Capitolo 1: Radioactive
I'm waking up, I feel it in my bones
Enough to make my system blow
Welcome to the new age, to the new age
Welcome to the new age, to the new age
Whoa, whoa, I'm radioactive, radioactive
Whoa, whoa, I'm radioactive, radioactive
Radioactive, Imagine Dragons
Adoravo
l'aria fresca del
mattino, mi mettevo seduta sulla balaustra della piazza e respiravo la
brezza
leggera che spiava da nord. Spesso mi raggiungevano anche Gaia e
Giulia, anche
se loro preferivano rimanere nel nostro rifugio. Non distava molto,
solo
qualche isolato, ma il tragitto era sconnesso e faticoso da percorrere.
Quelle
che un tempo erano strade piatte e curate, facilmente percorribili,
adesso
erano solcate da crepe e da pezzi di edifici crollati. Le guerre
avevano
devastato la città. Ma non era l'unica: tutta l'Europa era
ridotta in quello
stato, campo di battaglia delle cinque guerre mondiali. Era stata
abbandonata a
se stessa, nessuno aveva mai provato a ricostruire gli edifici o
ripopolare le
case. I più ricchi si erano trasferiti nelle grandi
città d'America, lasciando
i più poveri nella miseria più assoluta.
Io
abitavo in quella che un tempo era l'Italia,
adesso solo un cumulo di macerie apparentemente deserto.
"Apparentemente" perché tra i buchi delle strade e le stanze
dei
palazzi semidistrutti, vivevano uomini e animali con caratteristiche
che un
tempo si potevano solo immaginare. Gli effetti che le diverse bombe
atomiche
scagliate sul suolo europeo nel corso dei vari scontri, non furono solo
morte e
malattia: con il passare degli anni molti avevano sviluppato degli
anticorpi
contro la peste nucleare, altri avevano assimilato il morbo, diventando
un
tutt'uno con esso. Ciò aveva permesso loro di diventare
più forti fisicamente,
ma rese anche le loro menti devastate e incapaci di ragionare, erano
diventati
animali selvaggi con corpi di uomini. Erano pericolosi, seguivano solo
il loro
istinto, non distinguevano il nemico dall'amico, infatti non vivevano
mai in
gruppo. Cacciavano da soli e i loro cibo preferito era la carne, anche
se, in
caso di necessità, si nutrivano anche di frutti e bacche.
Sugli animali aveva
avuto un risultato simile: i conigli, ad esempio, erano diventati
più grossi e
feroci, con i denti strappavano la carne delle loro prede e la
ingurgitavano
avidamente. Erano spietati, voraci e implacabili, ma erano stupidi e
facilmente
catturabili.
Questo
era quello che avevo imparato nel corso
dei miei quindici anni di vita, osservando e studiando ciò
che mi circondava.
La
mia esperienza nel mondo non era molta, di
questo ne ero consapevole, ma adattarmi alle situazioni peggiori era
diventata
per me una routine.
Ero
nata nel bel mezzo della quinta guerra
mondiale, nei cunicoli sotterranei di una Firenze devastata. Mia madre
si
infettò di peste nucleare quando era ancora incinta e ne
morì pochi giorni dopo
avermi partorito. La malattia, straordinariamente, non
influì affatto sulla mia
salute e crebbi insieme agli altri bambini, accudita dalla
comunità. La mia
innocenza infantile non mi permetteva di avere tanta paura quanta ne
avrei
dovuta avere realmente. Passavo momenti felice, senza immaginare una
vita
migliore, perché la mia allegria era racchiusa in quegli
sporchi e puzzolenti
tunnel.
