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Autore: Angye    24/11/2014    2 recensioni
La storia comincia nell'episodio "Il salto del tonno" della serie Sam and Cat. Mentre si trova a Los Angeles con Sam, Freddie riceve una telefonata che lo avvisa dell'arrivo a sorpresa di Carly, a Seattle per qualche giorno. Il ragazzo decide di partire, Sam no, perchè sconvolta dall'aver scoperto il bacio che i due si sono scambiati in IGoodbye. Una serie di eventi e circostanze riporteranno Freddie, Sam e Carly sulla stessa strada e nelle rispettive vite. Il nuovo ragazzo di Sam non semplificherà le cose tra lei e Freddie. E, forse, arriverà il momento di chiarire ogni punto lasciato in sospeso e scoprire cosa significa, davvero, amare.
Storia sospesa, ma non abbandonata; riprenderà non appena possibile
Genere: Commedia, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Ringrazio la mia splendida Beta, Aduial, per il suo magnifico lavoro.
Ringrazio tutti coloro che hanno inserito la storia tra le preferite, le ricordate o le seguite e chi ha dedicato del tempo a recensire il precedente capitolo; risponderò in privato ad ognuno di voi.
Buona lettura.
 
 
 
 
Quel giorno Carly si alzò dal letto con una rinata vivacità, allegra ed euforica, infilò le pantofole di peluche e si precipitò in bagno, troppo eccitata per potersi godere, qualche istante ancora, il tepore delle coperte.
L’ultimo mese era stato particolarmente pesante, poiché, mentre tutti sembravano andare avanti con le loro vite, lei rimaneva in una sorta di limbo, in stasi, senza poter far nulla di realmente significativo.
In Italia, aveva l’abitudine di trascorrere le giornate libere acculturandosi riguardo la storia locale, partecipando ad eventi e visite guidate, recandosi presso l’immensa biblioteca cittadina e restandovi per ore; c’era sempre qualcosa di nuovo da scoprire, in quel paese tanto diverso dal suo, e non c’era momento in cui la mente della ragazza fosse libera di pensare alle persone che si era lasciata alle spalle.
Lì a Seattle, invece, era tutt’un altro discorso: il tempo libero, la noia, i ricordi prepotenti che prendevano vita ad ogni angolo di strada o dell’appartamento, evocavano visi sorridenti e istanti ormai perduti, tormentando la bruna fanciulla per ore.
Per quella serie di motivi, l’inizio del Corso di Scrittura Creativa al quale si era iscritta, sembrava una manna dal cielo e Carly sfrecciava lungo la stanza, gettando all’aria camicie e gonne, in cerca di qualcosa di adatto all’occasione.
Era stata un’idea azzeccata svegliarsi due ore prima del necessario dato che, mezz’ora dopo, Spencer fece capolino in quello che sembrava un campo di battaglia e, aggrottando le sopracciglia confuso, scorse la sorellina, seduta in terra ancora in pigiama, che borbottava irritata contro un pantalone che, a suo dire, aveva avuto l’ardire di essere troppo leggero per la stagione.
- Carly? Cos’è successo? E’ esploso l’armadio?- le domandò, facendosi strada tra le scarpe gettate alla rinfusa sul pavimento.
La ragazza sollevò lo sguardo incandescente su di lui. – Non ho niente da mettere!- sbottò, tirandogli il bolero che teneva tra le mani.
Spencer batté le palpebre un paio di volte. – Ehm, scusa, hai notato la mole spropositata di abiti che giace sul pavimento? A chi dovrebbe appartenere, alla nonna?- ironizzò.
- Non ti ci mettere anche tu, Spencer!- balzò su Carly, andando verso il letto e gesticolando animatamente. – E’ il mio primo giorno, tutti saranno impeccabili mentre io, che sono stata via due anni, non so nulla della moda di quest’anno e, così, farò una pessima impressione sul Professore che mi catalogherà come una sciattona e… - il fiume di parole fu interrotto dalla mano che il fratello le posò sulla bocca.
- Carly, respira.- le disse.
Obbediente, la ragazza trasse un grande respiro e, subito, avvertì la tensione scemare.
- Vuoi dirmi che succede? – le domandò Spencer, sedendosi ai piedi del letto.
Carly lo imitò, alzando le spalle e tenendo gli occhi sulle mani. – Ho paura. – confessò.
- Mi sento fuori posto, come se questa città non mi appartenesse più, come se fossi l’ospite che avrebbe dovuto trattenersi qualche giorno e, invece, ha deciso di restare. Ricordi Mandy? E’ come se percepissi di essere come lei, per te, Freddie, Gibby e tutti gli altri. Insomma, voi siete andati avanti, in questi due anni e non mi sorprende che sia difficile trovare un posto nelle vostre vite, ora. Per questo tengo tanto a questo corso: è il mio modo di tornare a casa, di trovare il mio posto qui, con voi. - disse.
- Carly, sei per caso caduta dal letto, stanotte?-
- Sii serio, Spencer.-
- Lo sono! Carly, tu sei mia sorella e nella mia vita ci sarà sempre un posto per te!-
La ragazza scosse la testa, poco convinta e forse incapace di spiegare appieno cosa provava.
Era felice, davvero felice, che le cose andassero così bene a Freddie e che perfino Gibby, con quel lavoro al Pear Store,  avesse trovato un impiego serio, che gli consentisse di diventare più indipendente, tuttavia, ciò che le faceva male e la destabilizzava, era la consapevolezza di aver perso l’ultimo anno di spensieratezza assieme a loro.
