Traccia 1
Doomsday – 3.40
27 Marzo
Eravamo finiti in un parcheggio,
il buio era quasi totale solo la luce della sigaretta di Turner dava colore
alle gradazioni della notte.
Era appoggiato al muro umido con curata nonchalance. Cominciai a pensare che
anche i suoi respiri non fossero naturali, ma studiate incanalature di aria nei
polmoni. Ero di fronte a lui. Mi strinsi nelle spalle, nervosa. Osservai le sue
labbra arricciarsi attorno al filtro e lo sentii inspirare. Aveva un alone
intorno che mi faceva credere di essere davanti a qualcosa di sovrannaturale. Mi
sentivo come se stessi guardando una foto oscena e proibita. Non riuscivo a
smettere.
Turner pareva una divinità mortale. Un Dio corrotto.
Se c’era una vita dopo la morte a lui non importava.
“Some say it gets better after this
Waiting for a better life
I'm waiting to get this”
Gettò il
mozzicone di sigaretta e lo schiacciò con il tacco dello stivale. Pareva
muoversi in un’altra dimensione con negli occhi la promessa di concederne un
assaggio a me.
“I'll take you to places where you've
never seen
I'll take you to a world where you've been inside dreaming
If you wanna go,I will take you to the top
Leave it off cause it never gonna stop”
Turner era sincero. Si presentava per quello che era, un’anima torbida e nera
quasi quanto i suoi occhi di antracite. Era un dannato e indossava la sua
condanna come un giubbotto di pelle.
Mi tirò a se con poca grazia. Mi strinsi al suo petto e feci una smorfia per l’insensibile
intrusione della sua lingua nella mia bocca. Turner non aveva mai finto con me.
Non mi aveva mai promesso rose rosse e poesie. Mi aveva mostrato la sua anima.
Mi aveva mostrato il suo essere per quello che era.
Un peccatore.
"What you see is what you get with me
What you see is what you get with me
What you see is what you get with me
What you see is what you get..."
“… Ma in breve mi sentii impallidire e cominciai a desiderare in cuor
mio che se ne andassero. La testa mi doleva e mi sembrava che le orecchie mi
rintronassero. Ma gli uomini seguitarono a sedere e a chiacchierare. Il ronzio
delle orecchie si fece più distinto… Diveniva sempre più intenso, sempre più
distinto: ripresi a discorrere ancor più animatamente per sbarazzar…”
Il tintinnio della porta mi convinse a sollevare gli occhi dal libro.
Istintivamente lancia un’occhiata all’orologio che segnava l’una e dodici
minuti. Se non avessi visto quattro persone davanti a me, avrei creduto di
sentire rumori inesistenti come il protagonista del racconto che stavo
leggendo.
Com’era ovvio riconobbi i quattro uomini in un istante. Mi guardavano con
alterigia da dietro il bancone e sembrava si fossero messi in posa per farsi
fotografare. Ad ogni modo finsi indifferenza. Vedere persone famose in questa
zona di Londra non era così raro.
Con calcolata lentezza feci un’orecchia sul libro e lo risposi sul bancone sul
quale tenevo i piedi. Mi lasciai andare all’indietro appoggiando la schiena
alla sedia come se davanti a me non ci fossero gli Arctic Monkeys.
«Begli anfibi» disse quello più vicino a me. Alex Turner in carne ed ossa.
Risposi con una scrollata di spalle ed uno sguardo di sfida.
«Chiedo scusa signori» sorrisi «il ristorante è chiuso» nessuno di loro mosse
un muscolo per un paio di secondi, dopodiché O’Malley borbottò un “cerchiamo da
un’altra parte” e fece per andarsene.
Turner tuttavia parve non avermi sentito. Si avvicinò al bancone, vi si
appoggio con l’avambraccio e con un movimento fluido si tolse gli occhiali da
sole rivelando due enormi occhioni neri contornati da delle occhiaie
altrettanto grandi.
Mi guardò dritto negli occhi con la sicurezza di chi era abituato a farlo e mi
sorrise accondiscendente.
