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Autore: corrienonfermarti    19/11/2014    0 recensioni
A volte la vita ti mette di fronte a situazioni disperate, situazioni in cui pensiamo non ci saremmo trovati mai. E' lì che ci rendiamo conto di aver bisogno di alcune certezze, fondamentali, giusto per tentare di rimanere in equilibrio. E' lì che io ho bisogno degli occhi di mio padre.
--- Storia partecipante al contest "I miei luoghi oscuri" di graceavery sul forum di Efp ---
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Storia partecipante al concorso "I miei luoghi oscuri" di graceavery indetto sul forum di Efp.

Nome utente sul forum e su efp:
corrienonfermarti
Titolo della storia: "Gli occhi di mio padre"
Introduzione: "A volte la vita ti mette di fronte a situazioni disperate, situazioni in cui pensiamo non ci saremmo trovati mai. E' lì che ci rendiamo conto di aver bisogno di alcune certezze, fondamentali, giusto per tentare di rimanere in equilibrio. E' lì che io ho bisogno degli occhi di mio padre". 
Rating: Giallo
Genere: Introspettivo

 
Gli occhi di mio padre
 
Where do I find the words to say?
How do I teach him?
What do we play?
Bit by bit, I’ve realized
That’s when I need them
When I look in my father’s eyes
(Eric Clapton, My father’s eyes)
 