Mio
padre tornò a casa dalla guerra quattro anni
dopo la mia nascita, distrutto da tutto il male che aveva visto e venne
accolto
da altro male, una moglie morta e una figlia da accudire. Crebbi con
lui sana e
forte sotto i suoi insegnamenti. Imparai l'arte della difesa e a
brandire le
armi: pistola, fucile, spada, coltello. Il pugnale era l'arma che
prediligevo:
corto, sottile, leggero, facile da maneggiare, ma allo stesso tempo
letale. Poi
anche lui morì, come tutti nella mia vita, mi
lasciò a me stessa, senza un
posto dove stare, un posto dove andare. Ero sola. E avevo a malapena
dieci
anni.
Vagai
per la terra che tempo addietro veniva
chiamata Toscana, mangiando i frutti che trovavo, dormendo tra i
cespugli,
bevendo la rugiada che trovavo sulle foglie il mattino presto. Costruii
un arco
con i pochi oggetti che avevo a disposizione, imparai a cacciare.
Ma
mi sentivo vuota, non provavo nessun
sentimento ad eccezione della frustrazione, non trovavo il senso a
ciò che
facevo. Che senso aveva vivere se tutti quelli a cui avevo voluto bene
erano
morti? Che senso aveva vivere per dei morti?
Fu
proprio mentre pensavo quale fosse il
significato della esistenza che, arrivata a Siena, le conobbi.
Gaia
era una ragazza secca, con poche curve, i
tratti del volto ben definiti, i capelli e gli occhi dello stesso
colore bruno.
Aveva tre anno più di me ma sembrava una ragazzina
più infantile di quanto
fosse realmente. Era silenziosa, non parlava molto spesso, ma sapeva
ascoltare
ed era molto intelligente. Era dolce e gentile, ma sapeva tirar fuori
le unghie
all'occorrenza.
Giulia,
invece, che aveva un anno più di Gaia,
effettivamente dimostrava la sua maturità. Era tutta forme,
gli occhi azzurri e
la massa di capelli ricci e neri le dava un aria sincera e pura. E
questo era
quello che era: onesta, fin troppo per i miei gusti, genuina, perdonava
chiunque con estrema facilità e sorrideva continuamente.
Io
mi sentivo la pecora nera in mezzo a quelle
due pecore così candide. Ero sempre rude e acida, brusca e
intrattabile. Avevo
lo stesso carattere di mio padre, ma da lui non avevo ereditato solo
quello. I
miei muscoli erano tonici, io ero più forte, resistente e
abile delle altre.
Ero quella che cacciava, andava a scoprire nuovi territori, spinta
dalla
curiosità dell'avventura. Mai che stessi un attimo ferma, le
mie amiche
riuscivano a stento a starmi dietro, l'inattività non faceva
per me. L'energia
scorreva nelle mie vene, sia di giorno che di notte. Ecco
perché ero
solitamente io a fare la guardia quando calavano le tenebre. Ed era una
cosa
che amavo. Guardare le stelle, mi piaceva pensare che brillassero solo
per me,
che mi guardassero, che pensassero a me. Le guardavo con la sicurezza
che loro
ci sarebbero sempre state, loro non mi avrebbero abbandonato, loro non
sarebbero mai morte. Dovunque io fossi, loro erano sempre
lì, tutte le notti,
che io fossi in campagna, in città, in un bosco o sopra un
palazzo, loro erano
sempre lì e non mi avrebbero mai lasciato.
-
Europa - mi sentii chiamare da dietro. La sua
voce era familiare, non avevo neanche il bisogno di girarmi per sapere
chi era.
-
Non ti devi allontanate senza dire niente - mi
rimproverò Giulia. Detestavo quando faceva così:
anche se avevo quindici anni,
non significava che non ero capace di cavarmela da sola.
-
Ho preso la colazione - mi giustificai
mostrando le pere che avevo colto. Ne lanciai una a Gaia e una a
Giulia, che le
addentrarono immediatamente, ringraziandomi con lo sguardo.
Come
avrebbero potuto vivere senza di me? Pensai
sorridendo. Ormai ero io che procuravo loro il cibo. Colazione, pranzo
e cena
assicurati con me al fianco.