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Autore: Francine    21/11/2014    7 recensioni
Trema di Yggdrasill,
il frassino eretto,
geme l'antico albero,
lo jǫtunn è libero.
Tutti temono
sulla strada degli inferi,
che la stirpe di Surtr
li inghiotta.

(LJÓÐA EDDA - VǪLUSPÁ, La Profezia della Veggente, v 47)
Genere: Drammatico, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Quando piovono le stelle'
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2.
 
 
Hyoga aveva aperto gli occhi, ma il resto del suo corpo stava ancora avviluppato tra le calde braccia di Morfeo. Osservava il cielo – più chiaro ad Est, più fosco ad Ovest – mentre un refolo di aria frizzante gli solleticava la pelle. Non sarebbe durata. Hyoga aveva sentito quel formicolio serpeggiargli sul collo, come elettricità statica, e non si sarebbe fatto illusioni: avrebbe fatto molto, molto caldo.
 
Ho dato buca a Shun, pensò – realizzò – osservando le fronde degli alberi brillare di un verde pieno e soddisfatto. Si voltò verso la radiosveglia. Il quadrante segnava le sette in punto, e a quell’ora chissà dov’era andato a cacciarsi Shun, in quale angolo dello sconfinato parco di Kido Manor si era avventurato durante la sua ora mattutina di corsa, e l’idea di raggiungerlo – di andarlo a cercare – provocò in Hyoga una sensazione di fastidio.
 
Si stropicciò gli occhi, stiracchiò braccia e gambe e si diresse in bagno ciabattando. Si sciacquò il viso con l’acqua fredda, preparandosi alla giornata che l’avrebbe atteso. Quali erano gli impegni?
Nessuno, si rispose, sciacquando via il sapone. Nulla di che.
 
E se te ne tornassi in Siberia?
 
Hyoga non seppe dire come nacque quel pensiero, ma nacque. Venne fuori dal brodo di idee e concetti che si affastellavano e ribollivano sul fondo della sua coscienza intorpidita e rimase lì, a galleggiare in superficie.
 
Tornare a casa…
 
Gli sembrò un pensiero assurdo, fino a quando lo sguardo non gli cadde sulla cicatrice che lo Scarlet Needle di Milo gli aveva lasciato per ricordo.
 
Fai conto che tu ti sia preso delle… delle ferie? Ecco, sì. Un mese di ferie arretrate. Te le meriti, dopo tutto, questo leggeva nell’espressione del suo doppio.
 
Tornare in Siberia.
L’idea lo solleticò non poco. La situazione era sotto controllo: Poseidone era stato nuovamente soggiogato a metà Marzo e da allora Julian Solo aveva perso ogni ricordo del suo reame sotto i Sette Mari e della sua natura divina. Saga era solo un cupo ricordo, come l’ombra di un incubo che si dirada al risveglio. Era passato meno di un anno dai giorni della Guerra Galattica, ma gli sembrò che ne fossero passati dieci.
 
All’improvviso avvertì le spalle farsi pesanti. Stanche. Sì, doveva tornare a casa, solo per un po’. Magari fino al compleanno di Saori. Un mese, anche qualcosa di meno. Giusto il tempo di staccare la spina.
 
«E ferie siano!», concesse al suo riflesso con aria soddisfatta. Se avranno bisogno di me, sapranno dove venirmi a cercare, si disse abbandonando sul lavabo l’asciugamano. Dopo tutto, Shiryu non era partito per Goro-Oh due settimane prima?
 
Tornerà tra poco… e io sarò libero di starmene per i fatti miei per un po’, pensò tra una flessione e l’altra sulla moquette davanti al letto. E poi, in Siberia non è rimasto nessuno…
 
Si fermò al centesimo piegamento, corse sotto la doccia e lasciò che l’acqua pensasse al resto.  Avrebbe messo le sue cose nella sacca da viaggio. Un bagaglio leggero e l’Armatura, così da viaggiare con comodità. Poi sarebbe sceso a fare colazione, e più tardi avrebbe avvisato Saori della sua partenza. Era giovedì, e come ogni giovedì Saori avrebbe sellato il suo purosangue nero e si sarebbe persa in una di quelle galoppate che tanto preoccupavano Tatsumi. Non l’avrebbe incontrata prima delle dieci. Tanto valeva godersi la doccia.

