Fanfic su artisti musicali > 5 Seconds of Summer
Segui la storia  |       
Autore: daisyssins    20/11/2014    13 recensioni
"...Le sembrava quasi impossibile non dare “troppo peso” ad una persona come Luke Hemmings, perché certe persone, quando ti entrano dentro, non è che tu possa farci un granché. Lei lo odiava, non aveva mai odiato tanto una persona quanto lui, sapeva chi era, aveva paura di lui, una fottuta paura, perché le ricordava tutto quello da cui stava scappando."
__________
«Sei strana. E sei bellissima» sussurrò lui come se fosse la cosa più naturale del mondo, facendo scorrere le dita tra i capelli corti della ragazza.
Phillis sbottò in una breve risata sarcastica, prima di «E tu sei matto.» rispondere divertita.
«Io sarò anche matto, ma tu resti strana. E bellissima.»
-
«Luke, ho paura, stai perdendo sangue..»
«Ancora non te l'hanno insegnato, Phillis? Il sangue è il problema minore. E' questo ciò che succede quando cadi a pezzi.»
________
La verità ha un peso che non tutti, e non sempre, hanno la forza di reggere.
Trailer Pieces: https://www.youtube.com/watch?v=vDjiY7tFH8U&feature=youtu.be
Genere: Angst, Drammatico, Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Luke Hemmings, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Image and video hosting by TinyPic





Not fine at all.

Il nostro umore è come una scala cromatica.
Ad emozioni positive, come la felicità, la gioia, l’allegria, assegniamo colori forti, vivaci: rosso, giallo, verde, azzurro.
Per le sensazioni negative, invece, ci viene naturale pensare a colori cupi e smorti: nero per il dolore, per la tristezza, grigio per l’apatia.
Se Phillis avesse dovuto dare un colore al suo umore in quel momento, avrebbe detto di essere una via di mezzo, in bilico tra un colore acceso ed uno scuro. Perché aveva sempre quella strana sensazione addosso, la sensazione di chi sa che qualcosa sta per andare storto, ma comunque non sa cosa, quindi cerca di far finta di nulla e di ingoiare il nodo che stringe la gola, che non fa respirare bene.
Si era ritrovata quasi per caso con la mano unita a quella di Luke, che la sfiorava delicatamente, quasi pensasse che si sarebbe potuta rompere sotto una presa un po’ più forte. Camminavano e non dicevano niente, loro, che di parole ce ne erano state e anche troppe, ma a cosa servivano in quel momento, se a loro andava bene stare così? In silenzio, con tanti punti interrogativi, tante domande sospese tra loro per le quali ci sarebbe stato un momento. Ma non era quello. Ora, quello era il momento di fare finta che i problemi non esistessero.
Dopo alcuni minuti passati in silenzio, Luke fece una cosa che sorprese totalmente Phillis. Sciolse la presa dalla sua mano e le passò un braccio attorno alle spalle, avvicinandola quasi impercettibilmente a sé. Ghignò nel sentire la ragazza irrigidirsi.
"Hai paura?" le chiese, sempre con quel tono provocatorio capace di far perdere la pazienza a chiunque.
Phillis prese un respiro e “No” rispose. “O almeno, non di te” ammise quella piccola verità con una tale decisione che anche Luke ne fu sorpreso.
Abbassò il viso verso quello di Phillis, che anche se era alta non lo avrebbe mai raggiunto, e rimasero per un po’ così, a scrutarsi. Si guardavano dentro, quei due, ormai era un fatto personale: non avrebbero abbassato lo sguardo. Phillis pensò che avrebbe potuto andare avanti così per anni, con le iridi incastrate in quelle di Luke, e ad ogni sguardo ci avrebbe scovato qualcosa di diverso: dalla paura, alla rabbia, all’odio, la strafottenza, e in minima parte l’apatia, quell’apatia che – inconsciamente – entrambi temevano.
Poi, quando proprio lei cominciò a chiedersi se mai si sarebbe interrotto, quel contatto tra i loro occhi, Luke abbassò lo sguardo ridendo tra sé.
“Che hai da ridere?” sbuffò Phillis. Di solito era piuttosto brava a capire le persone; con Luke però questo suo talento non era mai servito a nulla, e la cosa la innervosiva non poco.
“Niente”. Si strinse nelle spalle Luke, con un sorrisetto angelico che sembrava essere una sfida aperta.
