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Autore: L0g1c1ta    21/11/2014    1 recensioni
Dieci ragazzi e una professoressa.
Ognuno di loro ha una storia. Ognuno di loro ha un passato.
Passano insieme quattordici giorni di vacanze all'estero e insieme decidono di fare un rito per entrare nel Regno dell'Incubo, risvegliando l'Uomo Nero ed entrando nel suo mondo.
Mano a mano che esplorano il luogo si rendono conto che anche i Guardiani e altri spiriti si trovano costretti ad abitare in quest'isola ove sono ricercati dalla reale padrona del Regno: Macula Sanguinea.
Tra umani e spiriti si cuciranno rapporti d'amicizia o inimicizia.
Riusciranno a tornare a casa?
Riusciranno a sfuggire dalle mani della megera Macula Sanguinea?
Riusciranno a scampare alla morte?
Genere: Angst, Generale, Horror | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: I Cinque Guardiani, Nuovo personaggio, Pitch
Note: AU | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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“Insomma, in conclusione, ci siamo presi in giro da soli!” aveva detto il vecchio che avevamo visto alla locanda. Ha detto che si chiama ‘Joe’. È un tizio un po’ buffo e goffo. Anche se sono caduta da una torre di dodici metri (ho chiesto tempo fa quanti metri erano) e ho dormito per due giorni da quando ero svenuta, non sono riuscita a stare ferma in quel lettino dove mi hanno rinchiusa ed ero uscita fuori con mio fratello. Non faceva altro che indicare spiriti e dire il loro nome. Chi rideva per la sua memoria e chi gli dava dello sfacciato. I vestiti con cui sono arrivata fin lì, senza uno stivale e con lo scialle, erano sporchi e lacerati in alcuni punti. Me li avevano tolti quando ero svenuta e li hanno affidati ad una certa Lucy. A malapena mi avevano dato del cibo, ho notato che hanno pochi viveri e a stento riescono a distribuirne per gli altri spiriti. Sono troppi di numero, intorno alle due centinaia di spiriti. Oltre al mancato cibo, non hanno nemmeno dei vestiti adatti per ognuno di loro. Gli creano in propri, vendendoli in mercatini come gli altri oggetti, usando lo scambio. Non c’era nient’altro che potessi indossare che un gigantesco maglione di lana marrone, sicuramente per un adulto, che mi scende quasi fino alle ginocchia, un paio di pantaloni scuri talmente grandi da far sprofondare le scarpe. Ho lasciato sciogliere i capelli che affondano dentro al maglione facendogli sembrare corti e ho coperto il collo con una sciarpa rossa. Le maniche del maglione inghiottono in continuazione le mie mani e devo per forza tirarle su e rotolarle su sé stesse. Anche ora lo sto facendo. Ora che sono con Yaga, sulla sua groppa, sulla via di casa. È passata una settimana da quando sono giunta in quel Castello e due di quelli li ho passati a dormire dopo essere svenuta.
I Sanz avevano sparso la voce che io sono uno spirito e credo che ormai lo credano tutti, visto anche tutto ciò che ho fatto per arrivare fin lì. I due gemelli, dopo diversi si e no, avevano deciso di seguirmi fino al teatro per far conoscere ad Al tutti i suoi abitanti. Il ragazzo era quello che diceva più no per via della bambina ‘trasformata’ in ragazza vampiressa.
“Perla, pequena, secondo me dovresti venire con me, oppure io dovrei restare qui con te. Non me la sento di lasciarti da sola, sai…”
“Stai tranquillo, andrà tutto bene, vorrei rimanere qui con le mie sorelle. Tu va con la tua, io starò bene” ho assistito alla scena. Non ho mai visto Alejandro Sanz così preoccupato per qualcuno che non sia sua sorella. Carmen, per tutto il saluto, aveva rivolto ai due un’occhiata seria. Sento puzza di gelosia tra lei e la ragazza vampiressa. Si era intromessa quando si erano abbracciati.
“Al, dobbiamo andare: a Fabi non piace aspettare!” detto questo lo tirò per un braccio, lo aveva trascinato di peso e lo aveva portato vicino a me e a Yaja. Questi vestiti mi fanno sembrare un ragazzino. La prima volta che la mula mi aveva visto non mi aveva riconosciuto e si rifiutava di farmi salire in groppa. Quando mi ero tolta la sciarpa e mi ero abbassato il colletto del maglione, allora ha fatto quasi un salto per la sorpresa.
“Ma allora sei tu! Non sai che preoccupazione mi hai fatto dare! Credevo che ti avessero massacrata e appesa come trofeo da chissà quale parte di questo postaccio! Giuro che se mi farai ancora uno scherzo del genere, ti faccio mettere in un pentolone e ti faccio divorare da un orco!” dopo un po’, e dopo aver saputo da altri ciò che mi era successo, si era calmata. Giusto un pochino. I gemelli avevano scoperto che Yaja parlava e da quel momento hanno un po’ di paura a salirle in groppa, infatti ora i due stanno camminando vicino a noi. È stato un’incidente: la mula aveva perso la pazienza dopo che Al le aveva messo in testa un cappellino da signora. A quel punto si era infuriata e aveva iniziato a dire parole poco carine ai due. Ai Sanz uscivano gli occhi fuori dalle orbite.
“Ma… Fa-Fa-Fab… l-l-la… le-lei… parla!”
“Oh, e non solo questo: posso canticchiare, posso lanciare incantesimi, posso trasformarvi in vermi di terra…”
Fabi!!! Ayuda me!!!” detto questo si erano nascosti dietro di me, spaventati al massimo da ciò che avevano visto e sentito. Entrambi non hanno più voluto salire in groppa a Yaja senza essere fulminati da un’occhiata da strega cattiva dell’est.
“…Molto bene, ora la smetteranno una volta per tutte…” sussurrò fra sé e sé in russo con soddisfazione. Io ho lasciato che la cosa andasse avanti.
Avevo passato i giorni con mio fratello e la sua amica. Credo che mi mancassero quei giorni: i giorni in cui eravamo tutti insieme e che giocavamo fino a tardi. Per cinque giorni sono stata con lui. Non mi sono mai sentita così bene. Mi ha fatto giurare che sarei ritornata da lui e da Niki. Jack O’Lantern e Mary non avevano intenzione di staccarsi da loro. Jackie era tristemente d'accordo sul fatto che potevo portarli via, visto che, come diceva lui, io sono la sua sorella maggiore e lui non ha alcun diritto di strapparmi via un membro della mia famiglia. Mary era il perfetto contrario: voleva Leo, aveva accettato il fatto che volessi portare via Niki, ma mio fratello assolutamente no. Mi ha minacciato di maledirmi se gli avessi tolto il suo figlio adottivo. Le avevo fatto notare che una strega non poteva avere figli, visto che, dopo qualche giorno, avrebbe finito per mangiarli dalla fame. Si era arrabbiata. Jackie aveva cercato di fermarci visto che anch’io ero sul punto di darle un pugno. Quella donna è irritante. Leo e Niki erano riapparsi alla nostra vista e ci avevano offerto un patto: loro due sarebbero rimasti nel Castello insieme a Jackie e a Mary, mentre io sarei tornata a casa e talvolta potevo fargli visita, magari per i fine settimana. Ero indecisa. Ma poi ho visto gli sguardi speranzosi di quei due spiriti: gli volevano bene, come dei veri genitori. Vedevo che badavano a loro: Mary si accertava che stessero bene e Jackie giocava spesso con loro. Credo che quell’uomo desiderasse dei figli. Sentivo che erano in buone mani, per questo accettai.
Siamo arrivati al paesino dove avevo trovato Al. Devono essere le nove del mattino o forse le dieci. Fa freddo: delle nubi scure coprono il cielo e a mio parere incomincerà a piovere. I Sanz sono avvolti nei loro mantelli pesanti, hanno anche loro visto il cielo nuvoloso.
“Secondo voi pioverà?” Al mette una mano fuori dal mantello. Delle gocce d’acqua gli bagnano le dita.
“Sta già cominciando a piovere” rimette il braccio dentro il mantello. “Cerchiamo un riparo, poi continuiamo a camminare” scendo da Yaja e corro dietro ai due gemelli. Al ha trovato un riparo sotto il tetto di una casa. Che ironia: è la stessa locanda dove lo abbiamo trovato. Sembra chiusa. Guardo attraverso i vetri. Non c’è né una luce né qualcuno. Questo è abbastanza strano. Sembra che abbiano lasciato questo postaccio da poco.
“Scusate, potrei…?” mi volto, c’è un ragazzino bagnato come un pulcino per la pioggia. Credo che voglia rifuggiarsi anche lui sotto il tetto. Gli faccio spazio. Si butta vicino a me. Si sfrega le mani, ha dei guanti vecchi, grigi e senza dita.
“Grazie mille, non sono abituato a questo genere di clima…” Mini si volta interessata.
“Oh, por chè? Da dove vieni?” smette di sfregarsi le mani.
“Da Malaga, Spagna” i Sanz sembrano scoppiare di felicità.
“Anche noi! Noi siamo di Barcellona, mi amigo!” anche il ragazzino sembra scoppiare dalla gioia.
Iniziano a parlare velocemente in spagnolo. Non capisco molto. Non ho mai studiato spagnolo e inoltre lo parlano in modo così svelto che non riesco a comprendere nemmeno le poche parole conosco. Ma dal tono di voce sembra che parlino di stupidaggini. Mini comincia a parlare da sola con il ragazzino. È la mia occasione. Faccio avvicinare Al a me.
“…Chiedili che fine ha fatto Ambrogio e perché la sua locanda è vuota…” gli dico sottovoce. Il gemello annuisce e interrompe la chiacchierata dei due. Comincia a parlare seriamente, indicando la porta della locanda dietro di noi. L’altro in risposta comincia a raccontare con gesti delle mani, ma senza che io li capisca. È un ragazzino di circa dodici anni, abbastanza povero, ottocentesco. Mi sono quasi annoiata con questi ottocenteschi. Al sembra stupito riguardo a ciò che sta dicendo e anche Mini fa domande molto veloci. Stanno parlando da circa mezz’ora, il tempo comincia a rischiararsi. Il ragazzino fa un segno di saluto con il suo cappello e scappa via, verso il Castello. Credo che non lo rivedremo più. I due gemelli non sanno nulla: non hanno notato né dove sta andando il ragazzino né hanno visto la stanza piena di cadaveri. Appena quello se ne va, i due gemelli cominciano a ridacchiare fra di loro. Riprendo Yaja e chiedo con lo sguardo cos’è successo. Al sembra felice di parlare.
“Sai cos’è successo, pequena? Ambrogio, senza di me, è andato in verde e lo hanno cacciato via por chè non pagava l’affitto di questa baracca”
 
