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Autore: Futeki    25/11/2014    1 recensioni
"Sulla via per l'inferno c'è sempre un sacco di gente, ma è comunque una via che si percorre in solitudine." (C. Bukowski)
Kaitlyn Chandler è una ragazza apparentemente normale. Un anno fa, dopo la morte del fratello in un incidente d'auto, si è trasferita con sua madre in una piccola cittadina del New Jersey. Ha due amici a cui è molto affezionata, ma generalmente le piace starsene per conto suo. Nonostante le apparenze, Kaitlyn ha un dono speciale: è in grado di fare con l'acqua tutto ciò che vuole, può manipolarla a suo piacere. Ma accanto a questo potere, Kaitlyn nasconde un terribile segreto: anche i suoi occhi hanno in sé qualcosa di speciale e allo stesso tempo spaventoso; dietro il rosso cremisi dei suoi occhi, Kaitlyn nasconde il terribile risultato della sua storia. Ma da qualche parte c'è qualcuno che sa tutta la verità su di lei, un'unità governativa americana che conosce il suo segreto: lei non è l'unica ragazza ad avere poteri speciali, ci sono altri ragazzi come lei e tutti loro sono legati da un destino comune.
Genere: Azione, Fantasy, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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UNO

Il potere dell’acqua

 

 

 

L'acqua addirittura era il più grande simbolo taoista dopo il Drago.

Essa rappresenta la forza nella debolezza, la fluidità, l'adattabilità,

la freschezza di giudizio, la persuasione cortese e l'assenza di passioni.

(Jean Campbell Cooper)

 

 

 

 

28 ottobre 2011

Quella mattina la professoressa di biologia entrò in classe con un sorriso maligno stampato sul viso. Sapevo perfettamente cosa stava per succedere, per questo iniziai a tentare di ingraziarmi le divinità di varie religioni per ottenere il loro supporto.

Avevo appena finito di dire a Tin, la mia migliore amica, che il giorno prima non ero riuscita a studiare biologia, quando mi ritrovai davanti agli occhi un foglio che ero convinta sarebbe rimasto bianco. Test a sorpresa.

L’unica materia che mi dava problemi a scuola era biologia. Tutti quegli incroci tra piantine di piselli, malattie ereditarie e cani dal pelo raro mi facevano girare la testa. Proprio per questo motivo, mi impegnavo a studiarla più di ogni altra materia. Ma la sera prima ero stata troppo presa da un film in TV per preoccuparmi di studiare biologia. E quell’unica volta in cui mi ero permessa di guardare la televisione comodamente distesa sul divano del salotto piuttosto che studiare, il fato si era messo contro di me e aveva malignamente suggerito a quella serpe della mia prof di preparare un test a sorpresa.

La maggior parte delle persone normali, nella mia situazione, avrebbe tentato di copiare qualcosa dal compagno di banco, ma la mia spropositata sfortuna aveva fatto sì che la professoressa si mettesse a sorvegliare la classe – neanche fossimo una banda di criminali intenti a organizzare un attacco terroristico – proprio accanto a me. E io mi ritrovavo come un topolino in trappola, bloccata tra il muro e la serpe.

La mia unica possibilità sarebbe stata quella di captare qualche informazione dalla ragazza seduta davanti a me, - un genio, praticamente! –, se non fosse stato che lei aveva delle spalle semplicemente enormi e non riuscivo a intravedere neanche un angolino del suo foglio.

Fu a quel punto che ebbi un’idea folle.

Socchiusi gli occhi e cercai di concentrarmi il più possibile. Dopo qualche secondo, puntai lo sguardo sulla nuca di Jenny e guardai attraverso la sua schiena.

Passai la mezz’ora rimanente a copiare ogni singola risposta e al suono della campanella che segnava la fine dell’ora avevo i crampi alla mano ma un compito di biologia decente sul banco.

In ogni caso, se il buongiorno si vede dal mattino, quella sarebbe sicuramente stata una pessima giornata, ne ero sicura. Il mal di testa che si affacciava spietato dopo il compito ne era un evidente preavviso.