 
A Shun piaceva correre di mattina presto, quando il sole creava un’intricata ragnatela di luce tra le fronde dei platani. Era quello il momento della giornata che preferiva, perché riusciva ad estraniarsi da tutto e tutti senza doversi preoccupare di stemperare il carattere di nessuno.
 
Correre assieme a Hyoga era come correre da soli. Il Cigno andava avanti – aveva il passo più veloce – e restava anche lui in silenzio, perso nei propri pensieri. Con Seiya, invece, era una chiacchiera continua, o, in alternativa, un’eterna competizione. «Vediamo chi è più veloce», oppure, «Chi arriva ultimo alla quercia abbattuta è un bradipo zoppo!», erano frasi che Seiya ripeteva con una frequenza quasi ossessiva.
 
Shiryu non amava correre,era parte dell’allenamento e poco più, mentre con Ikki si sentiva lui stesso in dovere di intavolare un discorso. Non era ancora riuscito a mitigare il senso di colpa causatogli dal fatto che il fratello avesse preso il suo posto. Si sentiva ancora responsabile per il peggiorare del suo carattere chiuso e scontroso, e cercava di coinvolgerlo in attività comuni. E poi, lui adorava Ikki.
«Ikki è speciale!», erano le tre parole che Shun usava per descrivere il fratello maggiore agli altri. Oh, negli anni era riuscito ad articolare un pensiero più complesso del trittico soggetto- copula - predicato nominale, ma il succo era sempre quello.
 Ikki è speciale.
 
Shun passò davanti a Kido Manor e osservò il sole. Era ancora presto. E sarebbe stato un delitto non godere di quell’aria fresca ancora un po’. Sorrise e partì per un altro giro di corsa. Avrebbe seguito il perimetro dell’edificio e poi svoltato a sinistra, per quel sentiero che andava infittendosi verso nord. Tatsumi ripeteva sempre che sarebbe stato il caso di diradare un poco gli alberi, per creare una passeggiata o qualcosa di simile. Meglio godersi quel lato del parco fin tanto che c’è.
 
 

Le porte si aprono scivolando silenziose sui cardini.
È bastata qualche goccia d’olio, pensa. Al Vecchio piaceva un certo gusto per il teatro. Linguaggio forbito – pomposo – e gesti misurati, una ritualità di azioni quasi liturgiche. E il piacere infantile di sbalordire i propri ospiti, sia che fossero visitatori – delegati, ambasciatori, messi – sia che fossero i propri subordinati.
 
La prima volta che l’Ipocrita vi ha messo piede è rimasto a bocca aperta, perso ad osservare quel lungo corridoio che non finiva mai, ma poi – alla sesta volta – ha capito il trucco. Il punto di fuga. La finestra alle spalle della scrivania del Sommo Sion – del Vecchio – è posta in alto. E le librerie di pesante e scuro legno di noce, zeppe di libri e pergamene e altra carta stipata e rilegata, abbracciano le pareti ai due lati dello stretto corridoio fino al soffitto, creando, di fatto, un budello che mette in cornice la scrivania del Sacerdote, un mastodonte di legno grosso quanto un altare.
 
All’Ipocrita piaceva osservare tutti quei libroni. Era curioso. Di leggerli. Di saperne di più su Athena e sul Santuario, perché l’Ipocrita era ipocrita, non era scemo. L’Ipocrita sapeva che al Sommo Sion piaceva centellinare le informazioni, lasciando il proprio auditorio con un’insoddisfatta curiosità che lo avrebbe portato a stargli accanto, ancora, pronto a cogliere altre preziose spiegazioni alle sue domande. E l’Ipocrita voleva sapere.
 
Perché erano rimasti in vita solo due dei precedenti Santi di Athena?
Com’era possibile?
Cos’era successo agli altri?
Sarebbe accaduto anche a loro?
E questa Athena, che tipo era?
 
Una povera fessa, se aveva deciso di reincarnarsi come una poppante ai piedi della sua stessa statua – sia mai che qualcuno possa confonderla con una neonata comune! – ma doveva aspettarsi altro? E se sì, cosa?

Perché se una cosa l’Ipocrita l’aveva imparata a furia di sentire il Vecchio cianciare era che gli dei sono parecchio permalosi. Suscettibili. Vendicativi. Non è razza con cui scherzare, quella che abita sulla cima dell’Olimpo. È gente da prendere sul serio. Specialmente se, come vuole fare lui, vuoi prenderla in giro. Ingannarla. E perché un inganno riesca bene, non devi forse conoscere a menadito la tua vittima?
 