«La porta era aperta»
Feci un mezzo sorriso sarcastico, aveva ragione, dovevo aspettare che Liam
finisse il suo turno e mi ero dimenticata di chiudere l’ingresso, ma di certo
non avrei lavorato di più a causa di una mera questione retorica.
«Ciò non toglie che siamo chiusi» questa volta fui meno cortese.
Turner distolse lo sguardo e si concentrò sui miei stivali, fece per sfiorarne
uno con un dito, ma prontamente mi ritrassi. Sorrise con l’obbiettivo di
schernirmi.
«Sono sicuro che possiate fare un eccezione» tornò a guardarmi «per noi» calcò
il “noi” con un cenno della testa verso i suoi compagni. Se anche fossi stata
ben disposta nei suoi confronti (e sia chiaro non lo ero) quella semplice
allusione alla sua celebrità mi fece irrigidire ancora di più. Odiavo gli
arroganti, come se solo perché faceva parte di una band famosa il Signor Turner
fosse immune alle leggi degli uomini.
Anche io lo schernì con un sorriso e non gli risposi nemmeno limitandomi a
scuotere la testa in senso negativo.
Serrò la mascella.
Cook, che fino a quel momento era rimasto immobile ad assistere insieme agli
altri due, si avvicinò nella speranza di convincere il suo capricciosissimo
cantante a trovare un altro ristorante. Gli sussurrò qualcosa che non mi presi
nemmeno la briga di capire.
Turner
continuò ad osservarmi impassibile. I suoi occhi troppo grandi sembravano
ardere di fiamme nere, era alterato e la cosa mi piaceva. I muscoli della
mandibola contratti elargivano ulteriore magrezza al suo viso appuntito mentre
il ciuffo scomposto gli copriva la fronte.
Sembrava in procinto di cedere, lasciandomi la soddisfazione di aver privato
una presuntuosa star internazionale della sua cena, quando il mio capo e Megan
fecero la loro comparsa richiamati dalle nostre voci.
«Withmore adesso parli anche da sol….. Salve» il mio capo parve spaesato quando
si trovò dieci paia di occhi a fissarlo. «In cosa posso esservi utile?» domandò
grattandosi nervosamente i pochi capelli biondi che gli erano rimasti.
«Vogliamo mangiare» rispose Turner senza troppi preamboli. Con la coda
dell'occhio vidi Megan sbiancare alla vista del cantante che le riservò un
sorriso così malizioso da farla sussultare.
Porco.
«Mi
dispiace, ma il locale è chiuso» guardai Turner con la soddisfazione di una
bambina alla quale i genitori avevano appena dato ragione e di nuovo gli
concessi un mezzo sorriso sarcastico.
Eppure, la vittoria mi scivolò tra le dita nel giro di tre secondi. Quelli che
erano serviti a Megan per avvertire il nostro capo della enoooorme importanza
degli nostri ospiti.
«Oh bè, in questo caso…..»
Stupida, stupidissima Megan.
Capii che se avessi voluto salvarmi avrei dovuto mettere le cose in chiaro fin
da subito. Così mentre il Signor Hutchins si rivolgeva agli Arctic Monkeys con
un tono tanto untuoso quanto i suoi radi capelli, mi alzai dicendo chiaramente
che il mio turno era finito. Il gesto mi garantì da un lato il sorriso adorante
di Megan e dall’altro un’occhiata torbida dal capo.
Poco male.
La mia collega fluttuò verso il bancone e in un batter di ciglia il grembiule
nero della divisa andò a fare compagnia alla sua camicetta azzurra… che prima
non era così sbottonata o sbaglio?
Roteai gli
occhi al cielo del tutto indifferente alla scena, anzi per fare un’uscita di
scena degna di nome me ne sarei andata sbadigliando.
«Voglio lei»
Mi bloccai.
Avevo sentito bene?
«Al» Helders
si era avvicinato all’amico e collega e lo stava tenendo per un braccio «Dacci
un taglio.»