Era partita alla soglia dei diciotto anni, età perfetta per vivere tutte quelle avventure per cui, prima e dopo, si era troppo piccoli o si diveniva troppo grandi, così aveva perso gli ultimi ricordi legati al mondo infantile e giocoso di sempre, assieme a loro; ricordi che, lo sapeva, nessuno avrebbe mai potuto restituirle.
Carly temeva fortemente di aver perso, in quell’anno, anche le esperienze fondamentali che avevano cambiato, sebbene impercettibilmente, il suo migliore amico, suo fratello e Gibby, tanto da non sapere come approcciarsi a loro, adesso, forse preoccupata di non riuscire a leggere dentro di loro come in passato.
Erano discorsi complessi, forse più sensazioni, troppo difficili da esternare e a cui dare una logica.
- Carly, ascolta: i cambiamenti fanno parte della vita. Possiamo non trovarlo giusto, ma dobbiamo accettarlo. Prendi me, ad esempio: ho sempre pensato di essere un grande musicista, ma ho dovuto accontentarmi di fare l’artista.. .-
- Tu ami fare l’artista.-
- Sì, è vero, esempio sbagliato.- ammise Spencer, facendola sorridere.
- Quello che voglio dire, è che possono cambiare le persone, ma l’affetto, il volersi bene, quello resta lo stesso, sempre.- le disse, battendole un colpetto sulle mani.
Carly annuì. – Hai ragione. Devo pensare positivo.- decretò, alzandosi. – E devo fare shopping, appena torno dal corso.- aggiunse, guardandosi attorno accigliata.
Spencer si alzò, avviandosi verso la porta, dopo averle dato un colpetto in fronte con l’indice.
- Donne.- commentò, con un sospiro rassegnato. – Ti preferivo quando eri una cosetta alta meno di un metro!- le gridò, dal corridoio.
 
Carly salutò Freddie e scese dall’auto, ringraziandolo ancora una volta per averla accompagnata, prima di andare a lavoro.
- In bocca al lupo!- le disse il ragazzo, sporgendosi verso il finestrino del lato passeggero.
- Crepi.- mormorò Carly, intimorita ed eccitata al contempo, mentre saliva le scale di pietra che conducevano all’enorme ingresso della Facoltà.
All’interno, una folla di persone si accalcava in attesa degli ascensori, gruppetti di professori sostavano presso il chiosco, in attesa del caffè, qualcuno appendeva avvisi nella bacheca e subito altra gente accorreva, protestando o esultando a seconda di ciò che vi leggeva.
Carly si diresse alla reception, dietro la quale si trovavano due donne dall’aria sbrigativa e, picchiettato col dito sul vetro per attirare l’attenzione, sorrise. – Buongiorno. Mi chiamo Carly Shay, Carlotta in verità, ma tutti mi chiamano Carly e… - s’interruppe, notando che la donna la guardava, annoiata.
- … beh, ecco, il mio corso inizia oggi, ho qui il modulo… - estrasse dalla borsa il modulo e vi lesse il nome del professore e l’aula. -  Corso di Scrittura Creativa, professor Trust, aula B-16.-
- Segua il corridoio fino alla seconda colonna,  imbocchi la scala a sinistra e salga fino al terzo piano. L’aula B-16 è la seconda sulla destra.-
- La ringrazio.-
Carly camminò rapida, facendosi strada tra la folla, scusandosi di tanto in tanto quando finiva addosso a qualcuno e, divertita dal caos che sembrava generare l’Università, giunse finalmente alla scala in questione.
Non aveva mai immaginato che degli scalini potessero essere tanto alti, notò, quando raggiunse il terzo piano ansimando di fatica; trovare l’aula fu più semplice di quanto avesse creduto.
Sorprendentemente, a differenza del piano terra, tutti gli altri corridoi sembravano immersi in una quiete e in un ordine davvero ammirevoli.
Carly entrò in classe e si diede una rapida occhiata intorno: vi erano una ventina di posti a sedere, distribuiti con tre sedute per panca e l’intera stanza era tonda e illuminata dai raggi del sole che filtravano attraverso le due finestre alle spalle della cattedra.
Alle pareti, vi erano scaffali colmi di libri e diverse lauree in bella mostra, un mappamondo dall’aria antica padroneggiava nell’angolo a sinistra e il tutto le dava una sensazione di antico e sofisticato.
C’erano un altro paio di persone e Carly si affrettò a prendere posto, scegliendo una panca della fila centrale, decisamente avanti.
Qualche minuto dopo, l’aula si riempì completamente e tutti i posti furono occupati; una ragazza vestita in modo decisamente vintage si accomodò accanto a lei e si presentò come Anne Gallagher, le raccontò, in un soffio, metà della sua vita e la tempestò di domande.
Carly, sebbene stordita, fu contenta di aver fatto la conoscenza di una persona tanto disponibile e gentile, per quanto strana e logorroica.
L’altra ragazza che sedette alla loro panca era una biondina dall’aria glaciale e molto riservata, che si limitò a rivolgere a entrambe un cenno di saluto.
D’improvviso, nell’aula piombò il silenzio e Carly si accorse che un uomo, accompagnato da una giovane donna, stava avanzando tra le file di panche, diretto alla cattedra.
- Buon giorno a tutti.- salutò, con tono profondo e limpido, dopo aver posato una valigetta sulla cattedra.
- Sono il Professor Julian Trust, docente di Scrittura Creativa. – si presentò, appoggiandosi alla cattedra e sorridendo.
Il sole lo illuminò alle spalle, facendo risaltare la figura elegante e robusta, i capelli biondo cenere e gli affascinanti occhi azzurro ghiaccio.
Doveva essere sotto la quarantina, il suo sorriso era aperto e gentile, la postura rilassata, e le piccole rughe agli angoli degli occhi gli conferivano un fascino d’altri tempi.