Certo che sì.
 
Ecco perché lui, ogni mattina, apre le porte della Biblioteca che fu di Sion e controlla i volumi. La scusa ufficiale – che serve sempre, perché anche quando sei il Grande Sacerdote di Athena devi avere una spiegazione da dare all’imbecille di turno che ti domanda «Che fate, Santità?» e a cui tu non puoi rispondere per le rime – è comprendere perché le stelle si stiano allineando con così tanta lentezza. Lui l’ha scoperto per caso, afferrando gli ultimi mormorii insensati del Vecchio. Non parlava di vendette, non lanciava maledizioni su di lui, ma lo avvertiva.

«Le stelle… sono lente…», ha detto, prima di rendere l’anima e togliersi dai piedi, e lui, appena ha avuto un attimo di pace, si è immerso nella lettura di tutti quei libri, libretti e libroni. Scoprendo che la mania di Sion di far tenere dei diari ai Santi di Athena inviati in missione non è farina del suo sacco, ma di quello del suo predecessore. Sage, o una cosa simile. E ci sono buone probabilità che anche questo Sage abbia portato avanti un costume che risaliva a chissà quando. Ai vecchi piacciono le tradizioni, giusto?
 
E benedette siano le tradizioni, pensa. Sorridendo, mentre le dita afferrano un pesante tomo che risale a due, tre guerre sacre prima, o forse anche più. Perché in quel tomo lui ha scoperto qualcosa. La chiave del suo successo. Quella che gli permetterà di presentarsi davanti ad Ade con un potenza di fuoco amplificata. Maggiorata. E che forse gli consentirà di arrivare ad un accordo col dio dell’Oltretomba.
 
Sempre ammesso che si svegli, ovvio. Per quel che blaterava il Vecchio, il sigillo di Athena dura duecentocinquanta anni, o giù di lì. Lui ha tutto il tempo di trovare il modo di ottenere una proroga, ed è intenzionato ad ottenerla. Costi quel che costi.
Ma prima, si dice, accomodandosi sull’ottomana di velluto rosso che troneggia accanto alla finestra dello studio del Sacerdote, avrò bisogno di un’altra dozzina di pezzi da disporre sulla scacchiera.
 
 

Le dita correvano veloci sui tasti bianchi e neri. Sonata in La maggiore K. 331 di Mozart, meglio nota come Marcia Turca. L’ideale per una giornata estiva che prometteva di essere calda e assolata. La galoppata era durata troppo poco. Si era alzata all’alba ed era scesa a sellare personalmente il suo adorato César. «Stabilisci un legame profondo con il tuo cavallo», era stata la prima lezione che le aveva impartito il maestro d’equitazione che le aveva affiancato il nonno. César era stato il suo ultimo regalo.
 
Come le era apparso enorme quel puledrino tutto pelle e ossa dai grandi occhi neri e la coda sempre in movimento! Il nonno le aveva consigliato di portarsi delle zollette di zucchero per fare amicizia. Saori ricordava ancora come si fosse avvicinata al cavallo, tenendo l’abito del nonno stretto in una manina e le zollette ben visibili nell’altra. Anche César si era avvicinato, poi l’aveva annusata curioso e aveva preso lo zucchero con i denti. Saori aveva avuto un sussulto per la sorpresa e la strana sensazione: il muso del cavallino era caldissimo ed umido, diversamente da come se lo aspettava.
 
Le signorine ben educate posseggono dei gatti di razza, o in alternativa dei cani tascabili. Lei aveva gusti più elitari. Lei aveva César. Quando montava in sella si sentiva una cosa sola con il suo cavallo. Libera. Come se fosse un centauro.
 
È questo il tuo lascito, Aiolos?, pensò seguendo le note sullo spartito. O sarà per via dell’Ascendente? Chissà qual è? Possibile che il nonno non abbia mai fatto stilare il mio Piano Astrale?
Ripromettendosi di chiedere all’Ufficio Astronomico del Santuario, Saori chiuse l’ultima battuta e si voltò. Hyoga la stava ascoltando placidamente seduto in poltrona, almeno in apparenza: non le era sfuggito l’impercettibile fremito che attraversava il mignolo destro del ragazzo.
 