«Cazzo Matt,
non sei mio padre» rispose l’altro divincolandosi. «Ho detto che voglio lei»
ripeté indicandomi con gli occhiali da sole. Lanciò un’occhiata al mio capo
come a dirgli che doveva provvedere ad esaudire il suo desiderio.
«Il mio
turno è finito» dissi con una freddezza artificiale. Scandì bene le parole e mi
diressi verso la cucina.
Il Signor
Hutchins mi piombò addosso con l’ardore di un falco che artiglia una preda, e
le sue dita mi strinsero il braccio con la stessa forza. Non l’avevo
nemmeno sentito arrivare. Mi sussurrò che se non avessi mosso il culo mi
avrebbe messo sotto con la sua utilitaria e che l’avrebbe fatto passare per un
incidente. Ovviamente mascherò il tutto nell’atto di consegnarmi il grembiule.
Espirai violentemente dal naso e borbottai anche un paio di “cantante del
cazzo”.
«Vado» presi il grembiule.
Megan mi guardava con rancore.
Il capo con odio.
E Turner con un mezzo sorriso sarcastico.
Il Signor
Hutchins insisté nel farli accomodare in quello che riteneva il tavolo
migliore, che guarda caso era proprio quello perfettamente visibile dalla
strada. I quattro di Sheffield si stavano ancora facendo leccare il culo quando
entrai in cucina.
Sbattei la porta consapevole di essermi fatta sentire.
«Andy»
chiamai «Riaccendi tutto, ci sono altri quattro clienti»
«Ma abbiamo
chiuso!»
«A quanto
pare non per quei fottuti Arctic Monkeys»
«Arctic
Monkeys?» Liam balzò fuori da dietro la sua postazione di lavapiatti e mi
guardò con gli occhi sgranati. Persi un battito nel vedere quella meraviglia zaffirina.
Risposi con un cenno della testa verso la sala e lui corse ad affacciarsi
all’oblò della porta.
«Mi stai
dicendo che Alex Turner, Matt Helders, Jamie Cook e Nick O’Malley sono qui?»
«Non te lo
sto dicendo, te lo sto mostrando»
«Non ci
posso credere» si mise le mani nei capelli e guardò attraverso la finestrella
con la bocca aperta. «Quello è Alex Turner! E’ seduto nel nostro ristorante!»
«Nel mio
ristorante vorrai dire!» Il capo entrò spalancando la porta e per poco non
colpì Liam in pieno viso, ma non parve curarsene. Quella sera ero io al centro
dei suoi pensieri.
«Lyla vedi
di fare bella figura o giuro su Dio che ti licenzio» mi colpì più volte sulla
spalla col suo indice grassoccio «Tu e lui!» strillò con voce nervosa indicando
Liam. «Sorridi e sii carina per l’amor del cielo. Anche se ti è
difficile.»
Ad oggi non
so con quale stoica forza di volontà mi trattenni dall’imprecare e mandare al
diavolo lui, il ristorante e quei fottuti Arctic Monkeys, ma resistetti,
concedendomi un paio di imprecazioni a mezza voce non appena il Signor Hutchins
tornò in sala.
«Lyla, è una
figata assurda!» Liam stava molto meglio di me. Lui era al settimo cielo. Non
riuscì a trattenermi dal sorridergli, in fin dei conti lo capivo. Io e lui
suonavamo in una band, rispettivamente voce e chitarra dei DriveShaft. Certo,
non facevamo altro che piccoli concerti in pub microscopici, ma anche i Beatles
hanno fatto la loro gavetta al Cavern, no?
«Cazzo Lyla,
è il nostro momento» come immaginavo. Roteai gli occhi al cielo. «Scommetto che
se Alex Turner ti sentisse cantare ti pregherebbe di duettare con lui!»
«Come no»
risposi annoiata. Ovvio, anche per me la nostra band era di vitale importanza.
Aveva priorità su ogni aspetto della mia vita, ma quella sera ero davvero
troppo stanca ed incazzata per fingere di credere alle sparate di Liam. Il
sorrisetto stronzo di Turner mi aveva rovinato l’umore e nemmeno una nomination
ai Grammys mi avrebbe fatto venire voglia di sorridere.