La ragazza ruotò gli occhi al cielo, innervosita ma decisa a lasciar cadere la questione, ché altrimenti si sarebbe potuto anche far notte.
Fu in quel momento che, però “Sei strana. E sei bellissima” sussurrò lui, come se fosse la cosa più naturale del mondo.
La ragazza sbottò in una risata sarcastica e “E tu sei matto” rispose divertita.
“Io sarò anche matto, ma tu resti strana. E bellissima” decretò lui perentorio, ponendo fine al discorso. Phillis scosse la testa ma non disse nulla, troppo impegnata a cercare di dare un senso alla confusione che aveva in mente. I pensieri si accavallavano tra di loro, insieme a scene degli anni passati, mescolate con altre di quegli ultimi giorni.
Perché lei e Luke non erano mai stati niente, neanche conoscenti, figuriamoci amici. Lei aveva sempre avuto paura, legata ad un ricordo che invece avrebbe fatto bene a lasciare andare, e lui si era lasciato accecare dai pregiudizi, guardando disgustato quella ragazza che, nella forma del viso e nel portamento, portava il marchio della persona che lo aveva reso il mostro che era. Quindi lei non avrebbe dovuto sentirsi così, nello stare vicino a Luke; non avrebbe dovuto neanche esserci, quella vicinanza, non aveva senso visto che fino a quel momento le loro interazioni si erano limitate a frasi provocatorie, litigi e discorsi che alla fine erano solo riusciti a creare ancora più confusione in lei.
Eppure, in quel momento e con il braccio di Luke ancora intorno alle spalle ad infonderle calore, pensò che proprio tanto poi non le dispiaceva. Che c’erano mille motivi per allontanarsi, ma lei ne avrebbe potuti trovare mille e uno per non muoversi di un millimetro.
“Sediamoci qui” asserì Luke dopo un po’, fermandosi.
Phillis si risvegliò dai propri pensieri e si guardò intorno. Erano al porto, riconosceva quella zona perché da bambina amava andarci con suo padre. A distanza di anni, ci tornava sempre quando aveva bisogno di fare chiarezza. Le sembrava quasi ironico il fatto che Luke avesse deciso di portarla proprio lì, in quel momento.
Lui fece come aveva detto, sedendosi a gambe incrociate sul cemento duro della banchina, e tirando accanto a sé anche lei.
Il posto era pressoché vuoto, a quell’ora. C’erano solo loro ed un’altra coppia di ragazzi, troppo impegnati a dichiararsi amore eterno per accorgersi della loro presenza scomoda. Lei aveva una massa di capelli ricci e informi, rosso fuoco; lui non si scorgeva bene, ma quando si scostò, pochi attimi dopo, Phillis poté vedere il suo viso. Spalancò gli occhi incredula, mentre riconosceva quel sorriso allegro, quegli occhi verdi incastonati in un viso perennemente abbronzato. Sentì chiaramente qualcosa che le si spezzava dentro, che scivolava via con un rumore sordo, lasciando vuoto uno spazio preciso. Lo spazio che fino a quel momento aveva occupato quel nome. Austin.
Non si rese conto di star piangendo fin quando non sentì il sapore salato delle lacrime sulle labbra screpolate, che sembravano fuoco, per come bruciavano.
“Luke, scusa, devo andare” scattò su la ragazza. Ignorò bellamente lo sguardo interrogativo del biondo, si rifiutò di incontrare ancora una volta i suoi occhi tempestosi. Semplicemente, si allontanò da quel posto correndo, sentendo di aver lasciato sé stessa in quel porto illuminato dal sole.


Continuò a camminare a testa bassa, e le lacrime non cercava più di frenarle. E chi se ne frega se lei odiava piangere perché la faceva sentire debole, in quel momento era l’unica cosa che le riusciva di fare, perché si sentiva male, ma male davvero. Pensò ai mesi interi passati ad aspettare, aspettare e sperare, che tanto Austin sarebbe tornato. Non l’aveva lasciata, lui, e mai lo avrebbe fatto: questo diceva. Sarebbe tornato presto, il tempo di mettere da parte i soldi per un biglietto. Un anno, massimo due, e si sarebbero rivisti. E lei pensava che sì, un anno è molto, troppo tempo, ma per Austin ce l’avrebbe fatta. Non voleva altro, le bastava sapere che nonostante tutto lui l’amava.