«Piaciuto?»
«Molto…»
Di poche parole, come sempre, pensò lei sorridendogli. «Di cosa volevi parlarmi, Hyoga?»
«Volevo avvisarla che me ne vado.»
Saori lo fissò come se avesse parlato in arabo. «Come?»
«Me ne vado. Torno in Siberia…», scandì lentamente Hyoga. E qualcosa dentro Saori vibrò.
 
NO. Digli di no!, urlò il suo sesto senso.
Sciocchezze! Non fare la bambina viziata!, si disse prima di rispondergli: «Certo.».
Che altro avrebbe dovuto dirgli? No, ho bisogno che tu stia qui per proteggermi da eventuali nemici?
Siamo in pace, adesso; che t’aspettavi, Saori? Che restassero sempre con te? Non essere sciocca! Avete deciso di provare a vivere come tutte le persone normali, giusto? Non è forse questo il motivo per cui ti sei impuntata a vivere a Tokyo, invece che al Santuario, procurando una quasi crisi isterica al povero Mu?
 
Fissava Hyoga e si diceva che sì, la legge è uguale per tutti, specialmente per quei poveri ragazzi che avevano sputato sangue sin da quando erano stati a mala pena grandi per reggersi in piedi. Ma allora perché era così difficile dirgli che poteva andare dove l’avrebbero portato i suoi piedi?
 
«Certo, Hyoga, vai pure. Un po’ di relax ti farà bene… Quando hai intenzione di partire? Domani, dopodomani…»
«Oggi stesso. Se per lei va bene», si affrettò ad aggiungere Hyoga. «Ho bisogno di stare da solo per un po’, e sapere che ci sono gli altri qui con lei, mi tranquillizza…»

Ti tranquillizza? Mi affideresti a loro, Hyoga? Ti fidi? Già, adesso che non ci sono problemi, puoi andartene… da me, vero?, si disse Saori triste.
«Parti pure tranquillo, Hyoga. Semmai ci dovessero essere dei problemi…»
«Saprete dove trovarmi, milady», annuì avvicinandosi a lei. «Mi dia la sua benedizione, dea Athena», le disse baciandole la mano sinistra con atto di sottomissione. E di nuovo, quella voce dentro di lei che le urlava di non permettere che si allontanasse.

Il Nord è buio… Il Nord è cupo… Tienilo con te, tienilo con te! Tienilo…
Dominio, Saori!, si ordinò mentre Hyoga attendeva un suo cenno per imboccare quella porta e sparire dalla sua vita, anche solo per una manciata di giorni. «Vai pure. La mia benedizione è con te. Gnothi s’autòn.»
 
Hyoga si alzò.
«Aspetta… » Lo fermò prima che le desse le spalle. «Prima che tu parta vorrei sapere la tua risposta alla proposta che vi ho fatto.»
«Il termine ultimo non era il due di Settembre, il giorno successivo al suo compleanno?»
«Sì, ma… »
«La prego di attendere fino a quel giorno. Se vado in Siberia è anche pensare a questa opportunità.»
Anche? «Hyoga…», e se non dovessi tornare?, pensò, senza trovare il coraggio di dirglielo.
 
Lui sospirò.
«Milady, posso dirle come la vedo adesso. Avrei voluto esprimere il mio parere assieme a tutti gli altri, ma visto che ci tiene tanto, l’accontento. No. La mia risposta è  no.»
«Lo supponevo.» Bene, Saori, allora non resterai delusa quando solo Jabu e gli altri ti diranno di sì, pensò osservandola stringere di poco le labbra. «Non riuscite a…»
«No», l’interruppe Hyoga. «Almeno, io no. Non riesco a perdonare quell’uomo. Non ce la faccio. È vero, abbiamo sconfitto Saga e Poseidon, ma non è prendendo il cognome Kido che… sì, insomma che potrò dimenticare un’infanzia… come la mia…»
«Capisco.»