Ad ogni modo
mi sforzai di farlo, ma solo per amore di Liam. All’epoca facevo tutto per
amore di Liam e lui non sembrava nemmeno in grado di accorgersi della mia
esistenza.
Bene, non solo il sorriso stronzo di
Turner ci si metteva anche la consapevolezza del mio amore non corrisposto a
rovinarmi la giornata. Il mio umore crollò più velocemente della borsa di Wall
Street nel ’29.
Sbuffai e cercai di farmi coraggio. Prima cominciavo, prima finivo.
Raggiunsi i
fantastici quattro con in faccia un sorriso di plastilina. Evitai accuratamente
di guardare Turner. Ero convinta che lui avrebbe scoperto subito la mia finta
usandola contro di me.
«Cosa volete
ordinare… Signori?»
«Scusaci se
ti abbiamo obbligata a rimanere oltre l’orario di chiusura.» sorrisi ad
O’Malley e gli dissi che non doveva assolutamente
preoccuparsi vantandomi di uno stakanovismo che non era del tutto sincero. Potevano
farmi tutte le scuse del mondo, ma se Turner continuava a guardarmi con quei
suoi occhi da cucciolo uniti al sorriso da lupo, a me non sarebbe cambiato
nulla.
Il soggetto dei miei pensieri si rimise gli occhiali da sole e si appoggiò alla
sedia in una controllata posizione casuale. Anche se non potevo vederlo, sapevo
che mi stava guardando con la stessa imperturbabilità con la quale avrebbe
guardato un film al cinema.
Cominciai a prendere le loro ordinazioni e ero (quasi) arrivata a pensare che
per il resto della serata Turner se ne sarebbe rimasto zitto e perso nei suoi
pensieri brumosi, ma evidentemente quella non era proprio la mia giornata.
«Come ti
chiami?»
Lo guardai
per qualche secondo allettata dall’idea di mentire, ma Turner non si meritava
nemmeno le mie bugie.
«Lyla.»
«Il nome
intero, bambolina»
«Lyla»
«Così i tuoi
genitori hanno deciso di chiamarti con un soprannome, eh?»
Sollevai lo sguardo su di lui e il non poterlo vedere negli occhi mi innervosì.
Spinsi lo sguardo contro il nero delle sue lenti, ma niente, capire cosa gli
stesse passando per la mente era impossibile.
Alzai un
sopracciglio per mascherare l’irritazione. Pensai di offenderlo.
Si, dai.
Lo avrei offeso.
Presi fiato «Ophelia» dissi, invece.
Wow.
Ci sono proprio andata giù pesante.
Sbuffai più
per la mia ignavia che la boria di Turner.
«L’ultima
Ophelia di cui ho sentito parlare è morta. Suicida» specificò facendo roteare
il coltello tra le dita lunghe e magre «Vedi, amava un pazzo. Che poi,
ironicamente, non era davvero pazzo quindi lei si è ammazzata per niente» non
capivo dove volesse arrivare, ma mi sembrava che mi stesse insultando. «Direi
che Ophelia sia un nome disgraziato» concluse.
Rimanemmo
tutti in silenzio. Lo sguardo omicida che Helders lanciò al suo cantante mi
lasciò interdetta. Cosa stava succedendo?
Alex tirò su col naso e piegò il collo come a volersi sciogliere i muscoli
«Che c’è? Parlavo di Shakespeare! Adesso non si può più nemmeno parlare
dell’Amleto?» domandò contrariato come se non fosse stato lui a dare inizio a
questo conversazione di cattivo gusto.
«Cristo Alex!» sbottò Cook esasperato «Stai esagerando, la prossima volta non
t…»
«L’ultimo
Alexander di cui ho sentito parlare» interruppi «E’ noto in Russia per aver
ucciso almeno una cinquantina di persone con un martello» conclusi allungandomi
per farmi consegnare i loro menù.
Mi sentii
estremamente fiera di me stessa. Mi aveva sfidato e aveva incassato il colpo.