- La signorina è la mia assistente, Jennifer White.- illustrò, facendo un cenno con la mano in direzione della donna che si era sistemata nella sedia libera accanto alla poltrona.
- Buongiorno a tutti.-
- Considerate la Signorina White come il mio secondo: se doveste avere dei dubbi, problemi, reclami, richieste, e io non fossi reperibile, potete rivolgervi a lei. – spiegò il professor Trust.
Una manciata di teste annuirono e l’uomo tornò dietro la scrivania, aprì la valigetta e ne estrasse un plico di fogli; inforcò un paio d’occhiali dalla montatura dorata e vi lesse qualcosa.
- Non è consuetudine fare l’appello, all’Università, ma, dato che preferirei chiamarvi per nome, col vostro permesso, invece che “Signorina” o “Signore”, mi perdonerete se, per le prime settimane, farò l’appello, così da imparare a riconoscervi.- disse, sempre in tono gentile e amichevole.
Così, il professor Trust prese a leggere, ad alta voce, i nomi delle persone iscritte al suo corso, in ordine alfabetico e Carly si sorprese a scoprire che vi erano un totale di ventidue studenti, di cui sedici erano ragazze e soli sei ragazzi.
Come fosse possibile che la letteratura e la scrittura non interessassero il genere maschile rimaneva, per la fanciulla, un grande mistero.
- … Carlotta Shay?- chiamò il professor Trust, sollevando gli occhi grigi a incontrare quelli di Carly, che aveva alzato la mano.
- Presente.- disse.
- Ehi, un momento! Ecco dove ti ho già vista!- esclamò una voce, proveniente dalla fila a sinistra.
A parlare era stato un ragazzo che sembrava poco più grande di lei. – Sei quella di ICarly!- aggiunse.
Carly arrossì, annuendo vagamente.
- Oh! Ha ragione! Come ho fatto a non accorgermene subito?!- si accordò Anne, sorridendo, radiosa. – Adoravo il vostro show! Adesso che sei tornata a Seattle, riprenderete a girarlo?- chiese.
Il Professor Trust si schiarì la voce, richiamando l’attenzione. – Non sapevo avessimo una star, tra i corsisti.- sorrise, privo di scherno. – A quanto vedo, sei parecchio conosciuta, signorina “Carlotta Shay”.- aggiunse, togliendo gli occhiali.
- Carly.- rispose, istintivamente, lei.
- Carly.- sorrise il Professore. – Mi aspetto grandi cose da te; dall’entusiasmo che ho visto nei tuoi compagni, il tuo show – spero tu voglia perdonarmi se non lo conosco – doveva essere interessante.- disse.
Carly tacque, imbarazzata, limitandosi a stringersi nelle spalle.
Lo sguardo dell’uomo l’accarezzò ancora qualche istante, prima che inforcasse gli occhiali e  tornasse a focalizzarsi sul foglio di carta che teneva tra le mani, riprendendo a leggere.
Finito l’appello, la lezione poté cominciare senza ulteriori intoppi e Carly riuscì a rilassarsi e godersi quel primo giorno senza problemi, fatta eccezione per qualche domanda di troppo fatta da Anne proprio mentre lei prendeva appunti.
Il professor Trust illustrò il programma del corso, spiegando in cosa avrebbe consistito e quali testi avrebbero adottato; l’intera durata del corso era pari a sei mesi e, in seguito, vi era la possibilità di iscriversi ad un ulteriore semestre di approfondimento.
Ogni mese, vi sarebbe stato un test di verifica della comprensione degli argomenti trattati e, alla fine del semestre, un esame orale.
Carly non poté fare a meno di notare che, di tanto in tanto, lo sguardo dell’uomo l’accarezzava, quasi incantato, facendola arrossire bruscamente.
Dandosi della sciocca, la ragazza si impose di seguire attentamente la lezione, concentrandosi sulle parole che le labbra sottili dell’uomo scandivano con tanta enfasi e convinzione.
Quando, due ore dopo, la campanella suonò, Carly si sorprese che il tempo fosse trascorso tanto rapidamente e, frastornata, si affrettò ad alzarsi e sistemare il blocco degli appunti in borsa.
Uscì, sotto lo sguardo del professor Trust e fu subito circondata da un gruppetto di compagni che aveva domande su ICarly e che la trattennero fino al Cortile, dove Freddie l’aspettava in macchina.
Il ragazzo suonò il clacson e Carly si rivolse al gruppetto. – Scusate, devo andare adesso. E’ stato un piacere conoscere tutti voi.- disse.
- Oh! Quello è Freddie?- domandò, trillante, Anne.
- Sì.-
- State insieme?- le domandò la bionda che era stata seduta accanto a lei senza mai rivolgerle la parola.
- No.- rispose, secca, Carly, allontanandosi poi verso l’auto e accorgendosi dello sguardo inespressivo con cui la ragazza li osservava.
- Ciao.-
- Oddio, credevo di non riuscire ad arrivare alla macchina!- sbottò, gettando la borsa sul sedile posteriore.
- Anche io sto bene, grazie.- scherzò Freddie, facendo manovra.
- Scusa, è che è stata una giornata strana.-
- E’ andata così male?-
- No, fin troppo bene, direi.- e, mentre tornavano a casa, Carly raccontò a Freddie del corso e di Anne e poi della bionda algida.
- Quella vestita di azzurro?- le domandò lui.
- Proprio lei.- annuì Carly.
- Sembra carina.-
La ragazza lo sguardò, scuotendo la testa e sospirando tra sé.
 
 
 
Novembre fu il mese in cui il freddo avvolse definitivamente Los Angeles, che, a differenza di molte altre città Statunitensi, aveva mantenuto un clima caldo fino a quel momento.
