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Autore: Nidham    27/11/2014    1 recensioni
Breve elucubrazione della mia ladra nel momento piu' triste del videogioco, quando una scelta porta a tragiche conseguenze. Fatemi conoscere il vostro parere, visto che è anche il mio primo tentativo^^
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Il piano non doveva essere modificato, neanche per un'incredibile, illusoria speranza o per la più cupa e tremenda angoscia. L'assassino sarebbe svanito e l'eroina avrebbe raggiunto la salvezza, in quella che sarebbe stata l'unica vera azione giusta e sacra dal risveglio del primo Arcidemone.

Gli incubi generati da quel mostro non dovevano sfiorarlo, Zevran continuava a ripeterselo; i rischi derivanti dalla sua impresa erano immensi, ma li conosceva e accettava perfettamente, perché riguardavano lui solo e nessun altro avrebbe pagato il prezzo della sua vittoria. Ad un possibile fallimento non riusciva nemmeno a porre pensiero, non era contemplato, né contemplabile, dato che avrebbe significato qualcosa di anche più terribile del sorgere di un ultimo, devastante Flagello.

Il tempo, però, gli stava scivolando tra le dita e non aveva un barlume di indizio in più per raggiungere il suo scopo. Pensare di perquisire quella città infernale palmo a palmo era folle, soprattutto considerando che ogni porta poteva aprirsi su una nuova, sconcertante visione, in grado di rubargli istanti preziosi con una sfiancante lotta di volontà.

Maledisse la testardaggine di Eilin e pregò che il suo silenzio non fosse presagio di sciagura.

Non era ancora troppo tardi, non lo sarebbe stato finché l'ultimo grammo di forza non l'avesse abbandonato e questo non sarebbe successo prima di averla liberata dalle pesanti catene di quella marcescente prigione.

D'istinto lasciò il corpo materiale e la prudenza per scivolare rapido al di là della pareti cangianti di quelle assurde costruzioni, infilandosi in cunicoli che diventavano stanze, scalinate trasformatesi in ampie strade selciate, cantine dai cui lucernari poteva osservare meravigliato i tetti scuri e lucidi di quell'immensa tomba in cui i passi non avevano gambe e la morte non conosceva acciaio.

Razionalmente avrebbe potuto credere di essere solo, ma i suoi sensi sapevano che tutto era vigile e letale intorno a lui, che le ombre nascondevano perdizione e l'aria stessa era un immoto e mefitico veleno; avrebbe dovuto proseguire con cautela, avrebbe voluto poter elaborare uno straccio di piano a cui attenersi, ma se avere un metodo non portava a niente, non rimaneva che affidarsi all'istinto, sperando in un miracolo, in un segno involontario che lo mettesse sulla buona strada. Così continuava a vagare, allargando il cerchio in una spirale labirintica sempre più ampia, ma quando il suo corpo tornò ad essere di carne e sangue, si trovò di nuovo solo e disperato in quella minuscola piazza da cui era fuggito pochi istanti o una vita prima, con le tre torri chiuse a soffocarlo e la sensazione sempre più cocente di un'imminente sconfitta.

Aveva girato in cerchio o forse non si era mai mosso.

Lacrime di rabbia e frustrazione gli appannarono la vista, rifiutandosi di abbandonargli gli occhi; era tutto inutile, assurdo. Come aveva potuto credere di confidare in una speranza laddove esisteva solo disperazione? Che razza di egocentrico pallone gonfiato era stato ad illudersi di riuscire laddove neanche chi fosse stato più degno di lui avrebbe potuto raggiungere la vittoria?

Sapeva di non essere meritevole, ma proprio la sua abiezione lo aveva reso sacrificabile e poi aveva confidato in lei che sempre gli aveva porto la mano, salvandolo da se stesso e dal mondo. Aveva creduto che anche stavolta sarebbe giunta a guidare i suoi passi, che l'avrebbe sollevato dalla sua inettitudine per trasformarlo in qualcosa di più grande e perfetto, in un cavaliere capace di portare a compimento il proprio destino.