Erano stati insieme per quattro anni. Quattro fottutissimi anni, in cui le sue erano state le uniche labbra che l’avevano baciata, in cui i suoi sorrisi le avevano fatto capire cosa significava sentire le “farfalle nello stomaco”, in cui lei aveva creduto di avere il mondo in mano. Poteva fare tutto, se Austin era lì con lei.
E lui c’era stato. Per quattro anni c’era stato davvero, e avevano festeggiato mesiversari e eventi importanti insieme, per quattro anni erano stati una cosa sola. Poi c’era stato il trasferimento. Il padre di Austin aveva deciso di cambiare casa dopo la morte della moglie, e così erano andati via. A Los Angeles, lontano da Sydney. Lontano da lei. Avevano continuato a sentirsi per mesi, nonostante fosse difficile a causa del fuso orario: videochiamate, telefonate, sms. Qualsiasi cosa pur di restare in contatto.
Poi le videochiamate erano diminuite, così come le telefonate e gli sms, fino al momento in cui erano scomparse del tutto, e Phillis si era sentita sprofondare. Ma si era ripetuta che andava bene così, che con lo studio e la squadra di basket da portare avanti era ovvio che non riuscissero più a sentirsi come prima. Ma lei lo amava e avrebbe continuato a farlo, nonostante tutto.
Per questo, forse, adesso faceva così male. Perché aveva modellato la propria vita accanto alla sua, per quattro anni in cui ogni singolo attimo l’avevano vissuto insieme: e adesso si sentiva come se le fosse stata strappata brutalmente una parte di sé, bruciava, faceva male, e il vuoto che aveva lasciato era fin troppo presente. Quel vuoto urlava la sua mancanza. E l’eco di quell’urlo risuonava dentro di lei, dentro il suo cuore mutilato, costretto a separarsi, spezzandosi. Ma sarebbe andato bene anche così? Sarebbe bastato, un cuore a metà?
E intanto lei continuava a camminare, macinava metri su metri, incapace di fermarsi. Le persone probabilmente si sarebbero chieste cosa avesse da correre, quella ragazzina con l’aria da disperata, ma non gliene fregava.
Non le importava più di niente, adesso che era a pezzi, adesso che non mostrarsi debole era impossibile. E quel nome continuava ad occuparle la mente, “Austin”, quelle sei fottute lettere che sembravano graffiarla.
Si fermò dopo mezz’ora che camminava, su una panchina scrostata di un parco anonimo che probabilmente non aveva mai visitato. Si rannicchiò portando le gambe al petto per poi cingerle con le braccia, appoggiando il mento sulle ginocchia. E Austin era lì con lei, e i ricordi che con rammarico non avrebbe potuto lasciare andare si scomponevano dietro i suoi occhi chiusi, gabbia di tante lacrime che non riusciva più a fermare. Loro continuavano la loro corsa spietata sulle sue guance, imperterrite, andando a morire sulla stoffa scambiata del jeans, leggermente usurata sulle ginocchia.
Passò ore intere così, ferma su quella panchina.
Non avrebbe dovuto stare da sola, pensò.
Dopo l’episodio di poche ore prima, avrebbe dovuto avere paura.
E invece stare sola era proprio quello che voleva. Qualsiasi cosa le fosse successa in quel momento, l’avrebbe accettata passivamente, senza la forza di ribellarsi.
Le chiamate sul suo cellulare si susseguirono imperterrite; smettevano per qualche secondo al massimo, poi ricominciavano. Prese seriamente in considerazione l’idea di spegnere quell’aggeggio infernale, e l’avrebbe fatto, se la lista di chiamate perse non avesse attirato la sua attenzione in maniera così vistosa.
22 chiamate perse, di cui nove di sua madre, sette di suo padre, sei di Lucy.
Prese in considerazione solo queste ultime, e decise di cliccare “chiama”.
Quattro squilli, come al solito, poi la voce preoccupata dell’amica le perforò un timpano.
Maldicìon, Phillis, spero che tu abbia una scusa abbastanza convincente per cui non hai risposto alle mie chiamate, perché davvero, dire che sono arrabbiata è….”
“Lucy”. La voce di Phillis, ridotta ormai ad un sussurro, riuscì a fermare il fiume di parole della spagnola.
“Phillis, cos’hai?”