Guardo ancora questa foto. Un semplice pezzo di carta plastificata e stampato a colori può avere tanto significato? Può farti venire le lacrime agli occhi e il groppo in gola, anche se ti ripeti per l’ennesima volta di non piangere? Di essere forte, di continuare a sorridere e ad andare avanti, perché sì, la vita continua, nonostante tutto.
Guardo ancora questa foto, pa’, e mi chiedo come possa essere successo tutto questo, come la mia vita possa essere radicalmente cambiata nel giro di un paio di minuti. Quando questo momento è stato imprigionato per sempre nello scatto della macchina fotografica ero troppo piccola per rendermene conto. E adesso, all’alba dei diciassette anni, questa foto è ancora una delle mie preferite, nonostante guardarla mi crei un buco, o meglio: una voragine, nel bel mezzo del petto.
Sorridevi, guardandomi, tenendomi in braccio, anche io sorridevo guardando te, i tuoi occhi scuri e penetranti, tendendo le mie manine verso il tuo viso, mentre lo sfondo di un tramonto era dietro di noi.
Non riesco a staccare gli occhi da questa immagine e continuo a chiedermi, fissandola, come sia potuto succedere.
Quella mattina, quell’orribile mattina di ormai più di tre mesi fa, mi sono alzata e anche se volevo ignorarla non si poteva non avvertire l’atmosfera tesa che c’era in casa: la tensione, l’equilibrio precario della nostra famiglia era quasi palpabile. «Papà non sta più bene qui con noi». Sono bastate appena otto parole per distruggere quello in cui avevo sempre creduto, le mie fondamenta, quello che avevo pensato non sarebbe cambiato mai e poi mai.
E invece eccoci qua, dopo più di tre mesi, con una famiglia demolita e i cocci da raccogliere fra una lacrima e l’altra, con la promessa e la speranza di rialzarsi più forti di prima. Ma la verità è che non  so se ce la farò a rialzarmi, papà. Sai, in uno dei miei telefilm preferiti, una volta qualcuno ha detto: “chi inizia la frase con ‘la verità è che…’, è un bugiardo”. E’ vero e io, lo ammetto, sono una bugiarda.
Chiedimi se sto bene, se dormo, se mangio, se ho voglia di studiare… La risposta sarà sempre quella: un’alzata di spalle e un sorriso forzato. Non lo faccio apposta, è solo il mio modo di non crollare, fingere che sia tutto a posto e che non mi senta morire dentro secondo dopo secondo è solo un modo come un altro per continuare a trascinarmi avanti giorno per giorno. Questa è la verità: non sto andando avanti, pa’. Sono ancora ferma all’istante in cui hai aperto le ante dell’armadio e hai preso tutte le tue cose per metterle in macchina prima di andartene. Sono ferma a quel momento orribile, assassino, e non sto andando avanti. Mi trascino lentamente, strascicando i miei arti stanchi, nella speranza che di colpo mi torni la forza e la voglia di risollevarmi.
Come se stessi aspettando un miracolo dal cielo, ma tanto lo so che quel miracolo non succederà, non fin che me ne starò con le mani in mano. Eppure, nonostante io sappia ciò, mi è impossibile agire.
Perché non so come fare. Tutte le mie certezze sono crollate nel momento in cui ho scoperto che per tutti questi anni ho vissuto in una bella menzogna, limpida, di quelle che non ti accorgi che sono una bugia. Ci credi, ma quando ti scontri col vetro freddo della realtà fa male. I tuoi organi interni li senti spappolarsi, lo stomaco come se fosse stato messo in una centrifuga, il cuore risucchiato nei profondi meandri di un buco nero e ti senti come se non potessi più stare bene.
Ho vissuto in una bugia, credevo di avere una famiglia ed ero sicura che ce l’avrei avuta sempre, che non sarebbe mai potuto succedere nulla, che a me, a noi, non sarebbe mai successa una cosa del genere. E invece è proprio quando meno te lo aspetti, pa’, che la lama della realtà si abbatte su di te.
Sto cercando al mio meglio di recuperare i cocci, ma sappiamo entrambi che quando qualcosa si è rotto non tornerà più come prima: lo puoi riparare, puoi metterci della colla, o dello scotch, ma non tornerà più com’era. La crepa c’è. E ci resterà sempre.
Sai, non pensavo che l’avrei mai detto, ma questa crepa che ha reso tutto orribile mi ha solo dimostrato quanto tenessi a te. Non abbiamo mai avuto questo gran rapporto, negli ultimi anni si era solo leggermente affievolito il fatto che litigassimo spesso, anche per motivi così futili.
Però adesso che tu qua non ci sei più mi sento come se mi mancasse l’aria, come se i polmoni si potessero accartocciare su se stessi, come se stessi per esplodere, o meglio: per implodere. Non racconto mai nulla di me, penso tu questo lo sappia. Non riesco a parlare, a sfogarmi, a dire quello che mi opprime: è come se qualcosa bloccasse le parole nella mia gola, senza che abbiano nessun modo per uscire, se non quello di tornare da dove sono venute.
E restano lì, impigliate tra un respiro e l’altro, a rendermi la vita più complicata. A volte vorrei essere diversa, vorrei saper parlare di più, esprimermi e mostrare i miei sentimenti, forse così riuscirei a non sentire lo stomaco sempre sottosopra, un peso sul petto, un pensiero costante che martella le tempie peggio di un terribile e insopportabile mal di testa.
Ma sono fatta così, papà, e ci devo convivere. Devo convivere col fatto di non riuscire a dirti certe cose, come quanto mi manchi la tua presenza in casa. Ad essere sinceri, non è la tua assenza che fa male, quanto il ricordo della tua passata presenza. Durante i primi giorni la situazione era insostenibile, sembrava di vederti tra una stanza e l’altra, di sentire il tono allegro e allo stesso tempo pacato della tua voce, ma c’era solo un vasto silenzio, salvifico e assassino.
Ora le cose sono cambiate ed è subentrata l’abitudine: preparare la tavola solo per due persone, pranzare da sola, vederti dieci minuti di sfuggita nel tragitto tra la fermata dell’autobus e casa, dovermi arrangiare con le versioni di Greco e Latino senza poter venire di corsa nel tuo studio a pregarti, con gli occhi supplicanti, di aiutarmi a tradurre quella frase contorta di quel dannatissimo autore.  Dopo un po’ ti ci abitui, è questione, come per tutte le altre cose, di tempo.
Prima di andare e di rimettere tutte le fotografie, compresa questa, nella scatola da riporre in quel polveroso scaffale della libreria, volevo dirti un’ultima cosa: scusa se non ti ho mai mostrato quanto in realtà tenga a te.
Scusa se non ti ho mai detto “ti voglio bene”, se non ti ho mai abbracciato per il semplice gusto di farlo e se più di qualche volta ti ho risposto in modo sgarbato.
Ricordati che, anche se non te lo dico, soprattutto in questo periodo, ti voglio davvero tanto bene papà, nonostante tutto e tutti. E ricordati che, anche se ormai mi sono rassegnata all’attuale situazione, una piccola speranza brillerà per sempre dentro di me.
Con tanto affetto,
tua figlia. 
   
 
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