In realtà, più che un preavviso era una conseguenza dello sforzo a cui mi ero sottoposta per guardare attraverso la mia compagna. I miei comunissimi occhi verdi non erano poi tanto comuni. Concentrandomi a sufficienza, riuscivo a vedere attraverso le cose e ad ampliare il mio raggio visivo. Con un po’ di sforzo, potevo ottenere una mira perfetta e realizzare il punteggio massimo nelle ore di educazione fisica, quando dovevamo centrare dei birilli lanciando piccoli cerchietti di plastica.

Questa mia strana abilità, che mi aveva appena salvato da un’insufficienza grave in biologia, aveva un paio di piccoli ma fastidiosi effetti collaterali: i miei occhi passavano dal consueto verde bottiglia a un acceso rosso cremisi – il che li rendeva un tantino appariscenti – e lo sforzo mi provocava terribili mal di testa.

Sfruttare questa abilità quando ero a scuola metteva a rischio il mio segreto, ma quando si trattava di evitare un brutto voto in biologia, ogni mezzo era lecito.

«Kaitlyn, com’è andato il test?», mi chiese Tin, saltandomi addosso.

Purtroppo, la mia migliore amica era, al contrario di me, una ragazza parecchio estroversa. Nonostante io detestassi le esagerate dimostrazioni d’affetto evitai di sciogliermi dall’abbraccio.

«Bene», risposi semplicemente, «a te?»

Non fece in tempo a rispondermi che Jordan s’intromise nella nostra discussione: «Io non ho saputo rispondere neanche alla metà delle domande», grugnì il nostro amico.

Jordan era un diciottenne alto, con i capelli scuri e gli occhi verdi. Lui e Tin erano i miei migliori amici e le uniche persone di cui mi fidassi veramente. Nonostante ciò, nessuno dei due conosceva la verità su di me.

«Tu come diavolo hai fatto a rispondere senza aver studiato?», mi chiese imbronciato.

Bella domanda. Quasi mi venne da ridere a guardare la sua espressione, ma mi limitai a scrollare le spalle e rispondere che ricordavo qualcosa sull’argomento.

«Sempre fortunata, lei», sbottò.

«La fortuna è cieca», replicai. Io no, invece.

«Io penso di essere stata brava», disse Tin interrompendo il nostro battibecco, ma ottenne in risposta soltanto uno sbuffo da parte di Jordan.

«E quando mai tu non sei stata brava?», disse Jordan ancora acido.

Tin era un piccolo genio. La mia migliore amica sembrava una specie di folletto: alta neanche un metro e sessanta, era magrolina e iperattiva. Aveva una zazzera di capelli ricci e ribelli e due enormi occhi scuri sempre pieni di curiosità. Lei e Jordan litigavano spesso, ma si volevano molto bene sin da bambini. Io invece ero la nuova arrivata, quella che circa un anno prima si era trasferita dal Connecticut e che contava solo due amici nell’intera città di New York. Col mio caratteraccio chiuso e ben poco disposto al dialogo, non avrei legato con nessuno se Tin non avesse insistito tanto nel voler essermi amica. Fortunatamente, lei era piuttosto testarda, per questo non ero più il lupo solitario che ero stata appena arrivata, ma facevo addirittura parte di un piccolo branco composto da tre tipi strani. Comunque, la più strana ero io.

Non ci fu un momento preciso in cui me ne resi conto: avevo sempre saputo di essere diversa. Io potevo manipolare l’acqua con la forza del pensiero. Potevo farne qualunque cosa. Tanto per fare un esempio, una volta allagai accidentalmente il giardino della mia vecchia casa cercando di annaffiare le piante usando la mia abilità. L’assurdità di quel mio potere mi aveva sempre spinta a tenere il segreto, perfino con mia madre. Volevo essere normale, se non addirittura mimetizzarmi con l’ambiente circostante, e una caratteristica così strana non era per niente d’aiuto. Ma in ogni caso, quella cosa faceva parte di me e io l’avevo sempre accettata come tale. Per quanto riguardava la vista speciale, si trattava di una stranezza più recente, che risaliva appena a un anno prima. Una mattina mi svegliai con un fortissimo mal di testa e guardandomi allo specchio mi accorsi che i miei occhi erano diventati rossi. Dopo qualche minuto di panico, riuscii finalmente a farli tornare al consueto verde bottiglia. In poco tempo mi resi conto di riuscire a controllare quella vista particolare e a vedere attraverso gli oggetti.

