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Autore: WingsOfButterfly    26/11/2014    1 recensioni
[...]
«Fra, tu lo sai che io darei la vita per te» Valeria aveva accorciato il passo con cui si era allontanata prima e le aveva preso entrambe le mani tra le sue.
«Non la voglio la tua vita. Voglio la nostra vita. Insieme» [...]
Non era stato facile. Di notte si sgretolava sotto il peso della sua assenza, contorcendosi in un letto troppo grande per una persona sola. Ma di mattina rimetteva insieme i suoi pezzi, incollandoli con le corde della sua chitarra.
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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SCENDO ALLA PROSSIMA


Valeria era uscita presto, quella mattina. Gli studi di registrazione si trovavano all’altro capo della città, ma lei non aveva mai preso la patente, nonostante avesse ormai superato i trent’anni, quindi si muoveva con autobus e metro.
Arrivò alla fermata del corso principale, accompagnata solo dalla familiare e confortante sagoma della sua chitarra, che le avvolgeva le spalle.
Alzò il naso all’insù espirando forte. Nell’aria c’era un vago sentore di pioggia, il sole infatti era già sorto da un pezzo, ma nulla se non una sottile aura di luce riusciva a penetrare un fitto banco di nuvole.
Accanto a lei alcune ragazzine con zaini in spalla chiacchieravano concitate di compiti ed interrogazioni, attendendo l’autobus per andare a scuola. Un anziano con un bastone sedeva sotto la pensilina leggendo un giornale ed una donna in tailleur con un trench scuro guardava nervosamente l’orologio sbuffando e battendo un piede a terra.
Valeria sorrideva, invece, in maniera semplice e spontanea. Quell’anonimo 23 Novembre era il suo giorno, quello della sua rinascita, a cui avrebbe dovuto aggrapparsi per superare l’anno appena trascorso.
Da lontano si delineò la figura di un autobus. Valeria strinse appena gli occhi per leggere il numero e la destinazione sul display luminoso. I suoi occhi erano già di per sé piccoli e leggermente allungati, neri e profondi come la notte, contornati da folte ma curate sopracciglia, ed in quel momento divennero effettivamente come due fessure.
A pochi metri, riconobbe il numero del mezzo, era il suo.
Salì dalla porta posteriore e, come sempre, le venne istintivo camminare fino in capo alla vettura e poggiarsi con le spalle accanto al gabbiotto del conducente, sistemando la chitarra poggiata sui piedi uniti e stretta tra le ginocchia.
Il déjà vu che seguì non la colse impreparata. Il sorriso sul suo viso vacillò qualche istante, gli angoli degli occhi si abbassarono all’ingiù, fissò il suo riflesso nei vetri delle porte appena chiuse e ricordò.