 
 
 
 
 
“Siamo arrivati, ragazzi. Al, questo è il teatro” di fronte a questo colosso, Al sbianca. È buio e tira vento. Io vado avanti e, dopo aver portato Yaja dentro la stalla, busso. Alla porta vedo un grande e lucente occhio azzurro che ci fissa indagatore.
“Chi bussa?”
“L’Uomo nella Luna” gli spiriti del teatro avevano inventato questa formula per identificare i fantasmi e gli spiriti che volevano entrare dentro. Non so cosa significhi questo nome, ma non credo che sia inventato. L’occhio sparisce e la porta si apre lentamente. Entro prima io, seguita da Mini, felicissima, e Al, un po’ impaurito da questa segretezza. Appena chiusa la porta, appare a noi un gigantesco omone russo.
“Siete tornate!” si getta su di noi e abbraccia me e Mini. Al è confuso e fissa Kolja con curiosità.
Por chè? Avevi dei dubbi?”
“Si! Sono otto giorni che io non vedere voi! Ero molto preoccupato!” era preoccupato, lo si capisce. Ma è troppo emozionato per arrabbiarsi o per essere triste. Quest’uomo sembra un bambino. Finalmente nota l’altro gemello rimasto in disparte.
“Ma tu uguale a Mini!”
Papà Noel?!” annuisce felicissimo. Credo che significhi Babbo Natale in spagnolo. Al sembra molto emozionato e non riesce a dire una parola. Diventa anche un po’ rosso in viso. Racconto a Kolja la maggior parte delle cose che sono successe, tralasciando la camera piena di cadaveri e Pitch Black e dico di aver trovato altri due bambini. I due Sanz enfatizzano tutto ciò che ho fatto, come se avessero visto di persona come sono caduta dalla torre. Kolja, a fine narrazione, mi ha guardato con qualcosa di simile alla gratitudine. Non so nemmeno di cosa deve essermi grato. È eccitatissimo e saltella da un piede all’altro in cerca di equilibrio.
“Vado a chiamare Calmoniglio. Deve conoscerti, Al!” Mini lo ferma in tempo.
“No! Fabi, vai tu a cercare Calm. Noi gli faremo una… sorpresa, ecco! Hai capito?” quando fa quell’occhiolino e quella faccia speranzosa, significa solo una cosa: scherzi. Annuisco e cammino, il più lentamente possibile, verso l’interno del teatro in cerca del coniglio. Ho sentito le risatine di Kolja quando i due gemelli stavano spiegando la loro idea. Cammino lungo i corridoi privi di luci. I corridoi di questo posto sono piuttosto stretti e soffocanti, come se si chiudessero su sé stessi. Mi manca l’aria non appena ricordo la stanza della prima torre. Due esserini piuttosto bassi mi passano accanto con circospezione: Adalwin e Aloys. Non sembrano riconoscermi. Sento il tintinnare nervoso della campanella di Adalwin.
“Ma tu chi diavolo sei?” mi tolgo la sciarpa e abbasso il colletto del maglione.
“Lei è tornata! Non ne avevo dubbi!” Adalwin sembra molto felice, Aloys, invece, mi guarda con un po’ di scaltrezza.
“Ah, sei tornata… Beh, dov’eri andata a cacciarti?” ignoro la sua accortezza. Indosso di nuovo la sciarpa.
“Ve lo racconterà Nicholas. Sono di fretta. Dov’è il Coniglio Pasquale?” mi fanno un cenno verso il corridoio. Gli saluto con lo sguardo e proseguo verso il corridoio. Vedo passarmi vicino un paio di ali di velluto. Astrea si ferma solo dopo che la mia mano le abbia sfiorate. Sono morbide e calde, sembrano fatte di stoffa. Lei sembra indispettita.
“Ma cosa…?! Come osi toccarmi le ali, ragazzaccio!” mi volto. Nemmeno lei mi ha riconosciuto. Si avvicina irritata, a pochi centimetri dal mio naso e fluttuando per aria.
“Allora, cos’hai da dire a tua discolpa? Sentiamo un po’!” continua a non riconoscermi e a scambiarmi per un ragazzino. Non so il perché, ma voglio restare al suo gioco.
“Non capisco, signorina…” dico con una voce un po’ più maschile.
“E cosa non dovresti capire, ragazzaccio!?” mi viene un’idea. Non so il perché, ma mi piace farla arrabbiare. È strano, perché di solito a me non piace far infuriare di proposito la gente. Mi alzo sulle punte dei piedi e le do un bacio veloce sulla bocca. Poi torno al mio posto, tranquillo. Lei invece salta come una molla e si asciuga col dorso della mano la bocca, anche se non ho sputato nemmeno una goccia di saliva.
“Stupido idiota!” faccio un’aria stupita.
“Lei mi sorprende, signorina…” è ancora più arrabbiata.
“Ti sorpr… Ma senti! Per chi mi hai presa?! Adesso vieni, dì un po’, perché mi hai baciata?” faccio un po’ l’offeso.
“Non avevo cattive intenzioni, non volevo farle del male. Credevo… che vi sarebbe piaciuto…ecco…” noto che tra le mani ha un fuso e sembra sul punto di lanciarmelo addosso.
“Piccolo pezzo di idiota! Perché mai avrebbe dovuto farmi piacere?”
“Ecco… beh… non lo so… è che… me l’hanno detto… tutte…”
“Te l’hanno detto tutte?! E chi?! Le altre fate?! Chi?!” sta per dare di matta: i suoi occhi mandano lampi e saette, le tremano le dita come se volesse graffiarmi.
“Beh, signorina… Hanno detto tutte così”
“Forza, parla. Quali tutte?! Ti consiglio di aprire bocca, altrimenti ci sarà un’idiota in meno sulla faccia della terra! Ma guarda, anche gli elfi cominciano a seccarmi!” è quasi strano il fatto che mi abbia scambiato per un elfo. Faccio una faccia afflitta. Incrocio le mani con perplessità e nervosismo.
“Mi dispiace davvero tanto, signorina… Giuro che non me l’aspettavo. Mi hanno detto di farlo, tutte, e hanno aggiunto che le sarebbe piaciuto. Mi ricresce, signorina… non lo farò mai più, parola d’onore” si sta sbollendo.
“Spero bene che non lo farai mai più”
“Oh, certamente, signorina! Mai mai più! A meno che non me lo chiediate…”
“Io?! Ah, non ho mai sentito una cosa più stupida in tutta la mia vita! Avrai gli anni di Gorgia prima che io chieda una cosa del genere a te o a un maleducato come te!” l’ho notato da un po’ di tempo: Calmoniglio ha sentito le nostre urla e, quasi all’inizio della chiacchierata, si è avvicinato di soppiatto e ora ci fissa incuriosito.
“Beh, questa è proprio una sorpresa. Non ci capisco più niente. Dicevano che a lei sarebbe piaciuto di sicuro e…” mi giro verso Calmoniglio. Alza le orecchie al cielo appena mi volto. Neanche lui mi ha riconosciuto. “…insomma… Voi non credete, signore, che a lei sia piaciuto il mio bacio?” il coniglio riabbassa le orecchie appena incrocia gli occhi con Astrea.
“Ecco… no… io… io… non credo… no…” la fata mi punta ancora quegli occhi infuocati addosso. È meglio finirla qui.
“Non riesco proprio a capirci niente…” mi abbasso il colletto e mi tolgo la sciarpa rossa. “Eppure credevo che appena mi avresti visto avresti detto: ‘Fabiola Santarcangelo…’” mi riconosce. Le si accendono gli occhi.
“Fabi!” mi abbraccia e affonda la testa nella mia spalla. Anche la sua pelle è molto morbida e soffice. Sarebbe bello accarezzarle per bene le guance… sotto il chiaro di luna… soltanto noi due… si, sarebbe proprio bello…
“Piccola stupida pazza! Mi hai fatto prendere un colpo! Hai idea di quanto tempo ti abbiamo aspettata? Pensavamo che saresti tornata dopo due o tre giorni, invece…! Fabi, ti prego, non fare più una pazzia del genere! Chissà che gentaglia c’è là fuori!” tra poco si mette a piangere. Non so il perché ma, nonostante gli scherzetti che le faccio, si è affezionata molto a me. Dice che ho dei bei capelli e degli occhi molto rari. Aveva aggiunto una cosa che mi ha reso perplessa quel giorno: ‘L’Uomo nella Luna ti ha plasmata come una principessa!’. Chissà sarà quest’uomo…?
“Scusate se interrompo le vostre smancerie, ragazze, ma dov’è Mini?” il coniglio mi si è avvicinato con fare minaccioso e con degli occhi scrutatori. Anche dopo un mese, non è cambiato nulla nel suo atteggiamento: s’innervosisce di fronte a me, con lo sguardo mi dice di stargli lontano e sono certa che appena mi giro mostra uno sguardo corrucciato. Non si fida di me. E io non mi fido di lui, né voglio averci a che fare. Anche Astrea si stacca da me.
“Infatti: dov’è Mini?” indico il corridoio e gli apro la strada. Astrea mi segue subito, il coniglio è un po’ più cauto. Apro la porta e faccio entrare i due. Kolja si avvicina subito a Calmoniglio.
“Calmoniglio, Mini è tornata!” il coniglio sembra molto più rassicurato. Si volta: c’è una Carmen incappucciata, con un vestito nero e coi capelli che le escono dal cappuccio. Lo saluta con un cenno della mano.