All’uscita da scuola, Tin e Jordan tornarono a casa insieme, mentre io, che abitavo da tutt’altra parte,  ero costretta ogni giorno a percorrere la strada da scuola a casa mia completamente da sola. Al primo incrocio, una macchina si fermò per lasciarmi attraversare la strada, ma mentre ero sulle strisce pedonali ripartì per poi fermarsi a pochi centimetri da me. Mi voltai con l’intenzione di fulminare con lo sguardo quell’idiota del conducente, ma mi bloccai rendendomi conto che si trattava di Paul, un ragazzo che era molto più che un semplice idiota: era un colossale errore di Madre Natura.

Fu Jordan a presentarmelo. Mi disse che era innegabilmente attratto da me e che avrebbe voluto una possibilità. Io non ero propriamente d’accordo sul fatto che fosse una buona idea uscire con lui, ma Jordan e Tin mi convinsero a provare.

A prima vista potevo sembrare cinica e fredda, ma non ero completamente insensibile: anch’io ero in grado di affezionarmi alle persone e Tin e Jordan ne erano la prova. Purtroppo, però, nonostante i miei sforzi, proprio non riuscii a provare empatia nei confronti di quel troglodita.

Una volta appurato che il suo unico interesse era quello di palparmi con le sue disgustose mani per tutto il tempo, lo mollai facendogli un discorso ben poco gentile, e a quanto pareva lui non aveva mai digerito la cosa.

Mi trattenni dal mostrargli il dito medio in risposta al suo scherzo di pessimo gusto – preferii pensare che si trattasse di uno scherzo, piuttosto che considerare l’ipotesi che volesse davvero investirmi – e proseguii per la mia strada.

Appena arrivai a casa, mia madre aprì la porta prima ancora che io suonassi il campanello. Conoscendola, era probabile che avesse passato l’ultima mezz’ora ad aspettare il mio ritorno sbirciando dallo spioncino.

Mia madre era una donna di mezza età con la fissazione per lo yoga che lavorava in un ristorante fuori città. Non le somigliavo per niente: lei era bassina, con gli occhi neri e un sorriso a trentadue denti sempre stampato sul viso. Fisicamente parlando, era normale che io non le somigliassi, visto che ero stata adottata alla nascita. Non avevo mai conosciuto i miei genitori biologici, né ne avevo mai sentito l’esigenza, visto che avevo sempre considerato Samantha la mia vera madre. Comunque sapevo che la mia madre biologica era morta di parto. Il mio padre adottivo, invece, lasciò mia madre quando avevo solo due anni, abbandonandola per un’amante di cui lei non aveva mai sospettato l’esistenza. Casa mia sembrerebbe essere troppo grande per noi due da sole, ma la verità era che quando si trattava di mia madre, sentirsi soli era praticamente impossibile. E per me, che ero una maniaca della quiete derivata dalla solitudine, questo era un disagio enorme. Per certi versi, mia madre somigliava molto a Tin: sempre allegra ed estroversa, non stava ferma un minuto e non si lasciava ostacolare da niente e nessuno. Probabilmente era per questo che lei e la mia amica andavano tanto d’accordo.

Io e mia madre non litigavamo mai, il che poteva sembrare strano per un’adolescente e una madre single, ma probabilmente tanta quiete derivava dal fatto che io quasi non parlavo. Ero sempre stata un tipo di poche parole, ma mia madre mi ripeteva continuamente che avrei dovuto raccontarle di più quello che facevo, la mia vita scolastica, le mie amicizie, i ragazzi con cui uscivo – ma quali ragazzi? – e così via. Io, dal canto mio, mi limitavo a scrollare le spalle. Soltanto una volta, per porre fine alle sue lamentele, le raccontai di Tin, di quanto fosse stata simpatica con me, che ero la nuova arrivata. Mia madre fu talmente entusiasta che la sera stessa la invitò a cena da noi. Lei e la mia amica erano talmente in sintonia tra loro che non potei fare a meno di notare che Tin sembrava sua figlia molto più di me.

