── Per
il bene della Scienza ──
“Un male necessario”
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“L'uomo ha scoperto la bomba atomica,
però nessun topo al mondo
costruirebbe una trappola per topi.”
Albert Einstein
Cella n. 01
Paziente: Q.
Sesso: M
Condizioni fisiche: Buone
Condizioni mentali: Stabili
Comportamento: Collaborativo
Categoria: Studio della genetica
Esperimento no. 462
[Laboratorio di Ricerca e Sperimentazione
Avanzata]
I passi si facevano sempre più vicini. Sentiva perfino
il rumore metallico delle catene, così fastidiosamente familiare da fargli
venire il voltastomaco.
Il giovane, colto da un
attacco di panico, si guardò intorno alla ricerca di un posto dove nascondersi;
gattonò silenziosamente verso l’angolo più buio della stanza, rannicchiandosi
su sé stesso nella speranza che questo bastasse a fuorviare il medico. Sapeva
che non sarebbe servito a nulla.
L’ombra di una figura alta,
maschile, si stanziava al di là della parete di vetro; l’uomo aprì la cella e
per un attimo Q. vide le luci del corridoio riflettersi sulle lenti dei suoi
occhiali. Lo stava guardando. Si accorse subito della sua presenza, come se
qualcuno lo avesse avvisato preventivamente che il giovane avrebbe cercato di
sfuggirgli accovacciandosi in quel preciso angolo della camera. Gli si avvicinò
lentamente, facendo ondeggiare la catena e il camice in contemporanea, quindi
gli bendò gli occhi e gli legò le mani, stringendogli una corda intorno ai
polsi. Q. non oppose la benché minima resistenza, nonostante fosse in preda al
panico. Desiderava solo fuggire – come tutti gli ospiti di quel tetro edificio,
d’altro canto –, ma quel posto era talmente grande da impedirgli di conoscere
(o solamente ipotizzare) dove fossero collocate le uscite, né quante stanze ci
fossero in totale. Non aveva mai messo piede fuori di lì, eppure, dopo tutti
quegli anni, non aveva avuto la possibilità di esplorare quell’immenso
laboratorio che sarebbe stata la sua dimora e la sua tomba. Era nato in cella e
sarebbe morto lì, dietro quelle stesse sbarre: questa era la triste e crudele
realtà, l’amara consapevolezza che avvelenava i suoi giorni.
L’uomo in camice prese
un'estremità della catena e l’attaccò al collare di metallo che Q. indossava
dalla nascita, per poi incamminarsi verso le scale che collegavano le celle al
piano inferiore. Il giovane era scalzo e gli sanguinavano i piedi, così lasciò
una scia che segnava tutti i suoi spostamenti, come Hänsel e Gretel con le molliche di pane, ma molto più
sicuro: nessun uccellino avrebbe potuto divorare le macchie di sangue sul
linoleum grigio. Per evitare che sporcasse le rampe di scale, l’uomo in camice
fece la saggia scelta di utilizzare un ascensore per raggiungere il terzo
piano. Dopo aver attraversato un corridoio interminabile, giunsero in una
stanza immensa e piena di luci. Una dozzina di medici e scienziati provenienti
da tutto il mondo, e con le mani perfettamente sterilizzate, attendeva il loro
arrivo.