“Mini, stai bene!” il coniglio si avvicina rincuorato. Lancio un occhiolino ad Astrea. Ha inteso. Mi annuisce e assiste alla scena. Dall’armadio si sentono dei boati, come se qualcuno stesse cercando di uscire. Calmoniglio attira a sé la spagnola, con l’intento di proteggerla. Dall’armadio esce un’altra Carmen Sanz, furiosa, con un vestito rosso e con un cappuccio  nero in testa. Il coniglio è sconvolto.
“Non è vero! Sono io Carmen Sanz!” dice con voce arrabbiatissima, uscendo dall’armadio. Entrambe le Mini si guardano negli occhi.
“Ma cosa dici?! Sono io Carmen Sanz!”
Estupida! Sono io Carmen Sanz!” sembra che vogliano prendersi a botte.
“No! Sono io Carmen Sanz!”
“No, sono io!”
“Non è vero! Sono io!”
“Sono io!”
Soy me!
Soy me!!!
Il coniglio sembra sul punto di svenire. La mascella gli trema e le orecchie sono abbassate. Entrambe le ragazze si voltano verso di lui.
“Allora, Calm, chi è la vera Carmen Sanz?” il coniglio deglutisce. Astrea vicino a me ride.
“Allora, chi è?” Astrea appoggia il viso sulla mia spalla per non far sentire le sue risate. Le sfioro i capelli, continuo a credere che sarebbe bello averla tutta per me… Ma sarebbe un desiderio troppo lussurioso. Il coniglio sembra essere molto confuso e schoccato.
“Io… io… beh…”
“Allora?!” dicono in coro. Sembra sul punto di perdere conoscenza. La fata vicino a me comincia ad abbracciarmi. Sta morendo dalle risate. E io dalla malizia, se continuasse a stringermi in questo modo. Tutto finisce con la gigantesca risata di Kolja. Sembra un’allarme antincendio. Calmoniglio lo fissa confuso. Anche le due Carmen ridono. Una di loro, la prima che è apparsa al coniglio, si toglie il cappuccio e si strappa i capelli con una sferzata. Era una parrucca. Si toglie anche il vestito e il mantello, scoprendo un ragazzo latino quasi identico a Mini. Calminiglio è il più confuso fra tutti.
“Ma… ch-chi…?!” i due si avvicinano tra di loro. Mini fa un passo avanti.
“Calm lui è Al. Calm, Al. Al, Calm” dice contentissima. La mascella del coniglio continua a tremare.
“È il mio fratellone!” la mandibola di Calmoniglio cade da qualche parte sul pavimento.
“Ce ne sono due!?”
Oh, si!!!
“Due uguali!?” entrambi annuiscono. Il coniglio guarda Kolja, ubriaco dalle risate, poi Astrea che mi abbraccia, me, intenta a nascondere la mano che accarezza i capelli della fata, e ritorna a fissare i due gemelli spagnoli.
Si volta, si posiziona a quattro zampe e inizia a scappare via per i lunghi corridoi del teatro, iniziando ad urlare parole incomprensibili. I due Sanz, indignati, lo seguono.
“Avevi ragione, Mini: esto conejito è fantastico!”
Conejito, devo strapazzarti di coccole!”
“Ma dov’è?!” dicono, infine, in coro. Kolja si asciuga le lacrime e si avvicina a noi. Astrea si stacca da me. Peccato… Dopo che l’omone abbia finito di ridere, mi guarda serio.
“Fabi, meglio se tu torni da Sandy: Farut e Mino sono qui a dormire e hanno lasciato lui solo” irrigidisco le sopracciglie.
“Come da solo? Non può stare da solo!” sospiro “Non fa niente, vado subito da lui” Kolja mi blocca e mi abbraccia ancora un po’. È molto felice. E lo sono anch’io. Astrea mi guarda da dietro le spalle dell’omone russo. Sembra molto carina vestita con quest’abito celeste. Appena incrocia gli occhi con i miei, arrossisce e si volta dal verso opposto. Credo che le piaccio. Chi l’avrebbe mai detto…! È vero: devo andare subito da Sandy, chissà cosa potrebbe capitargli in mia assenza…
“Ora vado, altrimenti Sandy finirà in qualche pasticcio!” mi stacco da Kolja, lo saluto ancora e vado. Prima di uscire dalla porta, ho sfiorato di nuovo le ali di Astrea. Si era irrigidita ed era arrossita ancora di più, ma senza guardarmi in volto. Si, è sicuro, le piaccio. Raggiungo la stalla, faccio liberare Yaja, le salgo in groppa e partiamo. È sempre la solita città: buia, senza luce e senza speranza. Questa volta però c’è qualcuno in giro, per passeggiare o per chiacchierare con altri. Alcuni brindano dentro le taberne. Riesco a sentire qualcosa…
“Ve lo giuro! Man a mano che passano i giorni, le notti s’accorciano ancor di più e i gioni si allungano!” sento moltissime risate, sia di uomini che di donne.
“Allora questa, sicuramente, non è una delle notti più corte!” altre risate. Qualcuno sbatte un bicchiere di vetro sul tavolo, lo sento. Lo ripetono ancora e ancora, la stessa frase, con risate e sbeffeggiamenti.
“…Lasciatemi in pace…!”
“Stai tranquillo! Questa la racconto solo alla mia donna, che è proprio bella!” sono saltate altre risate. Yaja sotto di me sbuffa in russo.
“…Stupidi insetti…” non sento più le loro parole, si riconoscono solo risate.
“Beh, almeno qualcuno qui si diverte…” si volta verso di me, mi guarda quasi con rimprovero.
“Sai, dopo averti conosciuto, mi sono sempre aspettata di tutto da te, ma quello che ho visto è decisamente oltre le mie aspettative!” mi fissa con lo stesso sguardo. Siamo in campagna, ci siamo solo noi due. Le sorrido.
“Cosa vuoi dire?”
“Voglio dire che non mi sarei mai aspettata un comportamento del genere da te!” faccio una faccia perplessa.
“Cosa?”
“Ti piacciono le fate, o sbaglio?” sbuffo una risata, vera come il sole.
“E tu questo dove l’avresti notato?” fa una faccia da saggia anziana.
“Oh, io ho occhi e orecchie dappertutto! Tu, piuttosto, come mai questa furboneria? Credimi, non mi aspettavo da te una cosa del genere” mi guarda quasi disgustata. Ho spesso pensato che Yaja provenga dal cinquecento o anche dagli anni più indietro. Ha un’atteggiamento e una mentalità troppo chiusa per essere contemporanea o dell’ottocento o del seicento in poi. Non riesco a frenare un’altra risata. Lei mi guarda male. La smetto. Prendo un bel respiro e comincio a pensare a cosa dire.
“Yaja, come adolescente, mi sono spesso domandata a quale ‘sponda’, come si vuol dire, appartenessi. Ebbene, sono giunta alla seguente conclusione: ricordi il vecchio esempio che se si usa per indicare gli omosessuali e gli eterosessuali?” sbatte le palpebre con sguardo interrogativo, mi aspettavo che non lo sapesse “Per gli omosessuali di solito si usa dire che appartengano alla sponda di sinistra e gli eterosessuali quella di destra”
“E tu in quale sponda saresti?” mi faccio pensierosa.
“Probabilmente sono nel mezzo” mi guarda tra il confuso e lo scioccato.
“Ti spiego: non faccio molte differenze. Se si ama qualcuno, non deve essere dettato necessariamente dal sesso opposto. Diverse volte mi è capitato di provare qualche emozione particolare per gli uomini, così come per le donne. Ma devo dire che favorisco i primi, non perché sia la scelta ‘ideale’, ma perché gli apprezzo di più. La donna è viziata e crudele, soprattutto fra i medesimi sessi. O almeno dal mio punto di vista. Anche se sono nella via di mezzo, preferirei essere sposa di un uomo piuttosto che di una donna” il mio discorso le ha fatto apparire una faccia un po’ confusa. Non credo che spiegarle di nuovo il mio concetto possa renderla meno sconvolta di com’è.
“E il comportamento che avevi con quella stupida, come lo spieghi?” chiede con tono un po’ arrabbiato.
“Un capriccio” mi fissa furiosa. Metto le mani di fronte a me, come se volessi difendermi “Tranquilla: è un desiderio che non ho intenzione di soddisfare. Parola d’onore. Mi piaceva solo viziarla un po’, tutto qui” Oh, non sai quanto vorrei accarezzare i capelli di quella ‘stupida’ in questo momento… Si calma. Comincia a guardare di fronte a sé. Siamo nel campo di mele, siamo quasi a casa. Yaja sembra più rilassata di prima.
“Va bene, ho capito. Ma sappi una cosa: una fata, anche se sembra carina e dolce, sotto i suoi abiti è un’orribile creatura intrattabile e piena di malvagità, più di una strega. Quindi, se hai intenzione di soddisfare il tuo ‘capriccio’, ricordati: se mentirai o altro a quella stupida o a qualsiasi altra della sua razza, finirai a vivere una vita miserabile e piena di delusioni” vuole farmi paura. Non metto in dubbio che voglia avvisarmi e credo che ciò che ha detto sia vero, ma sembra che l’abbia detto più per spaventarmi che per informarmi. Annuisco più volte.
“Non ti preoccupare” sembra soddisfatta.