Era stata lei ad insegnargli un'altra via, era stata lei a offrirgli un'altra vita, ma ora non poteva o voleva aiutarlo a salvare la sua e l'assassino era solo di fronte a se stesso e ad un sempre più probabile fallimento, solo di fronte ai suoi demoni e alle sue paure, solo di fronte all'unica scelta importante: arrendersi o credere per la prima volta di possedere qualcosa di più dell'inutile abilità nel distruggere.

“Non ti abbandonerò” Zevran pronunciò il suo voto a mezza voce. “Mi senti, Eilin? Io non ti abbandonerò mai, neanche se dovessi continuare a cercarti per mille anni, quando sarò diventato solo un'ombra tra le mille che infestano questo e ogni altro mondo, quando tu sarai svanita per dio e per gli uomini nel ventre senza fondo di un mostro indistruttibile, quando cercarti sarà l'unica cosa che rimarrà di me e di te. Io continuerò a cercarti per sempre e ti troverò, perché è questo il mio destino e la mia vocazione. Ti troverò al di là del tuo volere e della mia paura. E se non potrò salvarti, resterò al tuo fianco e condividerò il tuo tormento, pregando che diventi solo mio.”

Le ultime parole divennero un grido sulle sue labbra e raggiunsero il cielo vuoto e immobile che lo sovrastava, allargandosi come un'onda sottile su un velo di tenebra.

Quando l'ultimo eco di quel lamento si spense, tutto si riempì del silenzio greve e fragile che ricolma l'attimo infinito tra il fulmine e il rombo del tuono, poi l'elfo sbatté le palpebre, serrò i pugni e si gettò a capofitto oltre la porta contrassegnata dall'assurdo disegno di una promessa di vita, inconcepibile in quel luogo di lutto.

“Se è qui che vuoi mettermi alla prova” disse a se stesso, al demone, al Creatore. “Sarà qui che ti sconfiggerò.”

La stanza che lo accolse era simile a quella dell'altra torre, spartana, fredda, buia. Non c'erano finestre, né diverse fonti di luce, ma gli occhi potevano distinguere chiaramente in quella tenebra la totale assenza di qualsiasi mobilio o illusione di abitabilità.

Zevran rimase in ascolto per un secondo, quasi aspettandosi di vedere un nuovo teatrino aprirglisi davanti, ma niente veniva a ingannarlo, così iniziò a salire la stretta scala a chiocciola, perdendo il senso del tempo e dello spazio in una spirale confusa che iniziò a temere fosse infinita, finché non si trovò all'improvviso di fronte ad una porta borchiata, leggermente socchiusa, dalla quale proveniva il suono inequivocabile di un respiro basso e affannoso.

Più per rassicurarsi che per concreta utilità, mise mano alla daga, allargando lo spiraglio fino a vedere parte di una sala enorme, sproporzionata rispetto al resto della torre, con un lussuoso pavimento di marmo vermiglio, pesanti tendaggi scuri alle pareti e un enorme letto a baldacchino nel centro, chiuso da cortine di velluto ricamato.

Il rumore sembrava provenire da lì, ma l'elfo non riusciva davvero ad immaginare cosa avrebbe potuto trovare al di là di quel sipario, così scivolò dentro con la vecchia, consueta calma, silenzioso e scattante come un felino, rapido nel valutare ogni particolare che lo circondasse, pronto a soffocare l'esclamazione di sorpresa alla vista della pesante rastrelliera carica di strumenti di tortura che faceva bella mostra di sé sulla parete ai piedi del letto, dove comunemente si sarebbe dovuto trovare un armadio o una cassapanca.

Zevran quasi sorrise, pensando che il demone non avrebbe potuto scegliere metodo meno efficace per spaventarlo, ma quando alzò il drappo per scoprire quale fosse l'origine del respiro, sentì un brivido freddo lungo la spina dorsale, perché capì che, illusione o realtà, avrebbe dovuto impiegare fino all'ultima energia per impedire che quell'incubo continuasse: riverso sul letto, tra lenzuola stropicciate di seta sfilacciata, giaceva il corpo martoriato di colei che aveva disperato di trovare.

“Non è reale, sarebbe troppo semplice.”