Sam, avvolta in un giubbotto nero e imbottito, uscì intenta a infilare i guanti, col casco a penzoloni da un avambraccio.
Non appena fu salita a bordo ed ebbe imboccato il vialone principale, il vento gelido le sferzò il viso e capelli, gelandole le mani e penetrando sotto il giubbotto.
- Porca miseria.- commentò la ragazza, ignorando un semaforo rosso e ingranando la marcia.
Non aveva intenzione di congelare, quindi doveva sbrigarsi ad arrivare allo stadio degli incontri dell’ AMM.
Ovviamente, la persona che l’aveva obbligata – o convinta, a seconda che a raccontare fossero lei o lui – a uscire con quel gelo, abbandonando il tepore del divano, la torta di zucca e la cioccolata calda preparata da Cat, per fare chissà che, dato che non aveva voluto rivelarle nulla a telefono, non poteva essere altri che Dylan.
Quell’idiota l’aveva chiamata poco dopo pranzo, ignorando la minaccia che Sam gli aveva rivolto qualche giorno prima, ovvero di spezzargli le dita se avesse osato telefonarle ancora mentre faceva il solito pisolino pomeridiano, l’aveva intontita di chiacchiere e le aveva detto di presentarsi allo stadio per le cinque.
Ora, che quel tipo osasse darle un ordine, dopo essere spartito per cinque giorni, non essersi presentato a lezione e non averle nemmeno mandato un sms per avvisarla di essere vivo – non che le importasse qualcosa o desiderasse sentirlo, si ripeteva, era solo una questione di principio – , non era una cosa che Samantha Puckett poteva tollerare.
Così, dopo aver inveito contro di lui per buoni dieci minuti e averlo, infine, mandato al diavolo, si era arresa all’idea di vestirsi e uscire, decisa più che mai a dare una bella lezione a quello lì.
Mai, tuttavia, avrebbe creduto che l’occasione di tirare a Dylan un paio di calci nel sedere le sarebbe stata offerta proprio dal malcapitato in questione.
Quando, di fatti, Sam fece il suo ingresso nello stadio vuoto, avanzò fino al ring e vi salì, entrando nella gabbia, ecco apparire Dylan, intento a scendere le scale degli spalti.
- Razza di deficiente, chi ti credi di essere?- urlò Sam, avvicinandosi alla rete.
- Ciao anche a te, ragazzina.- ironizzò lui, scendendo gli ultimi gradini con un salto e girando attorno al ring fino a raggiungere l’entrata.
- Ciao, idiota.-
Dylan rise. – Va già meglio.- disse, raggiugendola.
Indossava un paio di jeans pesanti, un giubbotto scuro e aveva i capelli in disordine, come se il vento li avesse scompigliati più volte.
Quando fu sotto i riflettori, Sam notò che aveva un labbro tagliato e un brutto livido su uno zigomo; nervosa, si avvicinò, assottigliando lo sguardo, preoccupata.
- Cos’hai fatto?- gli chiese, allungando le dita per poi ritrarle senza sfiorarlo.
Lui afferrò la mano che lei aveva lasciato cadere e se la posò sulle labbra. – Niente.- disse, mordendole piano l’anulare.
Sam nascose il brivido che quel contatto le aveva provocato nella spinta che gli diede per allontanarlo.
- Dylan, cominci a darmi seriamente sui nervi, vuoi spiegarmi che sta succedendo?- gli domandò, irritata.
Sebbene Sam si riferisse, ovviamente, ai lividi che aveva sul viso, Dylan le diede le spalle e si avvicinò alla porta del ring, chiudendola. – Non è chiaro?- le domandò. – Ti facevo più intelligente.- aggiunse, cominciando a sfilarsi il giubbotto.
Sam incrociò le braccia e prese a scandire il tempo col piede, battendolo ritmicamente.
Dylan fece roteare gli occhi al soffitto. – Dici sempre che vuoi picchiarmi.- illustrò. – Ne hai l’occasione.- aggiunse, indicandole il ring, mentre, intanto, si toglieva l’orologio.
Sam spalancò gli occhi. – Vuoi combattere con me?- gli chiese.
Lui annuì, strizzandole un occhio. – Paura, Puckett?- la schernì.
Sebbene ancora preoccupata per lui , perché era sparito senza dare spiegazioni per poi tornare, pieno di lividi, solo cinque giorni più tardi, Sam sentì l’adrenalina farsi strada dentro di lei.
Ce l’aveva con lui, era furiosa con lui, perché non faceva altro che tormentarla, mandarla in tilt, sparire e farla preoccupare, attrarla e respingerla, senza una logica o un motivo preciso.
Il desiderio di togliergli quel sorrisetto insolente dal viso e, al contempo, baciarlo, creavano una miscela letale nel cuore della ragazza e Sam si ritrovò a sorridere, pericolosa.
Calò la zip del giubbotto e, sfilatoselo, lo lanciò in un angolo. – Vuoi chiamare qualcuno, prima di ritrovarti con le ossa rotte, per informarlo che sarai presto in ospedale?- chiese, gaia.
Sul voltò di lui, per un istante soltanto, un’espressione amara fece capolino, svanendo immediatamente. – No, non c’è nessuno che voglio chiamare.- rispose, camminando fino al centro del ring.
Sam raccolse la massa di capelli biondi in una coda che arrotolò su se stessa e bloccò con un codino, poi lo raggiunse.
- Non ti farò male.- le promise Dylan, sollevando le mani, guardandola dolcemente.
Il primo pugno di Sam lo raggiunse in pieno stomaco, costringendolo a piegarsi.