Nel pomeriggio, Tin m’inviò un SMS invitandomi da lei per fare i compiti. Salutai velocemente mia madre e uscii di casa con lo zaino sulle spalle. La strada era silenziosa e tranquilla, quindi camminai lentamente per trattenermi il più possibile in quella sorta di paradiso terrestre.

Tuttavia, la mia contemplazione del silenzio venne interrotta da un ringhio basso e profondo, che mi costrinse a spostare lo sguardo alla mia destra. Un enorme cane nero si avvicinava lentamente a me, puntando i suoi terrificanti piccoli occhi sul mio viso.

I cani, come gli occhi rossi, erano arrivati un anno prima.

Quella volta, mentre camminavo per strada, un solitario cane nero iniziò a seguirmi. Era decisamente ben più spaventoso di un normale cane randagio: era completamente nero, fatta eccezione per gli occhi rosso fuoco, identici ai miei, e aveva uno sguardo tutt’altro che rassicurante. Nel vederlo, accelerai il passo per tentare di seminarlo, ma il panico m’impedì di proseguire quando vidi un’automobile passare attraverso quella creatura come se fosse un fantasma. In un primo momento, pensai a un’allucinazione e quindi cercai di convincermi che non poteva davvero farmi del male. Eppure, nonostante io continuassi a sbattere le palpebre e rilassare la mente, quel mostro era ancora lì. Non ebbi il tempo di riflettere troppo, visto che il cane scattò improvvisamente verso di me. Si avventò su di me con le fauci spalancate e io riuscii per miracolo a schivarlo. Il cane finì contro un idrante posto sul marciapiede, distruggendolo completamente. Una colonna d’acqua schizzò verso l’alto e in quel momento mi resi realmente conto che quel cane poteva e voleva farmi del male. Non riuscii a evitare anche il secondo assalto e il cane mi azzannò un braccio. Il dolore era lancinante, la vista mi si offuscò e lanciai un grido. D’istinto, mi concentrai sull’acqua attorno a me e la raccolsi tutta, comprimendola in una sfera che scagliai contro l’animale. Non avevo mai usato il mio potere come un’arma, ma in quel momento seppi che potevo difendermi grazie alla mia abilità. Il cane rimase a terra – dovevo averlo colpito più forte di quanto credessi – e io lo fissai per qualche secondo. Era davvero enorme. La testa mi pulsava, il braccio andava a fuoco e il sangue sgorgava dalla ferita imbrattando il marciapiede. Improvvisamente, l’enorme cane fantasma svanì, ma il profondo solco sul mio braccio era ancora lì. Andai al pronto soccorso senza dire nulla a mia madre e inventai una storia per giustificare la mia ferita. Nascosi la fasciatura sotto la manica e tornai a casa come se non fosse successo nulla. La cicatrice di quel primo incontro era ancora lì, a ricordarmi continuamente quello che era successo.

E quel pomeriggio mi pizzicava il braccio, come per rimandarmi a quel momento, per avvertirmi che stava per succedere di nuovo.

Quello non fu l’unico incontro. Dopo quel giorno, per altre cinque volte quei cani si erano fatti vivi. Ogni volta ce n’era uno in più rispetto alla precedente. Il mese prima erano in sei, quindi quella volta me ne aspettavo sette. Oltre ad aumentare sempre in numero, i tempi tra una visita e l’altra si accorciavano.

Oltre al primo cane, grazie alla mia vista speciale, ne individuai altri quattro. Il primo mi si avvicinò lentamente, riducendo la distanza tra noi a pochi metri. Un altro, altrettanto vicino, arrivò dalla direzione opposta, mentre altri due erano poco più distanti. L’ultimo si tenne a più di quindici metri da me. All’appello ne mancavano due, che non riuscivo a vedere. La distanza che mi separava dai cani presenti era fin troppo breve, quindi mi preparai a difendermi chiamando a raccolta tutta l’acqua che mi circondava. Per fortuna, il giorno prima aveva piovuto parecchio, quindi la strada brulicava di pozzanghere. Non potevo creare l’acqua dal nulla, ma solo controllarla, quindi avevo bisogno che fosse già presente molta acqua nelle vicinanze. La pioggia autunnale faceva al caso mio.