“Brava la mia bambina” d’un tratto si ferma, guarda sotto di sé con nervosismo. Di fronte a noi c’è la casetta. Rivederla dopo tutti questi giorni non mi provoca nulla nell’animo: sono felice di essere ritornata qui, ma non entusiasta. Yaja continua a fissare il terreno. Guardo anch’io. Non riesco a vedere bene. Scendo dalla mula. Vedo ciò che sta guardando. Il mio sguardo diventa apatico.
Orme.
Orme di un grosso animale.
“Fabi, stai vicino a me. Credo che ci siano dei lupi da queste parti” mi dice la sua voce nella mia testa. Continuamo a camminare. Resto vicino a Yaja, trattenendo con la mano la sua criniera grigia e un po’ grezza. Le orme aumentano di numero. Puntano tutte verso la casa. Le seguiamo. Non sarei sorpresa di vedere un tizio della gang di Fabrizio girare inavvertitamente da queste parti. Dopotutto, se vedi una casa, perché non controllare all’interno? La porta è spalancata. Le orme continuano anche dopo la soglia, sporcando il pavimento di erba e fango fresco. Diventano magicamente delle orme di grosse scarpe. Per fortuna non c’è sangue. Yaja entra prima di me. Si posiziona in mezzo alla stanza, apre le orecchie, le alza e ascolta. Dopo qualche decina di secondi le abbassa di nuovo.
“Non c’è nessuno qui, Fabi. Bambina, guarda se c’è Sandman, sono preoccupata…” non me lo faccio ripetere due volte. Corro su per le scale. Potrebbe anche essersi nascosto dentro qualche armadio o in soffitta, non è detto che l’abbiano preso.
“Sandman! Sandy, pericolo scampato!” aspetto qualche secondo prima di constatare che non sento nulla, né della sabbia, né dei passetti appena accennati. Corro in avanti, cerco di abbassare la scaletta nascosta della soffitta. Non ci riesco, sono troppo bassa. Rinuncio in fretta ed esco dalla finestra per saltare sul tetto e raggiungere la finestrella socchiusa della soffitta. La apro lentamente. In apparenza sembra che non ci sia nessuno. I vestiti formano un gran numero di fantasmi grazie alla mia immaginazione.
“Sandy, sono Fabiola, sono tornata! Esci fuori! Non c’è pericolo! Sandman!” aspetto ancora un po’. Non c’è nessuno. Sandman è scomparso. Dopo un’ultima sbirciata, chiudo la finestrella e scavalco di nuovo la finestra del corridoio. Lo cerco nelle altre stanze: in quella di Farut, quella di Mino, la mia, la stanzetta di Sandy. Il secondo piano è completamente vuoto. Ci sono impronte ovunque e di varie dimensione e diametro. Probabilmente devono essere entrati più di uno. Mi sento agitata, non per la paura, per la rabbia. Hanno rubato ciò che è mio. Scendo al piano di sotto. Yaja batte gli zoccoli vicino a me.
“Non c’è nemmeno qui. Credo che lo abbiamo perso, Fabi…” non riesco a muovere le iridi, non so il perché. È come se i miei occhi fossero stati per troppo tempo sbarrati. Ora sono paralizzati e non riesco a muoverli. Distolgo lo sguardo da Yaja, non so nemmeno il perché. Sto pensando sul da fare. Guardo per terra: oltre ad orme di fango, si trova anche della sabbia incastonata nelle impronte che illumina lievemente il pavimento.
“Credo che sia andato via per sempre, Fabi… Accidenti a loro. Se gli incontro per la via, giuro che li trasformo in maiali…! Uh… Fabi, dove vai?” non ho nemmeno aspettato che Yaja terminasse il suo discorso, che sono salita al piano di sopra, nella mia stanzetta. Spalanco l’armadio. Nessuno può aprirlo, tranne che me. Quando io e Pitch ci alleniamo, spesso usiamo delle armi che lui ha arruffato a chissà chi e in chissà quale luogo dell’isola per insegnarmi come si usano. Ci sono tutte le armi che io abbia usato in un mese di esercitazioni. Solo ora mi accorgo di quanto è pieno questa scatola di legno, più tardi lo ripulirò per bene. Ci sono: spade, moschetti, fucili con cartucce, pistole antiche, archi con frecce, maceti, persino accette e coltellini di varie dimensioni. Solo una di loro è quella che mi interessa maggiormente. La prendo in mano, prendo anche i suoi dardi. Metto il tutto sulla scrivania. Accendo la luce della lampadina di fianco. Esco fuori dalla stanzetta, prendo una piantina che si trova nel corridoio e la porto dentro, sulla scrivania, con vaso e terra. Yaja, silenziosamente entra nella stanza insieme a me.
Poggio tutto il materiale sulla scrivania. Prendo la mia borsa nera che ho portato anche nell’ultimo viaggio. La svuoto. Prendo in mano la bottiglietta di vetro che Mary voleva farmi bere. Apro un cassetto della scrivania. Recupero un contagocce, pulito. Prendo una piccola quantità di gocce di liquido e lo spalmo sul busto della pianta. Aspetto diversi secondi, fino a contarne venti. Non accade nulla, la pianta è sempre verde e sana. Prendo uno dei miei coltelli che i gemelli mi hanno restituito. Reco un taglietto alla pianta, dove in seguito spalmo il liquido trasparente. Dopo pochi secondi i fiori blu, insime al busto, marciscono di fronte ai nostri occhi, accartocciandosi su sé stessi e mutando il colore da verde a un marrone scuro, segno di morte. Come immaginavo, gli effetti del veleno giungono solo se il liquido viene ingerito o se viene spalmiato su di una ferita, anche lieve.
Svuoto il contagocce nella bottiglietta. Prendo uno dei dardi sottilissimi della cerbottana e immergo la punta di ognuno nel veleno di Mary. Lo pongo con cautela in un fazzoletto in modo da non toccarlo. Inizio a rimettere tutto a posto. Porterò con me la cerbottana e i suoi dardi, è certo.
“Scusami, cosa stai facendo? Perché io non ho capito niente di ciò che stai architettando” rimetto a posto la pianta, più tardi penserò a sostituirla.
“Le orme sul pavimento sono umide. Ciò vuol dire che chiunque sia entrato qui dentro ci è entrato da poco. Non è tardi: possiamo ancora riprenderci l’Omino dei Sogni e tornare qui sani e salvi” Yaja sembra piuttosto perplessa.
“Perfetto. Sappi però che non sono in vena di uccidere qualcuno stasera…”
“Non c’è problema: lo farò io. Mi basta solo che tu mi accompagni fin da loro. Ma prima devo capire cos’altro devo portare con me” dico guardando con sguardo osservatore l’armadio pieno di armi per scegliere la migliore da usare. Meglio qualcosa di non troppo preciso per far sentire molto più dolore, oppure qualcosa di piccolo e immediato…?
“Senti, bambina, non per toglierti l’entusiasmo… ma dove credi che siano andati?” sento nella mia bocca i denti sfregarsi tra di loro. Non si può mai sapere con certezza dove siano andati. Forse lo hanno portato nel loro nascondiglio. Già, ma dove sarà questo nascondiglio? Forse devo guardare meglio le tracce e cercare di immaginare dove siano andati ed intercettarli il prima possibile. Forse…
Fisso per un secondo Yaja. Ha uno sguardo strano. È come se vedesse di fronte a sé qualcosa di divino. Porgo lo sguardo alla stessa cosa che sta fissando. Sento le mie sopracciglie e i miei occhi socchiudersi per la perplessità. Vedo una sorta di raggio argentato che si posiziona sul campo di grano, fuori dalla finestra. Rimango ancora più perplessa quando il raggio comincia a muoversi verso di noi, fino a illuminare me, completamente. Non capisco. Yaja mi fissa pietrificata. Guardo attraverso la luce. Vedo la luna, non so cosa significhi. Il raggio si muove ancora. Esce fuori. Mi sporgo dalla finestra del corridoio e fisso quel raggio che, questa volta, indica un sentiero nella foresta. Vedo in lontananza delle orme di un carro. Il raggio, lentamente, svanisce di fronte ai nostri occhi.
“Dobbiamo andare laggiù… Lì hanno portato Sandman…” sussurra la mula. Rimango molto perplessa.
“Anche la luna è uno spirito?” Yaja scuote la testa, pietrificata.
“Molto di più, figlia mia. Molto di più…” fa un accenno di sorriso. La guardo con perplessità.
“Che cosa credi che ci abbia detto?”
“Vuole dire di andare per il bosco, ad ovest e salvare Sandman” non so dove abbia letto tutte queste cose da un raggio staccato, anche casualmente, da un satellite. Non capisco molte cose.
“Come fai a saperlo?”
Lui ci dà sempre un aiuto quando ci troviamo in difficoltà. Dobbiamo astenerci al suo comando. Non fare domande ora, bambina, più tardi ti spiegherò tutto. Ora dobbiamo andare e in fretta!” detto questo comincia a trottare verso l’uscita. Con una gigantesca pozza di domande in testa, la seguo.
 