- Io sì.-
Il ragazzo si sollevò, sorridendo appena e, dopo aver scosso la testa, provò un affondo a destra che Sam evitò facilmente, senza accorgersi, tuttavia, che lui aveva caricato già il sinistro che la mandò a terrà, sebbene senza farle troppo male.
Sam roteò su se stessa e, ancora stesa, scalciò, mandando Dylan a sbattere contro la rete metallica, poi, rialzatasi, si scagliò contro di lui, che, tuttavia, si scansò, arrivandole subito alle spalle e bloccandole le braccia dietro la schiena.
La ragazza gettò indietro la testa con violenza, colpendolo al naso e subito lui la lasciò, evitando per un soffio il calcio rotante che Sam aveva tirando, voltandosi.
Quando, però, lei alzò di nuovo la gamba con violenza, Dylan le afferrò la caviglia, bloccando il suo calcio a mezz’aria e, con un piede, le fece perdere l’equilibrio della gamba con cui si teneva in piedi, mandandola col sedere per terra.
Fu subito sopra di lei, bloccandole le gambe con le proprie e le mani contro il rivestimento del ring.
- Sei al tappeto, Puckett. Arrenditi.- le sussurrò, all’orecchio.
Sam si dimenò sotto di lui, con le gote in fiamme e un velo di sudore a impregnarle la fronte.
Agitandosi, riuscì a piegare un ginocchio e colpirlo dritto nell’inguine, cosicché Dylan fu costretto a piegarsi dal dolore e Sam, rimettendosi dritta, in ginocchio, gli afferrò entrambe l braccia, sbattendolo a terra sulla pancia e, tenendolo fermo, si accostò al suo orecchio.
- Hai parlato troppo presto, Bennett.- disse, lasciandolo solo per tornare in piedi.
Mentre anche lui si rialzava, Sam si massaggiò le braccia, dove le dita di Dylan avrebbero di certo lasciato un segno del loro passaggio.
Il ragazzo si avviò verso l’angolo in cui aveva lasciato la propria roba e Sam, con le mani sui fianchi, gli gridò dietro. – Scappi?- lo schernì.
Lui, ridendo, afferrò qualcosa da terra e glielo tirò. – Sta’ un po’ zitta, Puckett!- esclamò.
La bottiglietta d’acqua tra le mani di Sam era gelida e la ragazza bevve troppo in fretta, gelandosi lo stomaco.
- Non dirmi di stare zitta.- lo minacciò, restituendogliela.
- Certo, certo. Pronta?- le chiese Dylan, tornando di fronte a lei.
- Quando vuoi.-
Stavolta, il primo colpo fu del ragazzo che, colpita Sam al fianco e fattala sbattere contro la rete, avanzò in fretta, pronto ad affondare ancora, se la ginocchiata della ragazza, parata da Dylan, non avesse arrestato il suo attacco.
Lui si piegò, prendendola nello stomaco con una spalla e Sam, istintivamente, si piegò in avanti; Dylan, allora, la sollevò come fosse un sacco di patate e prese a girare su se stesso.
- Idiota! Mettimi giù! Dylan, dico sul serio, voglio scendere!- gridò Sam, tempestandogli la schiena di pugni fino a che, a furia di scalciare, la punta del suo stivale non lo prese nello stomaco e entrambi caddero al suolo.
Dylan rotolò di lato, per non pesarle addosso e, sfiniti, restarono tutti e due stesi a terra, ansanti e seduti, soddisfatti e rilassati.
Avevano bisogno di sfogarsi e quello era il modo perfetto di farlo, per entrambi.
Dopo diversi minuti di silenzio, quando i rispettivi cuori ripresero a battere normalmente, lui voltò appena il capo verso di lei. – Mi dispiace di essere sparito.- le disse.
Sam si ostinò a tenere lo sguardo fisso sul soffitto a punta. – Già.- si limitò a dire, sebbene, per lei, il non mettersi a sbraitare di non aver nemmeno notato la sua assenza, fosse una grande fatica.
- Ti ho fatto male?- le chiese, con quel tono insolente che non riusciva a nascondere del tutto la nota di preoccupazione e timore insita nella sua voce.
Sebbene, infatti, non avesse usato molta forza per colpirla, temeva comunque di aver esagerato senza volerlo; sapeva che Sam, sebbene sembrasse fatta d’acciaio, era come tutte le altre ragazze – e persone -:  fatta di carne.
Sam si voltò a guardarlo con un sopracciglio alzato. – Devo avertele date troppo forte.-
Lui rise, scuotendo la testa. – In effetti, te la cavi, ragazzina.- le disse.
Di nuovo, restarono in silenzio, per niente imbarazzati o turbati, senza bisogno di riempire quei momenti con parole vuote.
Poi, facendo uno sforzo disumano, Sam riuscì a mormorare: - Si può sapere dov’eri finito?-
Il tono timido e, al contempo, brusco della ragazza, impedì a Dylan di mantenere quella distanza che sempre cercava di mettere fra sé e gli altri.
Sam, in particolare, era una sorta di terremoto, un tornado, che andava avanti, lungo la strada che conduceva dritto dentro di lui, inarrestabile, trascinando e distruggendo ogni cosa lungo il percorso, comprese quelle barriere d’acciaio e cemento che proteggevano il suo cuore.
Più tentava di starle lontano, più la cercava, la inseguiva, gli mancava.
- Mio padre era in città.- rispose, sommessamente.
Sam, che il padre non l’aveva mai conosciuto, si ritrovò a chiedersi perché Dylan non sembrasse felice di aver visto il suo.
- E?-
Il ragazzo sospirò, sollevando un braccio e portandolo sulla fronte, i pugni si strinsero automaticamente.