La bionda riuscì quasi a sorridere. Dopo tanti anni ancora non riusciva a capacitarsi di come Lucy riuscisse ad essere così empatica e volubile. Era passata dalla rabbia omicida alla preoccupazione in pochi attimi, nel percepire il dolore nascosto nella voce vibrante dell’amica, anche attraverso una sola parola.
“Austin” le rispose. E non servì altro perché Lucy capisse. Sospirò sonoramente, dispiaciuta.
“Cosa ha combinato stavolta?”. Stavolta. Era quello il punto: lei e Austin avevano litigato spesso per sciocchezze, litigi che però si erano risolti in ventiquattro ore massimo, per poi vederli tornare più uniti di prima. Il problema era che stavolta non era così semplice: stavolta non sarebbe tornato tutto come prima.
“Lui… è tornato. È tornato, e non ne sapevo niente. Avrei continuato a credere che fosse a Los Angeles, se non lo avessi incontrato oggi al porto… e non era solo”.
Bastò poco a Lucy per capire il vero significato di quell’ultima precisazione, e ancor più in fretta arrivò la sua imprecazione in spagnolo, come al solito quando era arrabbiata.
Hijo de puta! Phil, ascolta. Probabilmente io non posso capire come ti senti, ma una cosa la so: non devi stare da sola, non adesso. Adesso l’unica cosa di cui hai bisogno è distrarti… okay?”. Phillis annuì, anche se era consapevole che l’amica non l’avrebbe vista.
“Dove sei?”.
La ragazza si guardò intorno. Non lo sapeva, dove l’avevano portata i suoi passi. Era in un parco, che dava su dei campetti da calcio tenuti decisamente male.
“In un parco, credo sia abbastanza lontano da casa mia. È vicino a dei campetti da calcio rovinati”.
“Conosco la zona. Poi mi spiegherai come ci sei arrivata, dieci minuti e sono lì”.
La chiamata si interruppe così, e Phillis stavolta lo spense davvero, il cellulare. Non voleva che le persone la cercassero, non voleva vedere il nome di sua madre – o peggio, di suo padre – lampeggiare su quello schermo, perché sapeva che non sarebbe riuscita ad ignorarli. Ed ora, l’ultima cosa di cui aveva bisogno era di sentirsi urlare contro.
Con un sospiro, abbandonò la testa contro la panchina, il viso rivolto verso il cielo. Aveva cominciato a piovere, poche gocce leggere che però si infilavano ovunque facendoti rabbrividire fin dentro le ossa.
Phillis se le lasciò scorrere sul viso, con il desiderio che quelle gocce fini riuscissero a cancellare almeno un po’ quello che aveva dentro, lavando via – insieme al suo dolore – anche i ricordi dai quali non sarebbe mai potuta scappare, perché lei non stava bene per niente.




Hello people.
Ciao e scusatemi. Non lo so neanche io dove l'ho trovata, la forza di postare un capitolo così. Così deprimente, magari. Ma "così" è sufficiente a descriverlo. E' anche abbastanza lungo, spero non sia un problema. Scusatemi ma ho voluto incentrarlo soprattutto su Phillis, ne avevo bisogno, ché lei sono io e ciò che ho scritto l'ho vissuto in prima persona. Motivo per cui a questo capitolo ci tengo anche più del solito. Ho deciso di concluderlo - come avrete notato - con le parole di "Amnesia", perché non riuscivo a vedere conclusione migliore.
La smetto, ringrazio come sempre chi ha recensito: McPaola, xhimmelx, straightandfast, aliconsumate, S_V_A_G, ohwowlovely, _D r e a m e r, Letizia25, willbefearless. Ormai non so neanche più come ringraziarvi, giuro. Stasera risponderò a tutte! Ringrazio ancora chi segue, ricorda o preferisce questa storia, supportandomi silenziosamente.
Ora vado, però anche voi lettori silenziosi, fatevi sentire ogni tanto! :) Giuro che non mangio ahahah
Ci vediamo la settimana prossima, bye. x

 
Facebook: Daisyssins Efp
Twitter: @daisyssins
Trailer Pieces: Trailer "Pieces" - 5SoS FanFiction [ITA]



  
Leggi le 13 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Fanfic su artisti musicali > 5 Seconds of Summer / Vai alla pagina dell'autore: daisyssins