Hyoga contrasse i denti e poi li rilasciò. Capisci? Tu… capisci? Cos’è che capisci, in nome di tutti i Santi del Cielo?! Dimmelo, Saori, perché non vedo come sia possibile! Tu sei cresciuta nella bambagia e negli agi, mentre io e mia madre… mia madre…
 
«E sincerità per sincerità, in questo modo a me sembra di essere comperato come un mulo al mercato!»
«Hyoga, che dici? Voi siete i figli di Mitsumasa Kido!»
«Non pronunci quel nome, milady», l’avvertì, con il Cosmo in subbuglio e la voce che tradiva un certo nervosismo. «Il mio cognome è quello di mia madre. Non mi chiamerò mai Hyoga Mitsumasaëvič Kido. Mai. Io sono Hyoga Andrevič Popov. Mi dispiace, ma ho rimosso il volto di mio padre. Quell’uomo mi trattò come un cane… peggio di un cane, quando avevo otto anni e avevo appena perso mia madre.»
Saori abbassò lo sguardo ai suoi piedi.
«Perdona la mia mancanza di tatto, Hyoga.»
«Non ha nulla di cui farsi perdonare, milady. Nulla.» Eccetto la tua bellezza.
 
Hyoga stesso si stupì di quel pensiero: da quando provava certi sentimenti? Per lei, lei! Certo, Saori era bella, bellissima, come una bambola di fine porcellana. La pelle chiara, gli occhi dolci e neri, il viso dall’ovale perfetto, le labbra rosate,  ma non aveva mai suscitato in loro, in lui, certe… sensazioni. Lei era Athena. Athena! La loro dea. A volte aveva la delicatezza di un panzer lanciato contro un campo di soffioni, ma le perdonavano questo lato del suo carattere. La rendeva umana. Non si era incarnata per comprendere meglio gli uomini? Ecco, c’era riuscita.
 
«Se non le dispiace, andrei a preparare i bagagli.» Pausa. «E a prendere l’Armatura del Cigno.»
Saori annuì e lo vide uscire dalla stanza e oltre la porta di ciliegio.
È fatta, è partito. Tornerà… sì, lui tornerà. Da me,  si disse dirigendosi alla finestra.


Perché si sentiva così? Perché si sentiva come se i suoi Saint la stessero abbandonando per sempre?
Shiryu, non appena poteva, volava a Goro-Oh. Il vecchio Doko si era rivelato un preziosissimo alleato durante i momenti più bui, ma Saori non era così ingenua da ignorare l’altra presenza che calamitava Shiryu su quelle montagne.
Shunrei.
Lei era stata i suoi occhi e la sua forza quando lui più ne aveva avuto bisogno. Gli dava sicurezza, lei così piccola ed esile. Il calmo e riflessivo Dragone mostrava le zanne se solo qualcuno osava sfiorare la sua Shunrei. Acqua cheta rompe il ponte, diceva Nanny Emma, e quella ragazza era la prova vivente di questo vecchio adagio.
 
Ikki… Oh, beh, lui era il figliol prodigo per antonomasia. In realtà Saori sapeva perfettamente che tornava all’Isola della Regina Morta, per ritemprare le forze e starsene da solo. Tutti quanti sapevano dove poter trovare Ikki quando non era a Tokyo, ma nessuno osava andare a disturbarlo, a meno che non fosse questione di vita o di morte. Lo stesso Shun temeva di violare lo spazio vitale del fratello, spazio di cui Ikki si era sempre mostrato geloso.
 
Shun non si muoveva mai. Come se non pensasse agli amici sull’Isola di Andromeda, vicino le coste africane dell’Oceano Indiano.
E poi c’era lui. Seiya. Il rassicurante Seiya. Il testardo Seiya. Talmente testardo da non voler vedere più in là del suo naso. Da quell’orecchio non voleva proprio sentirci; lei, invece, aveva capito tutto.  L’aveva capito quando lui si era girato all’ultimo istante per evitare che la Freccia d’Oro colpisse Shaina.
 
Saori li aveva sentiti, aveva sentito i loro Cosmi vicini. Uniti. Era nella Colonna Portante, sommersa dalle acque di tutti gli oceani e prossima alla morte, ma li aveva sentiti, i loro sentimenti, sfolgorare come i vetri colorati di un rosone colpito dal sole di mezzogiorno.
Li percepiva allora e li percepiva anche adesso, caotici come nuvole vorticose di fumo denso che si andavano disperdendo nel vento forte.

Dalla finestra aperta sul parco entrò una farfalla dalle ali blu. Volteggiò con grazia, finendo per posarsi sulla mano che Saori le aveva avvicinato istintivamente. Sembrava avesse delle trine al posto delle ali.
Sono solo mie paure?, si chiese osservando meglio l’insetto alla calda luce del sole.
   
 
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