Eilin era inerte di fronte a lui, priva di conoscenza, nuda e terribilmente pallida contro l'oscurità vermiglia delle coperte, sulle quali il sangue fuoriuscito da decine di profonde ferite si confondeva in un groviglio umido di dolore appartenente a decine di antichi e nuovi sacrifici; aveva i polsi legati alla spalliera con pesanti catene rugginose che le avevano inciso profondamente la carne, gonfia e purulenta, fino a scoprire il bianco delle ossa.

“Hai continuato a lottare” non sapeva se l'avesse detto a voce alta, ma maledisse se stesso per essersi permesso di guardare a quell'inganno come alla verità e subito aggiunse: “Non sei qui, non ti ho ancora trovata, vero?”

Sapeva di essere sull'orlo dell'abisso, sapeva che mai come in quel momento avrebbe potuto fallire, eppure si chinò a sfiorarle la guancia, trovandola fredda e madida di sudore, mentre le labbra scottavano di febbre e le palpebre violacee avevano tremolato impazzite al suono della sua voce, ma continuavano a rifiutarsi di aprirsi.

“Sei maledettamente realistica per essere un inganno!” con un titanico sforzo staccò gli occhi da lei, allontanandosi di un passo, ma il fantasma sussurrò il suo nome e la voce era quella che tante volte l'aveva tormentato di notte, quella che aveva cercato di ignorare e che adesso anelava più di tutto di sentire.

“Zevran, vattene.”

Come poteva fuggire ancora, dando per certo che quella che aveva davanti non fosse proprio la risposta alle sue sconclusionate preghiere? Come poteva essere sicuro che l'inganno non si basasse sulla sua incredulità, piuttosto che sulle sue speranze?

Sembrava così vera, così dolorosamente fragile...

Senza accorgersene era tornato ad osservarla e il lampo di rossore che le sfiorò appena le guance fu tanto naturale e umano da portarlo quasi a capitolare, oltre a procurargli un'affine senso di imbarazzo per aver ignorato il suo pudore, per quanto potesse giustificarsi con la totale assenza di desiderio che tutta quella drammatica situazione gli comportava.

“Vattene Zevran” la creatura, Eilin, aveva aperto gli occhi con immenso sforzo, fissandoli in quelli disperati e confusi di lui con una determinazione e un'angoscia quasi tangibili. “Non saresti dovuto venire, non mi perdonerò mai se lui ti prendesse.”

“E io potrei perdonarmi dopo averti abbandonato per la seconda volta?”

“Io ti ho chiamato in questo inferno e sarebbe colpa mia se tu morissi, ma tu non hai fatto niente per condannarmi a questo luogo. Sono state solo le mie scelte a condurmi qui” mettere insieme quelle poche parole parve consumare ogni briciolo di energia e il suo corpo fu scosso da una tosse convulsa che riaprì alcune ferite e la lasciò rannicchiata su se stessa a cercare di recuperare il respiro.

“Non parlare” Zevran, ormai dimentico o incurante di qualsiasi dubbio, si chinò a studiare la serratura delle manette, certo che nessun ingranaggio, per quanto ultraterreno, potesse resistergli. Sembravano un ammasso uniforme di metallo, privo di giunture, ma in qualsiasi modo fossero state forgiate, doveva esistere un sistema per aprirle.

“Non c'è tempo, sta tornando” era solo un sussurro, ma conteneva una paura così folle e così dolorosamente trattenuta che l'elfo sentì il tremito delle mani farsi convulso. “Ti prego, scappa o sarà la fine per entrambi.”

“No!” il suono lugubre di pesanti ali gli sfiorò le orecchie, ma non lo distolse dal suo scopo. “Ti ho lasciato andare una volta, ora faremo a modo mio.”

“Zevran, non ha senso.”

“Probabilmente.”

“Ti ho amato, lo sai?”