 
 
 
“Devo andare via per qualche giorno, non starò via per molto.
Avvisa Farut e Mino di questo biglietto.
Fabiola”
 
C’era solo questo nel foglietto lasciato da lei. Il fatto di averlo lasciato solo e senza molte informazioni sul luogo dove dovesse andare, lo aveva reso terribilmente triste.
Si era rifuggiato sopra il tetto della casetta, lontano da chiunque, anche se solo. Molto solo. Aveva portato con sé una coperta, sia per nascondere la luminescenza della sua sabbia, sia perché, dopo diverse settimane, aveva iniziato ad avere freddo. Sentiva dei brividi lungo la schiena. Si strinse la coperta a sé.
Non si era mai sentito così solo in tutta la sua esistenza. Era peggio di essere invisibile agli occhi di chiunque: questa volta era visto, ma completamente ignorato e isolato. I due ragazzi che abitavano con lui sembravano dei fantasmi senza forma. Poche volte parlavano con lui e altrettante poche erano le volte che veniva ascoltato o compreso. Entrambi era invisibili sia a lui che alla bambina. La mattina scomparivano e la sera tornavano mentre dormivano. Voleva qualcosa in più da loro ma non sapeva bene cosa.
Tirò un lungo sospiro, chiudendo le palpebre. Il paesaggio notturno della foresta era tetro e misterioso, inadatto a qualunque umano. Si domandò come facevano Mino e Farut a percorrere la stessa strada ogni sera. E si domandò per quale motivo Fabiola si rifuggiasse in un luogo così minaccioso e senza paura. Forse perché era il suo elemento, la voce della foresta. O forse era lei stessa a chiamare la foresta. O forse per allontanarsi da lui e non incrociarlo in nessun luogo.
Si alzò in piedi e cominciò a camminare sulle tegole piene di foglie. Faceva fatica a volare. Si sentiva terribilmente pesante ad ogni passo che faceva e se iniziava a correre, dopo qualche secondo, sentiva il fiato mancare. La sua sabbia gli impediva gran parte dei movimenti per via della sua mole. Ciò che era peggio era che lasciava dei granelli dietro di lui, durante le sue passeggiate per la casa. Questo comportamento anormale della sua sabbia lo rendeva irrequieto. Ogni giorno, senza quei semplici granelli, sentiva di perdere qualcosa, come dei pezzi di carne che, lentamente, si staccavano dal suo corpo. Ma allo stesso tempo sentiva che quella tonnellate di sabbia ammucchiata su di lui gli impediva di fare qualsiasi movimento. Anche se doveva percorrere una decina di metri, il capogiro si faceva sentire, puntuale. Talvolta credeva che avrebbe potuto grattare via gran parte di quella sabbia in modo da facilitare i movimenti o, almeno, per non renderli così faticosi. Poi però si bloccava e pensava alla stupida pazzia che aveva in mente.
Sentiva un giramento di testa. Si fermò e si massaggiò con una mano la tempia. Passò il capogiro. Si sedette, con fatica. Anche sedersi era faticoso.
La solitudine lo aveva attanagliato come un serpente che si aggrovigliava attorno al suo corpo. Non voleva dare la colpa a Fabiola per ciò, anche se effettivamente era lei la responsabile. O, almeno, una dei tanti colpevoli. Con una scrollata di spalle si tolse di mente quell’idea.
Non voleva darle colpa per la sua solitudine. Era per colpa sua se aveva innavertitamente aperto quel barattolo pieno di polvere bianca. E per colpa sua aveva tentato di far del male a lei. Si strinse ancor di più nella coperta. Ricordava quasi ogni cosa che le aveva fatto. Si voleva strappare i denti per ciò che aveva fatto. Sicuramente era molto spaventata e per questo che gli aveva rovesciato addosso quel secchio pieno d’acqua. Fino a quel momento non ricordava più nulla. Probabilmente i due folletti devono essere arrivati in quell’attimo e lo avevano medicato. Non lo ricordava. Non ricordava nemmeno come si era fatto quella piccola cicatrice sulla guancia. Forse se l’era recato da solo cadendo dopo essere stato bagnato, ma non trovava questa teoria molto sicura.
Alzò lo sguardo sopra di sé. Una luna piena si stagliava nel cielo. Chissà cosa stava facendo Manny lassù…? Forse era preoccupato per loro, spiriti e mortali, per tutto ciò che stava accadendo? O forse stava pensando ad un modo per aiutali? Domande senza risposte. Un vento freddo gli sferzò il viso e il petto. Si alzò per cercare di scacciare via quel vento dispettoso. Non si accorse di aver poggiato tutto il suo peso sopra ad una foglia. La foglia lo fece scivolare in avanti. Non riuscì a prendere in tempo qualcosa per bilanciarsi. Cadde. La sabbia sul suo corpo lo rese più pesante e la caduta venne in fretta. Cadde di lato, avvolto nella coperta bianca. Gli doleva il braccio, il fianco e la tempia sinistra. Non riuscì a muoversi. Voleva aiuto. Non riuscì nemmeno a chiamarne alcuno. Sentiva la gola secca e gli occhi umidi.
Fabiola lo odiava. Sicuramente. Non credeva di volere il suo perdono, ma avrebbe preferito un’occhiata di disprezzo invece di occhi falsamente cieci. Cercò di alzarsi con un braccio, quello dolorante. Cadde sbattendo la fronte sui scalini d’entrata. I singhiozzi presero possesso del suo corpo. Odiava quella prigione che era quella casa in mezzo al nulla. Voleva fuggire, ma allo stesso tempo non voleva far accendere preoccupazioni, se non ai tre ragazzi, almeno non voleva rendersi scomparso agli occhi di North e di Calmoniglio che sicuramente erano in ansia per lui. E poi, se fosse fuggito, dove sarebbe andato? Le sue condizioni erano misere, non sarebbe riuscito nemmeno a raggiungere in un giorno la foresta. E, soprattutto, non vi era alcun rifugio sicuro su quell’isola.
Riuscì ad alzarsi, sentì un capogiro. Si rimise in piedi e si concentrò per trovare un equilibrio nel suo cervello. Lo trovò. Il capogiro svanì. Sentì un briciolo di soddisfazione in ciò. Era stanco anche di sembrare così terribilmente debole e bisognoso.
Guardò la foresta di fronte a sé. Fabiola vi entrava la mattina presto e se ne ritornava per la cena. Era curioso di sapere cosa avesse di tanto interessante quel bosco. Vi usciva da esso, non felice, ma molto più rilassata e serena di come vi entrava. Gli venne la malsana idea di risolvere quel mistero, di scoprire la bellezza di quel luogo in apparenza morto e minaccioso. I suoi passi vollero proseguire, ma il suo cuore pensò di no, non sarebbe andato laggiù. Anche se… dov’era Fabiola?
Perché non tornava da lui? Perché non tornava in quella casa? Forse era fuggita via per sempre. Forse era solo una vana speranza la lettera che gli aveva lasciato. Forse lo odiava molto più di quanto credeva. Quell’ipotesi divenne quasi certezza. La sua gola si seccò e i singhiozzi accelerarono. Cercò di non far sgorgare le lacrime. Non aveva più la percezione del tempo come una volta. Le lancette che erano sempre precise nel suo cervello, dopo quell’episodio del barattolo, sentiva come se si fossero fermate e che talvolta tornassero indietro o accelerassero in avanti. Sarebbe stata anche la sua percezione dei giorni molto difettosa in quel periodo, eppure non gli sembravano che fossero passati pochi giorni. Riuscì a percepire sette giornate passate, ma non riusciva a calcolare quante ore potessero essere passate dopo quella settimana.
Cominciò ad avere paura per lei. Forse le era accaduto qualcosa d’irrimediabile e lui non era vicino a lei. Forse quel bosco dove si era rifuggiata non era così sicuro come credeva. Fissò ancora quel paesaggio tetro e buio di fronte a sé. Non volle pensare a nulla. Nulla. Non volle credere a nulla e nemmeno pensare a nulla. Eppure non riuscì a farne a meno. Nonostante gli occhi falsamente cieci della bambina, non riusciva a darle alcuna colpa. Sentiva come se in quei giorni, anche se non interagendo apertamente, si fosse abituato molto alla sua presenza, anche se muta. Voleva che ritornasse da lui. Voleva almeno sapere se stava bene… Alzò gli occhi di fronte a sé.
Lontano da lui, molto lontano, vi erano dei movimenti.
Lupi.
Il suo corpo ebbe un movimento improvviso. Le sue mani si arrampicarono disperatamente alla coperta bianca. Ricordava di avergli già visti, tempo fa, ma quella volta c’era Farut con lui.
Ora però era da solo.
E i lupi si stavano avvicinando alla casetta.
Con le mani bloccate, così come gli occhi, cominciò ad indietreggiare, fino ad arrivare all’uscio di casa. I lupi si dirigevano proprio verso di lui, ma non lo avevano ancora scorto, era troppo lontano. Lentamente, cercando di non far rumore, chiuse la porta d’entrata e la sigillò con un lucchetto. Si voltò. Cercò di essere più veloce possibile e di raggiungere il secondo piano. Le sue mani si aggrapparono, disperate, alle basi dei corrimani. Spinse il suo peso per ogni gradino. Cercò d’ignorare le emicranie e spinse con tutte le sue forze la sua mole e la sua sabbia fino a raggiungere la vetta.
Fino a quell’istante non sentì alcun suono. Credette che se ne fossero andati, oppure avessero cambiato idea e avessero deciso di cambiare direzione.
“Allora, è questa la betola dell’altra volta?” le tende erano tirate, non vi era alcuna luce, eppure Sandman vide le loro sagome attraverso di esse. Non riuscì a credere che tutto ciò gli stesse accadendo proprio quel giorno. Quel giorno i cui era così terribilmente debole. Si strinse la coperta fin sopra la testa, cercando di non mostrare la lumiscenza della sua sabbia. Fece dei passetti lungo il corridoio del secondo piano.
“Si, l’ultima volta sono passato di qui. C’era una sorta di giocatore di pallacanestro turco, abbastanza teso” sentì l’aria mancare nei suoi polmoni. A metà strada, si fermò e prese dei profondi respiri. Mentre faceva ciò, alzò lo sguardo sopra di sé, vedendo la scaletta nascosta.
 
“Sandy, ora ascoltami: se qualcuno dovesse venire qui quando non ci siamo e volesse entrare, tu non farti vedere, lascia sempre le tende tirate. Se invece entrassero con la forza, usa la scaletta e sali in soffitta. La scala è nascosta e anche se la vedessero, soltanto io e Farut possiamo farla scendere: è molto in alto. Ma sono certo che tu possa arrivare fin lassù con un balzo, vero?”
 