- Mio padre non è stato un grande uomo, per metà della sua vita.- le raccontò. – Beveva, era violento con mia madre e con me.- spiegò, brevemente, perché rievocare quei ricordi, i ricordi di un bambino spaventato, fermo sulla scala tra il primo e il secondo piano della loro casa, in pigiama, intento ad ascoltare le grida e i colpi, gli provocava ancora un dolore immenso.
- Per questo ho cominciato ad appassionarmi alla lotta. Avevo dodici anni e il tizio che insegnava AMM mi notò, dato che, ogni pomeriggio, spiavo gli allenamenti dalle vetrine, non avendo il coraggio di chiedere a mio padre i soldi per l’iscrizione. Era un brav’uomo, così un giorno venne fuori a parlare con me, mi domandò se mi sarebbe piaciuto provare e mi propose di aiutarlo con guantoni, caschi e tutto il resto, in cambio. Ovviamente, accettai.
L’anno dopo gareggiavo nel campionato juniores e, poco prima dell’estate, mandai mio padre in ospedale con due costole rotte e una commozione cerebrale. Non tornò mai a casa, prese un pullman appena dimesso e sparì dalle nostre vite per i successivi cinque anni. –
Sam ascoltava il racconto il silenzio, tanto dispiaciuta per Dylan che il suo desiderio più grande era quello di abbracciarlo stretto e mormorargli che non era solo ma, sapeva bene, l’armatura che lui si portava attorno si sarebbe immediatamente chiusa, lasciandola fuori.
Si limitò a sfiorargli un braccio con le dita, quasi causalmente e lui parve accettare quel contatto come il sostegno di cui aveva bisogno.
- Quando tornò, aveva una nuova moglie, un nuovo lavoro e una nuova figlia.- raccontò, con voce sprezzante. – Si era ripulito, aveva fatto carriera e implorava il mio perdono, oltre che quello di mia madre.- continuò. – Non volli nemmeno parlargli, lo sbattei fuori casa e litigai follemente con mia madre, che insisteva affinché io gli dessi una possibilità.- disse.
Sorrise, amaro. – Sai, forse sono più arrabbiato con lei che con lui: insomma, una madre dovrebbe proteggere i propri figli da qualsiasi cosa e lei non ha mai avuto la forza di buttare quel verme fuori di casa.- fece, pensoso.
- Che stronzata.-
Lui si volse a guardarla, accigliato.
- Sbagli, Dylan, di grosso; tu vedi tua madre solo come tale, in relazione a te. Non pensi che, prima di essere tua madre, lei è una donna, una persona e le persone hanno paure e debolezze. Essere madre non rende, automaticamente, invulnerabili e invincibili. Anche le madri sbagliano, come sbagli tu. Perché a te un errore dev’essere perdonato e a tua madre no?- ribatté Sam, pensando alla propria di madre che, per quanto pessima fosse, le era sempre rimasta accanto, al contrario di suo padre, che aveva abbandonato sia lei che Melanie.
Dylan si tirò a sedere, scontroso. – Lei ha sbagliato per tredici anni.- disse.
- Ritieniti fortunato, allora: ci sono madri che sbagliano tutta una vita e io ne so qualcosa.- rispose Sam, alzando le spalle.
Lui lasciò cadere l’argomento e rimasero zitti qualche istante.
- Cosa c’entra tuo padre con il labbro spaccato e i lividi?- domandò lei.
Dylan gettò il capo indietro. – Torna in città ogni anno, sotto Natale, desideroso di riconciliarsi, chiedendo ancora scusa, pregandomi di trascorrere le feste con lui e la sua famiglia. Ogni anno, finisce con me e lui che ce le diamo di santa ragione, anche se, devo ammetterlo, non picchia duro.- raccontò.
Anche Sam si mise seduta. – E’ da quando avevi diciotto anni che, ogni Natale, tuo padre arriva in città per chiederti scusa e implorarti di dargli una possibilità?- ripeté.
Dylan annuì.
- Dove vive?-
- Da qualche parte in Florida.-
Sam lo guardò a bocca aperta. – E’ lontanissimo!- commentò.
Lui alzò le spalle, indifferente. – Mai troppo lontano, per quel che mi riguarda.-
La ragazza scosse la testa, frustrata, poi decise che non fosse quello il momento di far capire a Dylan quanto desiderasse, lei, avere un padre che, ogni anno, indifferente al lungo viaggio, la raggiungesse per implorare il suo perdono per essere sparito nel nulla.
Del resto, lei non poteva sapere cosa doveva aver provato lui, da bambino, a causa di quell’uomo che, adesso, agognava una possibilità di star vicino a suo figlio.
- Si è risposato?-
- Sì e ha una bambina.- il tono di Dylan si era di molto addolcito.
- Come si chiama?-
- Laura, frequenta la seconda elementare.-
- E tu come lo sai?-
Il ragazzo la guardò di traverso. – La sento al telefono, a volte.- confessò.
Sam sorrise. – Quindi non la detesti.- commentò.
- Lei non c’entra niente, è una bambina adorabile.-
- E’ già un inizio.-
Dylan le lanciò uno sguardo, sospirando.
 
 
 
 
 
 
- Ciao!- esclamò Freddie, chiudendosi la porta dell’appartamento di Spencer e Carly alle spalle.
Il ragazzo sollevò lo sguardo. – Oh, ciao Freddie. Dov’è Carly?- chiese.
- Mi ha chiesto di lasciarla al Centro Commerciale.-
Spencer, intento a dar vita a una delle sue sculture, si arrestò e fissò l’altro. – Papà capirà che è stato uno sbaglio regalarle una carta di credito.- decretò.
