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Autore: Omlynee    25/11/2014    3 recensioni
In un mondo completamente devastato dalla guerra, tre ragazze lottano ogni giorno per la sopravvivenza. Vivono in una città che loro credono priva di popolazioni civili ma, quando una di loro si imbatte in una di esse, le loro vite cambieranno per sempre.
Dal capitolo 2:
Abbassai lo sguardo, cercando dove avevo lasciato la mia cena e notai due figure che, arrivando dalla strada più grande, si avvicinavano alla carcassa.
- Ehi, Kai, guarda qua - disse uno all'altro, indicando il cadavere.
L'altro si avvicinò all'animale e si chinò su di esso. lo vidi afferrare saldamente la mia freccia, ancora conficcata nel costato, e sfilarla.
- Non siamo soli, David. c'è qualcun altro qui - e, così dicendo, alzò lo sguardo alla ricerca di qualcosa, o meglio, qualcuno.
Posò lo sguardo sull'edificio su cui mi trovavo.
Mi abbassai velocemente, appiattendomi sul tetto del palazzo, sperando di non essere vista. Ma in cuor mio sapevo che era troppo tardi: i nostri sguardi si erano incrociati per meno di un secondo, ma abbastanza da far intendere all'uno la presenza dell'altra.
Genere: Fantasy, Romantico, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 1: Radioactive

 

I'm waking up, I feel it in my bones
Enough to make my system blow
Welcome to the new age, to the new age
Welcome to the new age, to the new age
Whoa, whoa, I'm radioactive, radioactive
Whoa, whoa, I'm radioactive, radioactive

Radioactive, Imagine Dragons

 