Non si trovava a Roma, ma nella sua Bari. Il numero 53 era l’autobus che prendeva per andare alla scuola di canto della sua città, dove teneva un corso. Anche quel pomeriggio ci era salita con il solito palpitante nodo allo stomaco ed il consueto sorriso luminoso che, chissà come, riusciva a rendere i suoi occhi più grandi.
Si era avvicinata alla cabina del conducente ed aveva bussato contro il vetro.
«Mi scusi, a quale fermata devo scendere per arrivare al suo cuore?» aveva recitato con aria fin troppo seria.
La donna che guidava il mezzo si era girata solo per un secondo per non perdere il contatto con la strada, ma tanto era bastato perché Valeria si vedesse riflessa nei suoi occhi ridenti di gioia.
«Come fai a pensarne una nuova ogni giorno?”»le aveva risposto divertita, con gli occhi nuovamente fissi sulla strada.
Valeria aveva incrociato le braccia sulla sbarra metallica che le divideva e ci aveva poggiato sopra il mento.
«La verità è che ci penso la notte, mentre tu ronfi beatamente al mio fianco tirandoti tutte le coperte».
«Lo faccio a posta”»aveva protestato la donna, mentre le spuntava un sorriso malizioso sulle labbra «Così tu hai freddo e mi cerchi per abbracciarmi».
Valeria aveva osservato il suo profilo, le pupille fisse davanti a lei, la curva furba che avevano assunto le sue labbra, un sopracciglio che era svettato provocatore verso l’alto ed un ciuffo di capelli biondi che le era ricaduto sull’occhio.
«E io che mi preoccupo ancora per te, nonostante tu decida di lasciarmi di proposito al freddo» aveva commentato con aria sostenuta.
 La donna aveva fermato il mezzo accanto ad una fermata e ne aveva approfittato per voltarsi verso di lei ed interrogarla con lo sguardo.
Valeria aveva infilato una mano in tasca e ne aveva tirato fuori un merendina, che le porse con un grosso sorriso.
«Così stasera non arrivi affamata a cena» le aveva spiegato, e non era riuscita ad evitare di guardarla con occhi languidi e innamorati.
La donna aveva afferrato la merendina sfiorandole il dorso della mano per qualche istante di troppo, intanto la fissava negli occhi.
«Grazie, amore».
Glielo aveva solo sussurrato quell’epiteto, ma Valeria l’aveva sentito bene. Anzi, ancora prima di sentirlo, aveva capito che l’avrebbe pronunciato da come l’aveva guardata, intensamente, dolcemente, profondamente. Insomma, con amore.
L’autobus intanto era di nuovo in movimento. La prossima fermata sarebbe stata quella di Valeria.
«Passi tu a comprare il latte ed il pane?» le aveva chiesto la donna.
«Sì, certo» aveva assicurato Valeria, poi ci aveva ripensato «Anzi, passo proprio al super prima di tornare a casa. Ti serve qualcosa?».
«Gli assorbenti. Quelli nella confezione blu, ma senza ali».
«Lo so che assorbenti usi, Francesca» aveva ridacchiato Valeria, abbassando il tono di voce per non farsi sentire dagli altri passeggeri «Viviamo insieme da tre anni, ormai so anche… no, questa battuta non si può fare, perché viene bene solo con: “ so anche che marca di assorbenti usi”».
Francesca aveva riso, gettando un po’ la testa all’indietro. L’autobus si era fermato e le porte si erano aperte.
«Buona lezione» le aveva detto osservandola indietreggiare verso le porte aperte.
«Grazie. A stasera» Valeria l’aveva guardata finché aveva potuto, poi si era girata ed era scesa con un saltello.
Prima che Francesca chiudesse del tutto le porte, aveva avuto il tempo di gridarle: «E mangia la fiesta!».

Le porte si richiusero davanti ai suoi occhi, forse era la seconda o terza fermata, non lo sapeva. Si era persa in quel ricordo ed aveva ritrovato sé stessa solo quando aveva nuovamente intercettato il suo riflesso nei vetri.
Si osservò attentamente, non era molto diversa da allora. Stesso abbigliamento volutamente trasandato, un po’ da artista un po’ da nerd. I capelli li aveva lasciati crescere ribelli e scuri, come i suoi occhi. A Francesca davano fastidio troppo lunghi, perché diceva che quando la baciava, stando sopra di lei, le finivano tutti in bocca e poi le coprivano il viso. E lei adorava il viso di Valeria. Diceva che aveva un taglio vagamente orientale, un po’ allungato, la pelle liscia, le labbra grandi e piene e quel piercing sotto al labbro inferiore, esattamente al centro del mento, che l’aveva fatta infuriare quando gliel’aveva visto per la prima volta, e che poi aveva imparato ad amare.
Valeria strinse un po’ di più la presa sulla chitarra e si sporse oltre il vetro della cabina del conducente, così, per curiosità. Scoprì che a guidare era un uomo decisamente esile, con un naso aquilino e dei capelli radi e unticci, che le ricordava vagamente il profilo di Giulio Cesare.
Quel pensiero le fece ritrovare il sorriso sicuro di poco prima.
Diede una veloce occhiata all’orologio, mancava ancora mezz’ora all’appuntamento con il suo produttore. Aveva pensato tutta la notte al titolo da dare al suo nuovo album, il secondo della sua carriera per il momento, ma non aveva cavato un ragno dal buco. Erano già pronte tutte le tracce, dopo un anno e mezzo di scrittura, sebbene a fasi alterne, i pezzi aspettavano solo di essere incisi. Tuttavia, l’album non aveva ancora un nome. Fino a quel momento non se ne era preoccupata, si era ripetuta che il titolo sarebbe poi venuto da sé, e che già arrivare ad incidere le canzoni sarebbe stato un bel traguardo, visto l’anno che aveva appena trascorso.
Quando erano cominciati i problemi con Francesca, Valeria aveva disperato di riuscire a portare a termine quel progetto. Le sembrava di non avere spazio nella testa e nello stomaco, per sentire altro che non fossero i loro litigi e le loro urla. Nemmeno per la sua amata musica, e questa cosa la mandava in bestia.
Una frenata più brusca della altre le fece perdere l’equilibrio ed urtare con la spalla contro la cabina del conducente. Non era riuscita a reggersi, perché la sua prima reazione era stata quella di stringere le mani attorno alla chitarra, anziché attorno ad un corrimano.