- Temo di sì.- annuì Freddie, sedutosi al bancone. – Che combini?-
- Questa, amico mio, è la scultura che mi farà vincere una mostra al Museo di Seattle!- esclamò Spencer, euforico, alzando di scatto le braccia cosicché una palla da tennis, che teneva nella mano destra, volò fino al tavolino e ruppe la lampada che vi era posata.
- Ops.-
- Di che mostra parli?-
- Il comitato artistico del Museo ha indetto un concorso per artisti esordienti: c’è tempo fino alla fine di Novembre per presentare un’opera propria e inedita e, a inizio Dicembre, saranno scelti tre vincitori che avranno la possibilità di organizzare una mostra di tutte le loro opere.-
Freddie alzò un sopracciglio in un espressione sorpresa. – Sembra un’ottima opportunità.-
Spencer batté le mani sul bancone. – Questa è l’opportunità, amico! Quella che capita una sola volta nella vita, quella che decreterà il mio futuro di artista, quella che… -
- Ho capito, ho capito!-
- Parliamo di una mostra nel verso senso del termine: una serata in abito elegante, con cocktail e gamberetti e critici d’arte che vagano per ogni dove, osservando e valutando e criticando… - il volto di Spencer perse colore e lui si aggrappò alla maglia di Freddie.
- Oh, mio Dio, non sono pronto!- esclamò, ansimante.
- Ma se fino a due secondi fa sembravi uno che ha vinto le Olimpiadi!-
- Non capisci! Critici di ogni Paese vedranno i miei lavori e se non dovessero piacere… oh, la critica mi stroncherà e sarò costretto a tornare a lavorare da quel dentista odioso… -
Il treno Spencer era ormai partito e il delirio continuò fino a quando Freddie, esasperato, non gli tirò la mela che aveva addentato.
Spencer lo guardò male, massaggiandosi il braccio. – Ahi! Potevi rompermi qualcosa! Come avrei fatto, poi, a completare la mia scultura?- chiese.
Freddie osservò le palle da bowling impilate sull’asse di legno orizzontale, poi le palline da tennis che creavano una cupola sopra quelle da bowling, poggiandosi anche loro all’asse orizzontale.
- Spencer, non voglio dirti come fare il tuo… ehm, lavoro, ma non credo che quell’asse di legno riuscirà a sostenere il peso di tutto.- commentò, alzandosi e avvicinandosi alla scultura.
L’altro scosse la testa. – Non preoccuparti, è tutto sotto controllo!- affermò, prima di posare l’ennesima palla da bowling.
Si udì, inizialmente, uno scricchiolio, seguito da un rumore sinistro, come di acciaio che stride, e, infine, l’asse si spezzò nel mezzo, tutte le palle da bowling caddero al suolo e rotolarono per ogni dove, mentre quelle da tennis rimbalzavano ovunque.
Una palla in particolare, pesante e color prugna, prese in pieno il piede di Spence, mandandolo al tappeto, cosicché tutte le palline da tennis lo investirono, costringendolo a ripararsi  la testa con le braccia.
Freddie, tiratosi indietro giusto in tempo, osservò la scena scuotendo la testa, rassegnato.
Spencer, riemerso dai cocci della sua “scultura”, mormorò, con voce strozzata. – Sto bene, sto bene.- prima di cadere di nuovo disteso al suolo.
- Freddie?-
- Sì?-
- Mi accompagneresti dal ferramenta a comprare una sbarra d’acciaio?-
- Volentieri.-
Furono di ritorno presto e così Freddie propose di passare al Pear Store, dove, da qualche settimana, Gibby lavorava come commesso.
Parcheggiata l’auto, entrarono nell’immenso negozio, alla ricerca dell’amico, ma l’attenzione di Spencer fu subito catalizzata da una ragazza mora, bassina, che osservava alcune cover.
- Credi di avere chance?- domandò Freddie, indicando la ragazza con un cenno del capo.
Era senza dubbio bella, con gli occhi scuri, le labbra carnose, la pelle chiara e i lunghi capelli mossi.
Spencer si sistemò un immaginario colletto di un’immaginaria camicia. – Guarda e impara.-
La raggiunse e, dopo aver finto per qualche istante di fissare le cover, si rivolse a lei.
- Ciao.-
- Ciao.- fece la ragazza, divertita e curiosa al contempo.
- Vuoi acquistare una cover?-
Freddie si portò una mano alla fronte, ridendo.
Lei, invece, si trattenne. – No, in effetti le fissavo aspettando che mi parlassero.-
Spencer batté le palpebre, allibito. – Oh.- fece, guardando Freddie. – E’ sarcastica?- chiese, mimandolo e nascondendo le labbra con una mano.
Il ragazzo alzò due pollici, annuendo.
- Sei simpatica.-
- Tu sei strano.-
- Sono un artista.- commentò Spencer, sorridendo.
- Davvero? –
- Certo. Tu di cosa ti occupi?-
- Sono sceneggiatrice.-
Spencer si grattò la testa e lei colse il lampo di confusione, perché aggiunse. – Scrivo sceneggiature per programmi televisivi.- gli spiegò.
- Wow, devi essere una importante, allora.-
- Così sembra.- rise, di cuore, la ragazza.
- Sono Spencer.- lui le porse la mano.
- Alison. Sono lesbica.-
Spencer la guardò, a bocca aperta, pietrificato, con la mano, che lei aveva lasciato da un pezzo, ancora a mezz’aria.
La risata della ragazza, dolce e armoniosa, risuonò nel negozio. – Scherzavo.- disse, scuotendo la testa.
 
Freddie, intanto, aveva raggiunto Gibby, intento a sistemare alcuni telefoni in vetrina.