Adoravo l'aria fresca del mattino, mi mettevo seduta sulla balaustra della piazza e respiravo la brezza leggera che spiava da nord. Spesso mi raggiungevano anche Gaia e Giulia, anche se loro preferivano rimanere nel nostro rifugio. Non distava molto, solo qualche isolato, ma il tragitto era sconnesso e faticoso da percorrere. Quelle che un tempo erano strade piatte e curate, facilmente percorribili, adesso erano solcate da crepe e da pezzi di edifici crollati. Le guerre avevano devastato la città. Ma non era l'unica: tutta l'Europa era ridotta in quello stato, campo di battaglia delle cinque guerre mondiali. Era stata abbandonata a se stessa, nessuno aveva mai provato a ricostruire gli edifici o ripopolare le case. I più ricchi si erano trasferiti nelle grandi città d'America, lasciando i più poveri nella miseria più assoluta.
Io abitavo in quella che un tempo era l'Italia, adesso solo un cumulo di macerie apparentemente deserto. "Apparentemente" perché tra i buchi delle strade e le stanze dei palazzi semidistrutti, vivevano uomini e animali con caratteristiche che un tempo si potevano solo immaginare. Gli effetti che le diverse bombe atomiche scagliate sul suolo europeo nel corso dei vari scontri, non furono solo morte e malattia: con il passare degli anni molti avevano sviluppato degli anticorpi contro la peste nucleare, altri avevano assimilato il morbo, diventando un tutt'uno con esso. Ciò aveva permesso loro di diventare più forti fisicamente, ma rese anche le loro menti devastate e incapaci di ragionare, erano diventati animali selvaggi con corpi di uomini. Erano pericolosi, seguivano solo il loro istinto, non distinguevano il nemico dall'amico, infatti non vivevano mai in gruppo. Cacciavano da soli e i loro cibo preferito era la carne, anche se, in caso di necessità, si nutrivano anche di frutti e bacche. Sugli animali aveva avuto un risultato simile: i conigli, ad esempio, erano diventati più grossi e feroci, con i denti strappavano la carne delle loro prede e la ingurgitavano avidamente. Erano spietati, voraci e implacabili, ma erano stupidi e facilmente catturabili.
Questo era quello che avevo imparato nel corso dei miei quindici anni di vita, osservando e studiando ciò che mi circondava.
La mia esperienza nel mondo non era molta, di questo ne ero consapevole, ma adattarmi alle situazioni peggiori era diventata per me una routine.
Ero nata nel bel mezzo della quinta guerra mondiale, nei cunicoli sotterranei di una Firenze devastata. Mia madre si infettò di peste nucleare quando era ancora incinta e ne morì pochi giorni dopo avermi partorito. La malattia, straordinariamente, non influì affatto sulla mia salute e crebbi insieme agli altri bambini, accudita dalla comunità. La mia innocenza infantile non mi permetteva di avere tanta paura quanta ne avrei dovuta avere realmente. Passavo momenti felice, senza immaginare una vita migliore, perché la mia allegria era racchiusa in quegli sporchi e puzzolenti tunnel.
Mio padre tornò a casa dalla guerra quattro anni dopo la mia nascita, distrutto da tutto il male che aveva visto e venne accolto da altro male, una moglie morta e una figlia da accudire. Crebbi con lui sana e forte sotto i suoi insegnamenti. Imparai l'arte della difesa e a brandire le armi: pistola, fucile, spada, coltello. Il pugnale era l'arma che prediligevo: corto, sottile, leggero, facile da maneggiare, ma allo stesso tempo letale. Poi anche lui morì, come tutti nella mia vita, mi lasciò a me stessa, senza un posto dove stare, un posto dove andare. Ero sola. E avevo a malapena dieci anni.
Vagai per la terra che tempo addietro veniva chiamata Toscana, mangiando i frutti che trovavo, dormendo tra i cespugli, bevendo la rugiada che trovavo sulle foglie il mattino presto. Costruii un arco con i pochi oggetti che avevo a disposizione, imparai a cacciare.
Ma mi sentivo vuota, non provavo nessun sentimento ad eccezione della frustrazione, non trovavo il senso a ciò che facevo. Che senso aveva vivere se tutti quelli a cui avevo voluto bene erano morti? Che senso aveva vivere per dei morti?
Fu proprio mentre pensavo quale fosse il significato della esistenza che, arrivata a Siena, le conobbi.
Gaia era una ragazza secca, con poche curve, i tratti del volto ben definiti, i capelli e gli occhi dello stesso colore bruno. Aveva tre anno più di me ma sembrava una ragazzina più infantile di quanto fosse realmente. Era silenziosa, non parlava molto spesso, ma sapeva ascoltare ed era molto intelligente. Era dolce e gentile, ma sapeva tirar fuori le unghie all'occorrenza.
Giulia, invece, che aveva un anno più di Gaia, effettivamente dimostrava la sua maturità. Era tutta forme, gli occhi azzurri e la massa di capelli ricci e neri le dava un aria sincera e pura. E questo era quello che era: onesta, fin troppo per i miei gusti, genuina, perdonava chiunque con estrema facilità e sorrideva continuamente.
Io mi sentivo la pecora nera in mezzo a quelle due pecore così candide. Ero sempre rude e acida, brusca e intrattabile. Avevo lo stesso carattere di mio padre, ma da lui non avevo ereditato solo quello. I miei muscoli erano tonici, io ero più forte, resistente e abile delle altre. Ero quella che cacciava, andava a scoprire nuovi territori, spinta dalla curiosità dell'avventura. Mai che stessi un attimo ferma, le mie amiche riuscivano a stento a starmi dietro, l'inattività non faceva per me. L'energia scorreva nelle mie vene, sia di giorno che di notte. Ecco perché ero solitamente io a fare la guardia quando calavano le tenebre. Ed era una cosa che amavo. Guardare le stelle, mi piaceva pensare che brillassero solo per me, che mi guardassero, che pensassero a me. Le guardavo con la sicurezza che loro ci sarebbero sempre state, loro non mi avrebbero abbandonato, loro non sarebbero mai morte. Dovunque io fossi, loro erano sempre lì, tutte le notti, che io fossi in campagna, in città, in un bosco o sopra un palazzo, loro erano sempre lì e non mi avrebbero mai lasciato.
- Europa - mi sentii chiamare da dietro. La sua voce era familiare, non avevo neanche il bisogno di girarmi per sapere chi era.
- Non ti devi allontanate senza dire niente - mi rimproverò Giulia. Detestavo quando faceva così: anche se avevo quindici anni, non significava che non ero capace di cavarmela da sola.
- Ho preso la colazione - mi giustificai mostrando le pere che avevo colto. Ne lanciai una a Gaia e una a Giulia, che le addentrarono immediatamente, ringraziandomi con lo sguardo.
Come avrebbero potuto vivere senza di me? Pensai sorridendo. Ormai ero io che procuravo loro il cibo. Colazione, pranzo e cena assicurati con me al fianco.

  
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