Francesca aveva cominciato ad odiare la sua chitarra.

Una sera erano sedute a tavola, stavano cenando, in silenzio, come accadeva da un po’.
Valeria aveva alzato lo sguardo spento sulla sua compagna, ne aveva osservato il viso dai lineamenti malinconici almeno quanto i suoi. Aveva sospirato e Francesca aveva alzato gli occhi dal suo piatto per guardarla.
«Come è andata la tua giornata?» le aveva chiesto monocorde.
«Bene. La tua?».
«Bene».
Si erano guardate ancora un attimo, poi avevano nuovamente chinato il capo, ognuna persa nei propri pensieri. Erano passati ancora cinque minuti, o forse di più, e Valeria aveva lasciato cadere le posate sul piatto causando un fastidioso tintinnio.
Francesca l’aveva guardata, unendo le sopracciglia incuriosita, ma non aveva detto nulla.
«Dopo domani parto, ho un’altra serie di serate tra Toscana, Umbria ed Emilia. Starò via due settimane» aveva annunciato Valeria con tono piatto.
Francesca aveva arricciato un angolo della bocca in una smorfia sarcastica.
«Certo» aveva riflettuto scuotendo amaramente la testa «Ormai mi parli solo per comunicarmi quanti giorni starai via».
«Lo sai che non è così» aveva ribattuto Valeria stancamente «Io ti parlo di tutto, o perlomeno lo farei, se tu non avessi smesso di ascoltarmi».
Francesca era scattata in piedi, facendo grattare la sedia sul pavimento. Aveva afferrato il piatto che aveva davanti, assieme a bicchiere e posate ed aveva raggiunto il lavello.
«E quando dovrei ascoltarti?!» aveva sibilato velenosa «Se ormai passi più tempo a suonare nei locali di mezza Italia che a casa» poi le aveva dato le spalle ed aveva aperto il rubinetto.
Valeria si era alzata a sua volta e l’aveva raggiunta, le aveva posato una mano sulla spalla per richiamare la sua attenzione, ma se l’era vista scostare bruscamente.
«Fra, le persone cominciano a capire la mia musica. Su facebook mi chiedono di organizzare date nelle loro città. La gente compra il mio cd. Perché non puoi essere felice per me?» aveva usato un tono vagamente lamentoso e sconfortato.
Francesca aveva lasciato perdere i piatti, si era asciugata velocemente le mani e si era girata a fronteggiarla, con i pugni chiusi puntati ai fianchi.
«Come posso essere felice per te, se la tua musica ti porta lontano da me?» aveva obiettato nervosamente «Io voglio una donna presente, voglio cominciare a pensare al futuro. Stiamo insieme da sette anni e conviviamo da quattro, credo sia arrivato il momento di farlo» si era fermata un attimo a prendere fiato ed i suoi occhi si erano velati di disappunto «Io voglio una famiglia, Vale. Ma tutto ciò che tu sei in grado di rispondermi quando te ne parlo è uno schifosissimo: “poi vedremo, c’è tempo” e te ne ritorni nel tuo studio a strimpellare con quella dannata chitarra» aveva terminato con tono più acuto.
Valeria mosse istintivamente un passo indietro, distolse un attimo lo sguardo, facendolo saettare ai propri piedi, poi puntò nuovamente gli occhi nei suoi.
«Ma io pure voglio una famiglia con te, solo non adesso. Non adesso che comincio a vedere realizzati i miei sogni» la cadenza delle sue parole era parsa quasi implorante.
«Beh, sai che c’è di nuovo?! Anche io ho un sogno. Te n’è mai fregato nulla dei miei, di sogni?» le aveva urlato a muso duro Francesca.
«Fra, tu lo sai che io darei la vita per te» Valeria aveva accorciato il passo con cui si era allontanata prima e le aveva preso entrambe le mani tra le sue.
«Non la voglio la tua vita. Voglio la nostra vita. Insieme» Francesca aveva scacciato bruscamente le sue mani e l’aveva oltrepassata andando a sedersi accanto al tavolo con il gomito poggiato su di esso ed una mano sopra la fronte.
Valeria l’aveva fissata agitata, poi l’aveva raggiunta e si era inginocchiata davanti alle sue gambe. Aveva inclinato il viso in avanti per cercare il suo sguardo.
«Amore, per noi due abbiamo tutta la vita davanti, ma per far conoscere la mia musica devo sfruttare il momento» aveva usato un tono basso e dolce, sebbene la voce le avesse tremato leggermente «Lo sai che parto, ma poi torno sempre da te».
Francesca aveva preso un lungo respiro e poi cacciato fuori tutta l’aria con un soffio secco.
«Sono stanca di aspettarti. E sono stanca di dividerti con la tua musica» aveva pronunciato stancamente, perdendo tutto il vigore di un attimo prima ed apparendo semplicemente esausta e sconfitta.
Gli occhi di Valeria si erano spalancati, le avevano tremolato le narici ed il suo sguardo si era riempito di terrore.
«Non farlo» aveva avuto appena la forza di sussurrare.
«Sì, invece. Scegli, o me o la tua musica» aveva risposto Francesca, fissandola dritto negli occhi.