Scagliai l’acqua con forza verso il primo cane e quello venne sbalzato via. Ciò provocò, però, una reazione degli altri che si lanciarono minacciosi verso di me. In pochi balzi i più vicini mi raggiunsero. Potevo colpirne soltanto uno alla volta, quindi mentre abbattevo il primo, l’altro ebbe il tempo di graffiarmi la gamba. Ferita e dolorante, colpii anche l’altro con una forza tale, che quello volò via e svanì prima ancora di toccare terra. Mi affrettai a colpire gli altri due prima che fossero troppo vicini da approfittare del vantaggio numerico. Solo dopo che anche l’ultimo fu scomparso mi resi conto della trappola in cui ero caduta. Gli ultimi due cani fantasma, quelli che inizialmente non ero riuscita a individuare, si erano avvicinati a me indisturbati e ora erano a un metro da me, uno per lato. Immediatamente, mi circondai di un anello d’acqua protettivo, che i cani non osarono nemmeno sfiorare. Se avessi colpito uno dei due, l’altro ne avrebbe approfittato per uccidermi. Eravamo in una situazione di stallo, attendendo che qualcuno facesse la prima mossa, ma era chiaro che non potevo mantenere per sempre il mio scudo protettivo – mi sarebbe costato troppa fatica –, mentre quei cani non avevano niente di meglio da fare che dare la caccia a me. Oltretutto, se fosse passato qualcuno, avrebbe visto soltanto una ragazza ferita al centro della strada, inspiegabilmente circondata da un anello di acqua sospesa nell’aria. Non potevo permettermi di dover dare spiegazioni a qualcuno, ma non sapevo come uscire viva da quella situazione. I miei occhi erano ancora rossi e pronti a cogliere ogni minimo movimento, per questo mi accorsi subito del coltello lanciato alle mie spalle, ma i miei riflessi non furono abbastanza pronti per muovermi in tempo. L’arma mi passò accanto al viso e andò a conficcarsi nell’addome di uno dei cani: non era diretta a me, ma ai miei avversari. Colsi l’occasione per colpire l’altro cane con tutta la forza che mi restava e mi liberai definitivamente anche dell’ultima bestia. Immediatamente, però, mi voltai a fronteggiare la nuova minaccia.

Un ragazzo alto e biondo se ne stava fermo sulla strada a qualche metro da me, con una mano nella tasca della felpa verde e l’altra che teneva distrattamente un coltello uguale a quello che poco prima aveva trafitto il cane. Per un po’ rimase a fissarmi spavaldo, poi non riuscì più a trattenere un sorriso. Allargai l’anello d’acqua intorno a me per tenerlo a distanza, ma lui sembrò quasi divertito dal mio gesto.

«Non potrai farmi male con quella», disse indicando la mia debole protezione.

Aveva una voce tranquilla, non sembrava uno che voleva aggredire una ragazza sola in mezzo alla strada. Ma dopotutto, aveva appena ucciso un cane che non avrebbe neanche dovuto poter vedere, teneva in mano un coltello come se niente fosse e non aveva battuto ciglio nel vedere un anello d’acqua fluttuarmi intorno.

«Scommettiamo?», riuscii a sembrare sicura di me, nonostante fossi in realtà abbastanza spaventata da quello sconosciuto.

Il suo sorriso si allargò. «Non sarei così sleale da scommettere quando so già di aver vinto. Più che altro, dovresti essermi riconoscente. Suppongo di averti appena salvato la vita.»

«Me la sarei cavata.»

«Come no!», replicò lui con una punta di fastidio.

«Chi sei?», chiesi, visto che non sembrava avere intenzione di aggiungere altro.

«Mi chiamo Alex, piacere di conoscerti», disse con un ampio sorriso. Io non risposi.

«“Piacere mio, io sono Kaitlyn”. Ecco un esempio di ciò che potresti dire tu.»

 

 

 


Futeki

 

   
 
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