Mentì al giovane, annuendo. Non era così semplice come voleva far credere. Faceva fatica anche solo a fare pochi passi, volare era fuori discussione. Sentì bussare per tre volte. Ognuno di quei boati erano dei coltelli impiantati nella sua carne. Con tutta la forza di volontà che possedeva, cominciò a correre, fino a raggiungere la scaletta. Cercò di riprendere fiato, guardando in alto verso la propria via d'uscita.
“C’è nessuno?! Siamo del Governo! Ci apra, signore!” fece tre respiri profondi, molto profondi. I capogiri sparirono. Si concentrò. Fece un balzo. Si staccò solo di pochi centimetri dal suolo. Prese un altro respiro profondo. Riprovò. Circa cinque centimetri.
“Beh, non c’è nessuno. Che facciamo? Andiamo via?”
“Stai scherzando?! Dopo tutte queste ore di viaggio?! Tu sei pazzo, Marcello…” Andate via… Andate via…
“E allora che si fa?”
“Frantumiamo la porta e entriamo dentro, ovvio!” qualcosa dentro di lui, probabilmente il cuore, fece un balzo fino a raggiungere la sua gola col probabile intento di fuggire via dal suo corpo incapace di fare un salto. Fece un altro balzo, protendendo un braccio verso la scaletta. Ancora pochi centimetri. Non poteva riuscirci. Era troppo debole. Ma allora… cosa avrebbe fatto…?
Sentì delle percosse sul legno della porta d’ingresso. Doveva riuscirci, doveva. Fece un altro balzo. Cinque centimetri circa, quasi dieci. Forse poteva riuscirci… Un altro balzo. Dieci centimetri, sicuri. Gli mancò il fiato. Si mise una mano sul cuore. Aveva un capogiro. Per pochi secondi vide la scaletta sopra di lui ondeggiare e girare su sé stessa, come se deridesse i tentativi di raggiungerla del povero omino. Chiuse gli occhi e, nonostante il mondo intorno a lui continuasse a girare, fece un altro balzo. Non riuscì a tenere l’equilibrio e cadde sulla schiena, senza alcun suono questa volta. Aprì gli occhi, vide la scaletta sopra di sé. Continuava ad ondeggiare derisoriamente. L’omino chiuse gli occhi e si concentrò cercando un equilibrio. Lo trovò. Si alzò, con tutta la velocità che poteva e si rimise in piedi. In quel momento, dal primo piano, si sentì un colpo molto più potente degli altri, seguito dal cigolio sinistro di una porta. Gli mancò il fiato, erano entrati in casa. E lui era ancora lì, senza sapere cosa fare per raggiungere l’unico punto sicuro di tutta la casa.
“Ti ci è voluto tanto per aprire una stupida porta?”
“Fai silenzio, tanto sei stato solo a guardare! Marcello, ora guarda e impara: dovremo fare un rapido controllo qui dentro” Oh, no…
Cosa fare ora…? Cosa avrebbe potuto fare…? Guardò di nuovo la scaletta sopra di sé. Rinunciò a raggiungerla: era troppo debole. Se fosse stato più forte ci sarebbe riuscito… Sentì dei passi percorrere con poca fretta le scale. Fece la prima cosa che gli venne in mente. Si girò verso destra ed entrò nella stanza, la stanza di Farut. Chiuse, senza far rumore, la porta dietro di sé. Si guardò attorno, con affanno. Non riuscì proprio a comprendere la sua debolezza e la sua incapacità in quel momento. Non era il momento di lasciarsi andare alle pene. Cercò con gli occhi un nascondiglio. I passi pesanti continuarono e puntarono vicino a lui. Per un momento gli sentì dietro di lui, dietro la porta. Si buttò, con la coperta in spalla, nell’armadio del suo amico. Si chiuse dentro, appena in tempo. Era dentro un vecchio armadio di legno, con delle passerelle sconnesse dove riusciva a vedere cosa vi era all’esterno. Si coprì completamente nel panno bianco, in quel momento ricordò la pelle bianca di Fabiola sotto i raggi di luna nelle notti d’estate. Si chiese perché in quel momento stava pensando a lei. Forse perché sentiva che era la fine…?
I passi spalancarono la porta con un forte boato. Cercò di non tremare nel suo nascondiglio. Quella calda coperta divenne il suo unico sostegno. I passi, imperterriti, marciarono nella stanza, fecero abbassare il loro padrone per guardare sotto al letto. Stavano cercando qualcuno. Continuarono a marciare, indifferenti, per tutta la stanza. Sentì ogni suo muscolo accartocciarsi su sé stesso per il terrore di essere scoperto. Il suo terrore si ampliò quando i passi si fermarono esattamente di fronte all’armadio. Di fronte a lui, al suo nascondiglio. Non riuscì a far altro che restare immobile, muto, ad aspettare che se ne andassero lontani da lui. I passi, dopo millenni di attesa, si mossero verso sinistra, verso l’uscio.
Credeva che ciò fosse quasi impossibile. Sarebbe scoppiato dalla felicità in quel momento. Ma accadde. Come se fossero mossi da un ordine invisibile, le porte dell’armadio di spalancarono. Sandy non riuscì a muoversi per il terrore. Una testa brutta, senza un occhio e con una benda, apparve alla sua sinistra, con un sorriso. L’omino sobbalzò.
“Boo!” fece un altro sobbalzo dall’orrore della situazione. L’avevano preso. Non voleva accettarlo. La faccia rise, una brutta risata derisoria. Sandman era impietrito. Si voltò verso sinistra.
“Ragazzi! Guardate chi sta giocando a nascondino dentro gli armadi!” non riusciva e non voleva accettarlo. Non voleva essere preso in quel modo, debole e incapace di ogni azione. Fece uno scatto, che nemmeno lui riusciva a credere di aver fatto, verso destra. Lo prese in fretta, fermandolo con un braccio forte e rigido, strattonandolo per i capelli. Soffocò un muto grido per la sorpresa e il dolore. Si dimenò come meglio potè. Ma i suoi tentativi di libertà erano futili: l’uomo lo trattenne con entrambe le braccia e lo sollevò di fronte a sé, con una facilità che fece disperare l’omino. Da quell’altezza vide di fronte a sé altre due facce: una sciupata di un altro uomo, un’altra, molto più innocente, di un ragazzino dagli occhi curiosi. Fu lui a parlare.
“Ma questo cos’è?” chiese dubbioso. Entrambi rimasero pietrificati. Doveva avere l’età di Fabiola, forse anche più piccolo.
“Bah! Non importa. È uno spirito di sicuro, questo è importante. Ora andiamo” disse, trasportandolo e scansando i due all’uscio. Percorsero tutto il corridoio, con molta più velocità di quanto Sandman fosse riuscito a fare.
“Aspetta! Dove lo portiamo?” il suo carceriere fissò annoiato il ragazzino.
“Ma sei nato ieri, Marcello?! Da Macula Sanguinea, che domande sono!” Sandman, sentito il nome, s’irrigidì. Il ragazzino, Marcello, si grattò la nuca, con perplessità.
“Va bene… Che fine farà?” chiese, guardando, non il suo aguzzino, ma lui, nei suoi occhi, con molta più umanità e preoccupazione di quanto si sarebbe aspettato. Intervenne il secondo uomo, dietro di lui.
“Non ti preoccupare, Lei troverà un altro posto bellissimo per lui” si sentì molto più teso di quanto non lo era stato prima di udire quel nome. Si ricordò di quella notte, quella in cui Fabiola e Pitch si sono incontrati. Ricordò di aver sentito quel nome, ricordò anche ciò che North, tramite lettere, gli aveva rivelato riguardo a quel nome e al suo significato. Un significato orribile, tragico e angoscioso. Per la paura, il terrore e molti altri fattori, associò quel nome alla morte. Macula Sanguinea e coloro che in quel momento erano i suoi aguzzini, erano la morte. E lui non voleva raggiungerla in quel modo.
“Si, ma… Lei cosa ne farà di lui?” l’uomo zoppicando vicino al più piccolo, rispose sgarbatamente.
“Ma cosa importa!? Spellato vivo, mangiato da qualche cane, trasformato in un bersaglio, o usato come giocattolo per la notte, che importa!? So solo che chiederò di far guarire questa stupida gamba, quando ci chiederà la ricompensa!” non voleva sentire altro. Col panico che galoppava dentro di lui, cominciò ad agitarsi, lanciando gride mute e terrorizzate.
“Ma che…!?” riuscì a liberarsi, con suo grande sollievo. Cominciò a correre per le scale, con la coperta bianca che volava sulla sua schiena. Vide di fronte ai suoi occhi la porta in grado di farlo uscire e portarlo all’assoluta libertà. Non sapeva cosa avrebbe fatto dopo aver varcato quella soglia, ma sapeva soltanto che doveva raggiungerla e librarsi in aria, il più lontano possibile da ogni pericolo. Nella corsa non si accorse di essere stato preso per un braccio e strattonato all’indietro, in faccia ad un volto irato e sciapato. Annaspò dal terrore.
“Lurido gnomo!” non ebbe il tempo di ascoltare il seguito che ricominciò a dimenarsi per liberare il suo braccio. In quel momento, non seppe mai in quale angolo del cervello uscì fuori questo pensiero, volle ardentemente tagliarsi quell’arto che ostacolava la sua libertà. Si dimenò ancora più furiosamente quando vide un altro volto, con una benda all’occhio, avvicinarsi minacciosamente a lui.
“Stai fermo, microbo!” detto ciò gli diede un pugno in testa. Forse fu per il fatto che fosse un colpo ben assestato oppure per via delle sue condizioni di salute, ma svenne. Dopo aver toccato terreno e dopo aver visto per pochi attimi la porta della sua libertà serrarsi da un’altra figura. Sentì il boato della chiusura, poco prima di aver perso totalmente i sensi.
 
