fece capolino sul mio viso. – Sono a un passo dal vendicarmi per sempre di quel bastardo. Non ho intenzione di rovinare tutto solo perché tu hai bisogno di un compagno di giochi. 
– Io lo dicevo per te. – Dalla sua voce cominciava a trapelare un certo nervosismo. – Non puoi darmi la colpa per qualcosa che dovresti fare comunque, capo.
– Non ti sto dando nessuna cazzo di colpa. – La testa. Mi sentivo come se stesse per saltare in aria. – Sto solo prendendo le cose sul serio, maledizione! – Bum. Un moncone sanguinante e una nuvola di fumo dove prima c'era il mio viso. – Hai una vaga idea di tutto quello che Reginald mi ha fatto? Sai come ci si sente quando scopri che l'unica persona di cui ti sei sempre fidato è un figlio di puttana, un grandissimo figlio di puttana? Non posso perdere tempo a giocare perché so benissimo che lui è più forte di me. E non ti sto incolpando, perdio! Cerco solo di far andare le cose nel maledetto verso giusto. Dopo tutti questi anni passati a fuggire, a cercare un modo per risolvere tutto quanto... Non esiste, Tom! Non c'è niente di tutto questo! L'unico modo che ho per porre fine a questa storia è ucciderlo io stesso, e che possa morire in questo momento se non farò tutto quanto è necessario per riuscirci. – Gli occhi e la gola mi bruciavano, ma proseguii. – Per tutto questo tempo, da quando avete cercato di impiccarmi, dopo il mio ritorno, non ho fatto altro che fingere. Fingere di essere felice, di trovare motivi per andare avanti, essere cattivo e ridere un po'. Ho finto per paura di crollare. Ma adesso le cose sono cambiate, Tom. Ho bisogno di vedere il mondo e la vita per quello che sono, per quanto maledetto male possano fare. E non perché mi diverta farlo. È solo l'unico modo che ho per uscirne vivo, capisci? Dimostrare che quello giusto sono io. Che sono un Templare migliore di lui.
Mi voltai con lo sguardo basso, verso l'oceano, e tirai su col naso. Ah, diavolo, stavo piangendo. Che umiliazione. E allo stesso tempo sentivo gli occhi di Tom guardarmi in modo diverso. Con pietà e comprensione, ma anche stranito. Che lo facesse. Non me ne importava. – Scusami – sussurrai, asciugandomi le lacrime con il dorso della mano. Il mio cuore non voleva saperne di rallentare. Avevo sempre cercato di essere sarcastico, nella vita. Trarre ciò che dello schifo era divertente e viverne, ma era solo un altro modo offuscato di vedere le cose. Lo schifo, il marcio e la feccia alla fine erano sempre lì.
– Per cosa, capo? – Tom sembrava seriamente perplesso. 
– Per... – Mi sfuggì un singhiozzo. – Per qualsiasi cosa. Perché forse meriti di meglio. 
Sbuffò. – Mi sembra di parlare con una puttana. – Fece uno dei suoi sorrisi e si grattò l'uccello, guardando Connor che roteava una cima nell'aria. – Non farti tutti 'sti problemi, capo. Hai ragione. Mentiamo per andare avanti. – Colpì la mia spalla con una pacca. – Non c'è niente di male, finché sappiamo che è così. 
Gli lanciai un'occhiata triste e presi fiato. – Dovrebbero fare te Gran Maestro. 
– Nah. Non fa per me. Non avrei più tempo per scopare. – Schioccò la lingua, abbassando la voce in un sibilo confidenziale. – E poi non avrebbe senso. Non sono io quello che Reginald si è inculato, no? 
Mi diede un'altra pacca e mi lasciò lì, con gli occhi sgranati. Connor, con l'aiuto di un qualche marinaio caritatevole, stava ormeggiando la Welcome. Strizzai le palpebre. Avevo capito dove Tom voleva andare a parare. L'unico che avevo sempre – o così pareva – indicato come mio successore era Charles. Ovvero il solo altro uomo del gruppo con cui Reginald si divertiva a giocare. Era un'ironia bastarda, degna di Thomas Hickey. 
Forse aveva ragione. Era troppo forte per essere un Gran Maestro. Troppo sicuro di sé. Però era tutto ciò di cui avevo bisogno quando si trattava di amici. – Andate a prendere le casse – strillò Connor. Eccolo, un altro incapace di fare il capo. – Si sbarca. 
La mia gioia era impossibile da misurare. Maledizione. 
Scesi sottocoperta con la scusa di portare su una cassa o due. Mi appoggiai alla pila di rifornimenti, una mano sulla bocca e le gambe che faticavano a reggermi. Piansi ancora, singhiozzando come un bambino. Piansi fino a essere sicuro di non avere più nulla da versare. E poi di nuovo. Piangevo perché avevo paura. Perché potevo fallire e non volevo accadesse, perché mi mancava mio padre e il tempo in cui eravamo una famiglia felice. Piansi per tutto ciò che non andava nella mia vita, per la paura di morire, perché non avevo più la forza necessaria a mostrarmi battagliero.
E, soprattutto, piansi fino allo sfinimento perché mi toccava trovarla. 
– Capo? Va tutto bene? – Mi trovò lì, dieci minuti dopo, a vomitare in una delle botti di rum destinate al Continentale. 
Un sorriso mi attraversò il volto mentre chiudevo la botte, un filo di saliva acida che ancora mi colava dal mento. – Un regalino a George Washington da parte mia. – Aveva ragione Tom. Fingevamo per andare avanti. E dovevo essere disposto a continuare la farsa.
Scoppiò a ridere e mi diede una gomitata nelle costole, sollevando la botte. – Un brindisi alla sua ascesa, allora – disse con una risatina. 
E alla mia, sperando in bene. 
Washington non mi avrebbe buttato giù. Non gliel'avrei permesso. Né a lui, né a nessun altro. 
Mai più. 
  
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