Il suono stridulo del campanello di prenotazione della fermata, la strappò ai suoi pensieri.
Si rimise dritta, dopo l’urto, e nuovamente incontrò il proprio riflesso. Aveva una smorfia malinconica, adesso.
Ripensare ai mesi che erano seguiti a quell’ out-out di Francesca, le faceva ancora male. Avevano continuato a litigare, rinfacciare, recriminare e accusare. Dopo quella presa di posizione della sua compagna, Valeria aspettava come una boccata di ossigeno i giorni da passare in giro a fare concerti. Quella casa le era diventata insopportabile, tra sguardi sinistri, grida mute, mani vuote e lenzuola fredde.
“Se non capisce quanto la musica sia importante per me, non mi ama davvero”, continuava a ripetersi. “Una così meglio perderla che trovarla”, tentava di convincersi. Però, quando finalmente se ne andava in tournée, resisteva appena due sere, poi la sua mancanza le annodava lo stomaco e le mozzava il fiato. Quando rientrava a casa, abbandonava ogni proposito battagliero e tornava a pregarla di capire, di accettare, di aspettare ancora un po’.  
Quando Valeria si rese conto che Francesca la stava svuotando della voglia di scrivere e suonare le proprie canzoni, capì che erano arrivate al limite. Dopo mesi di guerra fredda, intervallata da innumerevoli battaglie, combattute a suon di lacrime e pugni sul tavolo, Valeria fece la valigia, imbracciò la sua chitarra e se ne andò.
Era arrivata a Roma solo sei mesi prima, ed in quei sei mesi era riuscita a scrivere più di quanto avesse fatto in tutto l’anno precedente.
Non era stato facile. Di notte si sgretolava sotto il peso della sua assenza, contorcendosi in un letto troppo grande per una persona sola. Ma di mattina rimetteva insieme i suoi pezzi, incollandoli con le corde della sua chitarra.
Valeria ebbe il tempo di guardarsi un ultima volta attraverso i vetri della porta dell’autobus. Scorse nei suoi occhi felicità e trepidazione. Ancora due fermate, poi sarebbe scesa, pronta a cantare in uno studio insonorizzato la sua storia.
Rimise la chitarra in spalla e si avviò alla porta centrale.
Un distinto signore in giacca e cravatta le arrivò alle spalle e si sporse appena verso di lei.
«Mi scusi, scende?».
Valeria scosse la testa, si fece da parte e pronunciò le sue prime parole di quella mattina.
«Scendo alla prossima».
Le nacque spontaneo un sorriso sereno, e seppe di aver trovato il titolo del suo nuovo album.




 
  
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