 
 
 
Aprì gli occhi. Non vide nulla, solo un malinconico buio. Per un attimo credette di essere ritornato a casa, con Fabiola che dormiva profondamente e con lui che dormiva profondamente vicino a lei. Forse tutto ciò che stava passando era stato solo un sogno. Si accorse del contrario quando alzò lo sguardo e vide un uomo con una benda che, con passo moderato, lo stava lentamente raggiungendo; eppure, nonostante i suoi sforzi, non riusciva a raggiungerlo. Aveva un fucile adagiamente posato sulla sua spalla. Accorto della sua presenza, l’uomo gli sorrise sgarbatamente.
“Ben svegliato, microbo! Dormito bene?” chiese ironicamente. La battuta venne seguita da una risata rozza e tetra, che proveniva dietro di lui. Si voltò lentamente. Si rese conto di trovarsi all’interno di un carro, scoperto, in compagnia degli stessi che l’avevano rapito; di cui l’uomo con la benda che si trovava a fare da retroguardia seguendo dietro di loro il carretto, il secondo che aveva riso che dirigeva il carro percorrendo la foresta buia e malinconica e il ragazzino che, seduto poco lontano da lui, guardava il paesaggio con un pentimento negli occhi. Sentì un gran dolore al capo. Ebbe l’istinto di toccare il punto dolorante, ma si accorse di non riuscirci. Guardò le sue mani, vide che erano legate con della corda sottile, in modo di non farlo liberare con facilità. Non gli avevano legato i piedi, probamente sapevano che non ce n’era bisogno, visto la sua scarsa velocità. Cercò di trovare una via di fuga. Pensò di rotolare giù dal carro, in modo da poter fuggire. Era impossibile: l’uomo di retroguardia, l’avrebbe preso velocemente e anche se non fosse, dove sarebbe andato e dove avrebbe trovato la via per tornare a casa? Non aveva mai provato ad uscire dalla casetta dopo la sua malattia e, inoltre, sentiva la testa incredibilmente pesante e inutile.
Aveva capito una cosa fondamentale: l’avevano catturato e, questa volta, non avrebbe trovato nessun modo per scappare e per salvarsi dalla morte.
Questo pensiero lo fece impietosire. Sentì gli occhi appannarsi e i singhiozzi percorrere la sua gola. Il carretto lo stava portando alla sua morte, senza molta fretta. Non trovò nulla per cui non abbandonarsi alle lacrime. Non aveva nulla per cui piangere, ma allo stesso tempo sentiva di aver fallito in una banale impresa che, se non avesse avuto quella malattia, l’avrebbe superata molto facilmente. Questi pensieri mossero la sua testa verso il suo grembo. Riuscì a non cacciare nemmeno una lacrima, ma le sentiva nei suoi occhi, in cerca di un modo per fuoriuscire. Alzò la testa sopra di sé. L’Uomo nella Luna lo fissava.
Lo prego in silenzio, di salvarlo, di fare qualcosa in modo che potesse fuggire. Cercò di pronunciare delle parole, anche se mute. Ricordò tutte le avventure che aveva vissuto insieme ai suoi colleghi e amici, per i bambini e per il mondo: I Secoli Bui, L’incontro con i Guardiani, l’ultima battaglia combattuta contro Pitch Black e ora questo. Questa battaglia già persa dal principio. Sarebbe perito per la seconda volta, ma almeno l’ultima battaglia l’aveva combattuta con tutte le proprie forze, era morto, si, ma era ugualemente fiero di aver protetto i suoi amici. Questa battaglia l’aveva già persa con molta facilità, senza riuscire a combattere. Chiese alla Luna una salvezza, qualcosa che potesse raggiungerlo e ridonargli la forza. Qualcosa che potesse liberarlo.
Non vide nessuna reazione dall’alto. Abbassò la testa, afflitto, con le lacrime pericolosamente esposte. Sentì una calda coperta bianca coprirgli le spalle ghiacciate, percosse da brividi e singhiozzi. Alzò lentamente lo sguardo. Il ragazzino gli copriva con tremore il corpo. Lo fissò meravigliato. Marcello ricambiò con un sorriso tremolante, come se avesse paura di lui, spirito stanco e sofferente.
“V-va tutt-tutto bene. Qu-questo ti terrà a-al caldo” nonostante tutto ciò che stava accadendo, rimase stupito dall’umanità d’animo del ragazzino. Quasi credette che ciò che stava guardando fosse un’allucinazione. Si rese conto del contrario quando comprese che la coperta che aveva sulle spalle era reale e che era la stessa che aveva utilizzato per proteggersi dal freddo quando era nella casetta. Marcello si avvicinò, gattonando, a lui. Si era reso conto che l’omino non era pericoloso.
“Co-cosa sei?” lo guardò con compassione, sapendo di non poter rispondere alla domanda. Con tutte le sue forze, cercò di alzare gli angoli della sua bocca. Il ragazzino rimase in attesa di una risposta, chiaramente impaziente di sapere che tipologia di essere soprannaturale era lo strano omino che si trovava di fronte a lui. L’omino rispose indicando e toccandosi la gola.
“Erm… non puoi parlare?” Sandman fece segno negativo col capo. Marcello mostrò uno sguardo rassegnato.
“I-io…ecco… te l’avevo chiesto perché… sei buffo!” disse, cercando di giustificarsi. Ciò fece sorridere l’omino. I modi e gli atteggiamenti infantili del ragazzino erano quasi comici e il suo imbarazzo era ingenuamente fanciullesco. Lo guardò meglio: in confronto all’abbigliamento degli altri due, il ragazzino aveva un modesto abito che gli ricordava vagamente i Secoli Bui. Era molto diverso dai due uomini, perché si trovava con loro? Questa domanda non la fece mai e il ragazzino era ancora in profondo imbarazzo.
“Marcello! Non infastidirmi la preda e fai qualcosa di utile qui!” Marcello sobbalzò, quasi lieto di poter allontanarsi dall’imbarazzo creato da lui stesso e, senza guardarlo, si allontanò. Ciò lo rese ancora più triste. La sua possibile compagnia era andata via, lasciandolo ancora una volta nella solitudine. Abbassò la testa, coprendosi con la coperta.
“Cosa succede?”
“C’è quest’asino che mi sbarra la strada, levalo di torno! Ah, si, e fai in fretta: non c’è tempo da perdere!” guardò attraverso la coperta. Il ragazzino scese dal carro, fermo ormai, e cercò di spostare il quadrupede tirandolo per il muso e poi incitandolo ad andarsene. Fu tutto inutile. La pazienza dell’uomo traboccò, scese anche lui dal carro e cominciò ad aiutare Marcello nella sua impresa. L’Omino dei Sogni osservò meglio l’animale notando che aveva con sé, sulla groppa, una coperta viola: sembrava Yaja, la mula di Fabiola. Cosa ci faceva in quella foresta?
“Eh…?” spostò lo sguardo. L’uomo con la benda aveva iniziato a tastarsi con dubbio il collo nudo. Dopo qualche secondo tirò qualcosa di simile ad una scheggia di legno, intagliata in modo che potesse essere lunga e piccola. L’uomo guardò con perplessità il pezzetto di legno. Ad un tratto il suo occhio malato si spalancò, mostrando un pupilla rossa e insana. Sandman sobbalzò per la sorpresa. L’uomo cominciò a colpire il pugno contro il suo petto annaspando in cerca di aria, come se avesse difficoltà a respirare. Cercò, invano, anche di chiedere aiuto. Continuò ad agitare i suoi polmoni fino a quando si accartocciò su sé stesso come un pezzetto di carta. Cadde a terra, con l’occhio fuori dall’orbita e la bocca grondante di saliva. Si sentì il potente frastuono del suo fucile cadere a terra. Sandman rimase impietrito di fronte alla sua morte. Gli altri due non si accorsero di nulla, troppo impegnati a spostare la mula.
Sentì un lievissimo e impercettibile fruscio sopra di sé. Alzò lo sguardo, notando che le foglie si muovevano in maniera quasi innaturale. Da un ramo cadde una figura quasi animalesca che scese vicino al corpo morto dell’uomo. La figura ispezionò silenziosamente il corpo, rimosse dalla sua mano il dardo lanciato. Non ebbe il tempo di capire dove l’avesse poggiato che la figura, con una sciarpa rossa attorcigliata al collo e a gran parte del viso, prese il fucile, controllò che fosse carico e cominciò ad incamminarsi verso i due di fronte al carro. La naturalezza compiuta in queste azioni, furono talmente controllate da essere sconvolgenti agli occhi dell’omino. Non lo degnò di uno sguardo. Non seppe nemmeno a cosa pensare, che la figura raggiunse con un andamento naturale l’uomo e il ragazzino, entrambi intenti nello sforzo per accorgersi di tutto ciò.
“Amico, dammi una mano: quest’asino non vuole muoversi” l’uomo non fece in tempo a voltarsi che la figura aveva puntato il fucile alla sua testa. Premette il grilletto. L’eco dello sparo si fece udire fin all’interno della scatola cranica dell’omino. Spalancò gli occhi, con puro orrore. Il retro del capo dell’uomo saltò in aria, distruggendo l’osso e macchiando di sangue il volto e i vestiti del povero e sconcertato Marcello. Il corpo cadde in avanti, con occhi sbarrati e un buco nel capo.
“N-no…! T-ti pre-prego…!” disse cominciando a piangere e mostrando le tremanti mani di fronte a sé, con l’intento di proteggersi. La figura in risposta, ricaricò il fucile e mise la canna sulla fronte del ragazzino. Ciò fece riscuotere l’omino.
 
“Il nostro compito è di proteggere tutti i bambini del mondo e di difenderli”
 