Quelle parole riuscirono laddove la paura non aveva avuto presa e l'elfo interruppe il suo disperato tentativo di scasso per guardarla un'ultima volta. Sembrava così debole, adesso, così strana rispetto a colei che ricordava, sempre eretta e fiera, sempre un passo avanti agli altri e oltre qualsiasi stanchezza o debolezza. Sembrava sfinita e sconfitta, eppure c'era ancora tanta determinazione nel suo sguardo, deciso e dolce ad un tempo, mentre pronunciava quelle parole che Zevran non aveva mai creduto che avrebbe udito, così come si era ripromesso di non pronunciarle mai, per quante volte ne fosse stato tentato durante i lunghi mesi in cui aveva viaggiato al suo fianco.

“Baciami e vattene.”

Baciarla, un altro sogno che diventava realtà all'interno di un incubo. Non doveva distrarsi, non ne aveva il tempo, ma cosa potevano cambiare quei pochi secondi di debolezza ormai? Forse sarebbe stato l'unico ricordo felice in un'eternità di dolore. Non meritava neanche quello?

“Baciami” ripeté in un soffio, girando la testa per essergli più vicina. “Non lo desideri?”

Certo che lo desiderava, che domanda sciocca!

Eppure Eilin non aveva mai perso tempo con parole inutili, né aveva mai posto domande se non quando poteva ottenere concrete e sensate risposte.

Stava diventando paranoico e non poteva davvero credere che la morte e tutto ciò che aveva dovuto passare in quella prigione non l'avessero cambiata. Ne era consapevole, ma, nonostante continuasse a ripeterselo, gli sembrò per la prima volta di notare un lampo un po' troppo freddo nei suoi occhi, un accento troppo lascivo nel suo tono.

“Zevran, ti prego” cercò di allungarsi verso di lui, ma le catene la trattennero e la costrinsero a stringere i denti per non lamentarsi.

Era solo un folle crudele a farla supplicare per qualcosa che egli stesso desiderava ardentemente ottenere?

Si chinò sul suo volto, accarezzandone i contorni cesellati, contemplandone la quieta bellezza, inebriandosi del profumo della sua pelle, ma mentre le labbra scivolavano a sfiorare le sue, si ritrasse di scatto, quasi cadendo a terra nella foga di sottrarsi a quel abominio.

“Che succede?” il viso non era mutato, la voce era sconvolta, ma identica a quella della sua amata.

Zevran scosse la testa, allontanandosi ulteriormente dal letto e dalla deforme, lussuriosa creatura che ancora lo osservava attraverso gli occhi di un'altra. Non avrebbe saputo dire cosa l'avesse fermato, non avrebbe mai potuto spiegare quando l'incertezza si fosse trasformata in disperazione per l'inganno da cui quasi si era lasciato irretire; probabilmente era stato l'istinto, o forse quel suo povero, disprezzato cuore, che tanto aveva provato a sopprimere, si era finalmente deciso a soppiantare la sua ragione e guidarlo verso la verità.

La torre ondeggiò e tremò sotto di lui.

“Zevran, ti prego, non c'è più tempo!”

“No, non ce n'è” senza ulteriori indugi si voltò verso la porta, ma laddove c'erano state le scale, sprofondava adesso un abisso oscuro con pareti lisce e rilucenti come alabastro nero.

“Il pozzo” mormorò l'assassino, ricordando l'immagine impressa su l'ultimo torrione, e si lasciò cadere nel vuoto, mentre la voce acuta di Eilin si deformava in un lungo ringhio di frustrazione e un pavimento di roccia ruvida si avvicinava a porre fine alla sua caduta, con un impatto devastante che solo anni di allenamento riuscirono a trasformare in un'agile capriola.

Confuso e ammaccato, l'elfo si acquattò in posizione di guardia, pronto a colpire qualsiasi nemico gli si parasse davanti, ma nella piccola stanza illuminata dai raggi di una luna invisibile vide soltanto il volto preoccupato e arrabbiato di una guerriera stanca, spaventata e per niente sconfitta, pronta a tirarlo per un orecchio non appena l'avesse liberata dalla gabbia a cui cercava ostinatamente di sfuggire.

 

Capitolo molto lungo e, lo ammetto, piuttosto sofferto... nel senso che non mi è uscito “spontaneo” come gli altri, ma ha richiesto più tempo e sforzo, per ottenere poi un risultato che temo sia anche peggiore -_- Sarà che siamo a tirare le fila, non saprei...

  
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