- Ehi, dov’è Carly?- gli domandò questi.
- Al Centro Commerciale.-
Gibby rabbrividì.
- Già. Fortuna che non ha insistito perché restassi a tenerle compagnia.- commentò Freddie.
L’altro ragazzo sospirò. – Sai, prima era Sam a fare queste cose con lei, sì, insomma, tutte quelle stupidaggini da ragazze… - mormorò, interrompendosi quando notò lo sguardo dell’amico rabbuiarsi.
Si voltò, chiudendo la vetrina e fronteggiando Freddie. – Si può sapere perché sei tanto arrabbiato con lei?- chiese, allargando le braccia.
- Io non sono arrabbiato con Sam.- rispose, istintivo, Freddie, accigliandosi.
- Oh, questa è bella! Ogni volta che qualcuno la nomina, ecco che il tuo umore diventa nero. E’ nostra amica, Freddie, è giusto che ci manchi e non voglio dover stare attento a non pronunciare il suo nome.- dichiarò Gibby, frustrato.
Anche lui, come Spencer, aveva sperato di poter vedere di nuovo riunito, tutto il loro gruppo e sapere che, invece, col ritorno di Carly le cose sarebbero rimaste le stesse, era stato un duro colpo.
Quei tre erano stati i suoi primi, veri, amici ed erano egualmente importanti per lui.
Sapeva bene, forse più di Freddie e Carly, quanto Sam avesse sofferto, già prima di partire e lasciare Seattle, per quell’amore troppo difficile da tenere in vita.
Ricordava, come fosse ieri, il giorno in cui aveva aperto il ristorante e Sam aveva capito che Freddie aveva ancora una cotta per Carly: nell’espressione della biondina, il cuore spezzato e il dolore, erano stati evidenti.
Per quel motivo, Gibby non riusciva a tollerare che, ogni volta che si nominava o si faceva riferimento a Sam, Freddie sembrasse folle di rabbia e isterico.
Anche Carly se n’era andata, eppure lui non la guardava come a volerla incenerire.
- Ti sbagli.-
Gibby sospirò, alzando le spalle. – D’accordo, Freddie, come vuoi.- disse.
- Già. Vado, ho un incontro di scherma.- dichiarò il ragazzo, voltando le spalle e allontanandosi.
Gibby aveva ragione, lo sapeva: era furioso con Sam. Quello che, invece, Freddie non sapeva era il perché. Perché non riuscisse nemmeno a sopportare di pensare a lei, perché non riuscisse a rievocare il suo viso, i suoi occhi, il suo sorriso, senza sentire una rabbia folle montargli nel petto.
Solo mesi dopo, messo di fronte a una realtà che mai si sarebbe aspettato, avrebbe capito di non essere furioso con Sam, affatto: lui era furioso con se stesso per ciò che le aveva fatto.
- Spencer,  sto andando via.-
L’altro annuì. – Ci vediamo dopo.- disse, concentrato sulla nuova amica.
- Non avevi una scultura da finire?-
- Stasera.-
- Ci si vede, allora.-
Mentre Gibby osservava Freddie lasciare il negozio, un collega si avvicinò, fissando lo stesso punto.
- Un tuo amico?- chiese.
Gibby si voltò a guardarlo: era alto e robusto, aveva i capelli scuri e gli occhi nocciola.
Sorrideva, amichevole e gli porse la mano. – Non siamo ancora riusciti a presentarci, sono Scott.- disse.
- Gibby.-
 
 
 
Sam chiuse la porta e si gettò, immediatamente, sul divano, schiacciando letteralmente la povera Cat, addormentatasi mentre l’aspettava.
- Ahi!-
- Cat! Perché non sei nel tuo letto?- domandò Sam, tirandosi su e sedendosi.
L’altra, massaggiandosi la schiena, fece lo stesso, raggomitolandosi contro la spalliera e avvolgendosi le coperte attorno. – Si gela. – commentò.
- Mi dici che ci fai sul divano?-
- Ti aspettavo, ovviamente. Sei uscita nel pomeriggio e non mi hai detto niente, non sapevo a che ora saresti tornata, ero preoccupata.- rispose Cat, con quella sua vocetta squillante.
- Dov’eri?- chiese.
- Con Dylan.- disse Sam, scalciando via gli stivali.
- Oh.- squittì Cat, sorridente.
- Cos’era quel “oh”?-
- Quale “oh”?-
Sam alzò un sopracciglio. – Il tuo. L’ “oh” che sembra voler dire “avrei dovuto immaginarlo”.- imitò la vocetta fastidiosa delle ragazze che fanno le oche.
- Ti sbagli, il mio era un “oh” che voleva significare: che carini, finalmente avete fatto pace.-
Sam sbuffò, alzandosi e avviandosi verso la loro stanza e Cat, inciampando nella lunga camicia da notte che indossava, la seguì.
- Allora?- chiese.
- Allora cosa?-
- Dove siete stati?-
- Allo stadio di lotta.-
- Oh. Non è molto romantico, anche se, trattandosi di voi, forse lo è… -
- Non era un incontro romantico, Cat, quante volte dovrò ripeterlo?-
- Non lo so, fino a che non ci crederai?-
Sam le lanciò uno dei suoi cuscini e l’altra si ritrovò supina sul proprio letto.
- D’accordo, come vuoi. – rise. – Oh, dimenticavo; è passato Dice e ti ha lasciato il libro che gli avevi prestato.- la informò.
- Poteva tenerlo, non ho intenzione di perdere tempo a studiare.- commentò Sam, spogliatasi.
- Ma, Sam, come farai a sostenere l’esame?-
- Copierò.- rispose l’altra, già sotto la doccia.
 
 
  
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