Sandman fece un veloce scatto verso la figura, verso il fucile. Abbassò in tempo l’arma, prima di udire un altro sparo nell’immobile foresta. Sandy mostrò il suo corpo di fronte a quello del bambino, cercando di proteggerlo. Marcello dietro di lui pianse e si mise in ginocchio, spaventato. La figura spostò il capo di lato, come se non comprendesse il motivo per cui lui stesse facendo ciò. Sandman, in risposta, mostrò lo sguardo più sicuro che riuscì a mostrare. La figura, dopo pochi secondi, cominciò ad avvicinarsi. Nella sua mano vide la lama brillante di un coltello. Prese un profondo respiro, per darsi coraggio. La figura si chinò vicino a lui, gli prese le mani legate con molta fermezza e tagliò con uno schiocco la corda. Sandman guardò confuso lo strano gesto, massaggiandosi i polsi. Inaspettatamente la figura cominciò a spogliarsi della sciarpa. Quando l’operazione fu conclusa, l’omino abbassò le braccia, sentendo il suo cuore, fermo da secoli, smuoversi.
Fabiola.
Si sentì meravigliato. La ragazzina lo fissava con occhi inespressivi, con un guizzo pericoloso. Sandman le sorrise, fece dei segni con la sua sabbia, sperando che la bambina comprendesse: Lascialo andare, non ha fatto nulla di male. Lei, in risposta, si alzò in piedi, lanciò uno sguardo a Marcello e annuì all’omino. Tirò un sospiro di sollievo. Le si avvicinò. Le sorrise più apertamente. Lei gli rispose sempre col suo sguardo insensibile. Ciò fece morire la sua felicità. Ricordò anche perché si comportasse in quel modo. Fabiola alzò lo sguardo verso Marcello. Quando i suoi occhi si posarono su quegli del ragazzino, lui sobbalzò, in preda alle lacrime.
Tu!” lui spalancò gli occhi “Vedi questo disgustoso macello? Vedi questi corpi? In questa foresta non ne voglio vedere nemmeno uno. Pulisci questo schifo e vai via e in fretta” queste parole dure e inespressive terrorizzarono ancor di più il ragazzino che non riuscì ad alzarsi da terra. La bambina, non volendo aspettare ancora, gli puntò addosso il fucile e sparò un proiettile poco vicino al ragazzino. Questo gesto fece riscuotere e terrorizzare ancor di più Marcello che corse verso l’uomo sanguinante. Con fatica e con disgusto, lo prese per le braccia, se lo tirò sulle spalle e lo posò sul carro, macchiandosi ancor di più gli abiti. Lo stesso fece con l’altro corpo. Sandman rimase sbalordito dalla crudeltà di Fabiola che, durante tutta l’operazione, rimase a fissare il ragazzino poggiandosi sul fucile e impedì l’omino di aiutarlo a sollevare i corpi. Alla fine Marcello si sedette sul carro, volendo partire e andarsene il più velocemente possibile. Fabiola lo fermò, artigliandogli la spalla. Il ragazzino la guardò, completamente terrorizzato.
“Un’altra cosa: dì al loro capo, so chi è, che se vedo di nuovo un altro dei suoi ‘amici’ a fare una gita da queste parti e magari anche per rapire o uccidere qualcuno, gli ammazzo seduta stante e allora ci saranno delle belle pelli di lupo nel mio soffiorno, non ha importanza di chi saranno, intesi?” Marcello annuì più volte, con le lacrime agli occhi. L’aggressività nelle sue parole lasciò di stucco Sandman.
“E adesso vattene, non voglio più vedere nemmeno te. Non far sapere a nessun’altro di questa storia” disse alla fine, gettando le redini dei cavalli al ragazzino. Marcello partì subito, con grande velocità.
Il carro scomparve nella foresta. Fabiola si voltò verso Sandman. Vide il suo sguardo schoccato. Lei abbassò lentamente il capo, sospirando malinconica. Si avviò verso la mula. Sandman la fermò facendo apparire il suo nome in piccole lettere di sabbia dorata. La bambina si voltò. Sandy, con tutta la velocità che riuscì ad utilizzare, le corse incontro, fece un balzo e l’abbracciò.
Dopo pochi secondi realizzò cosa stava facendo. Si aspettò che lo spingesse all’indietro oppure che rimanesse pietrificata sul posto. Per questo si sorprese quando lei cominciò a ricambiare l’abbraccio, molto più stretto e possessivo del suo. Mi sei mancata moltissimo…
“…Anche tu…” si meravigliò di questa risposta. Sentì il suo corpo percosso da brividi, anche dopo che finì l’abbraccio, non capì se fosse per il freddo o per altro. Solo in quel momento si accorse di aver lasciato la coperta bianca sul carro di Marcello. Fabiola lo guardò per pochi secondi. Si sfilò la sciarpa e il maglione. Lentamente glieli fece indossare entrambi.
“Ecco qui, prendi” per un attimo gli sembrò di vedere molto più verde nei suoi occhi “Sono calde abbastanza?” lentamente e con un po’ di confusione, si tastò il gigantesco maglione e la lunga sciarpa. Erano incredibilmente caldi e morbidi. Fabiola gli prese fermamente la mano, come se non volesse lasciarlo andare, e lo adagiò su Yaja. Anche lei fece lo stesso.
“Yaja, andiamo a casa”
Casa…
Il suo corpo venne percosso da singhiozzi senza lacrime. Le era grato. Le era grato di averlo salvato dalla morte. Le era grato del suo coraggio. Sentì il suo cuore aprirsi a lei. Non voleva lasciarla mai più. Non voleva che andasse via, come l’ultima volta. Voleva stare insieme con lei.
Non voleva essere mai più solo…
 
 
 
 
 
 
Si svegliò.
Aprì le palpebre. Le sbattè più volte per capire dove si trovasse. Era nella stanza di Fabiola. Nel suo letto. Avvolto nelle coperte. Da solo. Era confuso. Ma… era stato tutto un sogno…? Appena drizzò il busto ricordò molti più particolari di ciò che era accaduto, o almeno ciò che credeva che fosse accaduto. Era mattina, forse le otto o le nove. Non riuscì a credere che potesse essere stato un sogno o un incubo. Era stato tutto così incredibilmente reale. Non poteva essere un sogno. Rimase perplesso nel sentire delle voci dentro casa, che provenivano senza dubbio dalla cucina.
Si mise in piedi, si sentì molto riposato e più forte. Camminò senza fatica o capogiri verso le scale, le voci diventarono più famigliari.
“...ogni volta dovete tirarvi insulti per delle stupidaggini? Ma con i vostri fratelli litigate sempre così tanto?” Fabiola. Avanzò ancora per le scale.
“Prima di tutto, io sono figlio unico. Secondo di tutto: con questo ritardato non si può dire niente che già attacca con le mazzate!” Mino. Avanzò ancora.
“Bravo, genio! Ti sei espresso magnificamente quest’oggi! Ora, Fabi, spostati che devo prenderlo a pugni!” Farut. Scese completamente le scale. Nella cucina si trovarono tutti e tre ragazzi: Fabiola era seduta a capotavola, spalmava della marmellata su una fetta di pane e sembrava piuttosto seccata dai due che, in confronto a lei, erano in piedi e pronti per altri insulti. Fabiola si accorse dell’omino. Sandman sentì un capogiro quando i suoi occhi incrociarono con quelli verdastri della bambina.
“Smettetela di fare baccano. Scommetto che Sandy si sia svegliato proprio per colpa vostra” entrambi smisero di alzare le mani e si girarono, imbarazzati, verso di lui. Dopo poco tempo arrossirono entrambi. Sandman li fissò allibito da tutto ciò che stava accadendo. Perché erano lì? Non dovevano andare al teatro per lavorare? Farut e Mino si sedettero, impacciati. Se non avesse avuto tutte quelle domande, avrebbe riso del loro comportamento. Andò anche lui a sedersi, vicino a Fabiola. L’unico rumore in quel momento era il vetro del suo bicchiere che veniva riempito con del latte. Sandman si voltò verso di lei. Cosa sta succedendo?
“Perché? Cosa dovrebbe accadere?” rispose lei, quasi meravigliata per la sua domanda. Voltò lo sguardo verso i due ragazzi. Lo fissarono confusi, non riuscendo a comprendere ciò che stava dicendo con la sua sabbia. Perché Mino e Farut sono qui?
“Hanno chiesto un giorno libero e hanno voluto restare qui. Però ve lo concedo: state lavorando molto, non vi fermate mai” quest’ultima frase la rivolse ai due, senza molto entusiasmo. Farut brontolò qualcosa, Mino annuì distrattamente, troppo concentrato a mangiare. Voleva chiedere altro, ma non voleva dire nulla in presenza dei due ragazzi, non voleva fargli preoccupare. Mino alzò la testa. Si accorse solo in quel momento che aveva gli occhi un po’ rossi e stanchi.
“Beh, ora che siamo qui, cosa facciamo?” Farut si pulì la bocca con il dorso della mano.
“Possiamo esplorare la foresta tutti insieme, per esempio” disse Fabiola.
“Ma che dobbiamo fare laggiù? Fa un po’ paura quel posto…” replicò Mino.
“Se lo conoscessi attentamente no: poco lontano da qui il fiume s’ingrossa, possiamo pescare e prendere dei pesci”
“Da piccolo pescavo con mio padre… Non sarebbe male riprovarci…” disse fra sé e sé Farut. Sandman sbattè le palpebre diverse volte. Era sul punto di credere che ciò che stava accadendo non fosse reale, ma frutto della sua immaginazione.
“Se ci andate anche voi, per me va bene. Ma non so come si pesca…”
“Ti insegno io. Ci sono delle canne da pesca in soffitta, ci servono solo le esche…” gli sembrò irreale che Farut parlasse quasi amichevolmente a Mino.
“Non c’è problema, le trovo io” i due fissarono straniti la bambina.
“E come farai a trovare dei vermi?”
“Cercando nei posti giusti gli troverai…”
“Che schifo!”
“Solo a te fa schifo, Mino”
“Ti perdono soltanto perché oggi mi voglio svagare. Comunque, Fabì, ieri sera sei tornata presto a casa? È andato tutto bene?” Fabiola gli rivolse lo sguardo, fattosi un po’ cupo.
“Si, tutto a posto. Non è accaduto nulla” dopo qualche secondo, lei fece un occhiolino complice e sorridente all’omino. Due cose lo sorpresero: la prima era che l’occhiolino stava a significare il contrario di ciò che aveva detto Fabiola e ciò voleva dire che quel che aveva vissuto non era stato solo un sogno, che la bambina lo aveva salvato per davvero e che sono tornati insieme a casa; la seconda era che gli sorrise. Non l’aveva mai vista sorridere in un mese, mai. L’ultima volta fu quando ballarono insieme a Mino con quegli abiti appena indossati. Il suo cuore cominciò a volare. Lo sentiva incredibilmente leggero. Sorrise anche lui. Sentiva di essere stato perdonato da Fabiola. Si sentiva molto felice. Si commosse per questi pensieri.
“Ottimo, perché… oh…”
“Guarda, Mino, la tua voce fastidiosa ha fatto piangere Sandy. Complimenti imbranato!”
“Ma che ho fatto?”
“Lascia stare. Sandy, vuoi venire anche tu con noi?” le chiese Fabiola, asciugandogli con dolcezza le lacrime e sorridendogli ancor di più.
Non aveva annuito così tante volte in vita sua.
  
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