Certo è che
lo incassò con classe. Non riuscì a trattenere un ghigno «Mi piaci» mi disse
facendo schioccare la lingua.
Non risposi
non avendo idea di come farlo. Stavo per prendere proprio il menù che giaceva
intoccato davanti a lui quando con uno scatto me lo rubò da sotto le mani.
«Anche se ti
meriteresti una punizione per la tua insolenza»
Aggrottai la
fronte e feci una smorfia incredula con la bocca. Avevo sentito bene?
Turner mi guardava protetto dalla barriera fumé dei suoi Ray-Ban mentre sul
tavolo cadde un’atmosfera da obitorio.
Feci il giro
del tavolo e mi avvicinai a lui per cercare di prendere il menù, ma di nuovo il
cantante me lo impedì divertendosi nel farlo. Tirò di nuovo sul col naso e girò
il viso verso di me.
Notai che il movimento del suo collo sembrava incontrollato. La testa gli
pendeva sempre da un lato e faceva fatica a tenerla dritta.
La mano che teneva il menù era vittima di un tremore involontario.
Che cazzo stava succedendo?
«Alex ora
basta!» il ruggito di Helders mi fece sobbalzare, si avventò sulla mano di
Turner che gli concesse di appropriarsi del menù senza resistere. «Ti stai
rendendo ridicolo» disse porgendomi il menù con delle scuse nello sguardo.
Turner
sbuffò e alzò la mani come un ladro che si arrende davanti all’eventualità
dell’arresto.
«Scusalo»
disse Cook richiamando la mia attenzione «Quando è stanco, Al diventa un vero
stronzo»
Allora non
ero l’unica ad averlo notato.
«Stanco?»
«Siamo
appena tornati dalla Nuova Zelanda. Era l’ultima tappa del tour» Mi sentii un
po’ in colpa, ma feci di tutto per non darlo a vedere.
Cook, O’Malley e Helders
erano persone a posto non avrei dovuto essere così maleducata prima.
«Piccola
Lyla» Turner mi accarezzò un braccio «Cosa mi consigli di prendere?»
Mi
allontanai con uno scatto «Un pungo in bocca»
«Grazie
davvero e scusate. Era il terzo ristorante che non ci lasciava mangiare e non
ne potevamo più» sorrisi a Matt Helders ripetendo per l’ennesima volta che era
stato un piacere avere gli Arctic Monkeys da noi a cena.
Bè, non
tutti gli Arctic Monkeys, ma questo non lo specificai.
Tesi la
giacca ad O’Malley aiutandolo ad infilarla mentre Jamie Cook si complimentava
col cuoco.
Da quando lo
avevo caldamente invitato a farsi del male, Turner non aveva più aperto bocca,
anche se non so se fosse stato per la mia acidità o la sua condizione non
proprio perfetta (avevo notato che barcollava)
Mi allontanai dai quattro di Sheffield, che si dovevano soffrire un’ultima
leccata di culo dal Signor Hutchins e cominciai a pulire il tavolo.
«Voglio
portarti fuori a cena» sussultai e mi girai di scatto trovandomi Turner dietro
le spalle.
Si era tolto
gli occhiali e le macchie violacee che gli contornavano gli occhi sembravano
peggiorate. Trovai ridicolo il mio pensiero eppure convenni che quell’aria
stanca un po’ bohème gli donava. Il viso ancora troppo infantile assumeva un
carattere diverso grazie ai tratti tipici della mancanza di riposo.
Lo osservai curiosa di scoprire se c’era anche solo una minima macchia su quel
viso perlaceo e schifosamente perfetto.
Niente.
Non un neo, una venatura. Il suo viso era una bianca distesa di omogenea
perfezione diafana. Nemmeno la barba osava crescere o intaccare quella pelle di
seta.
Mi chiesi se non stessi parlando con un disegno in bianco e nero invece che una
persona. Il sangue pareva vergognarsi all’idea di colorirgli gli zigomi alti e affili.
L’unica nota di colore era il labbro inferiore molto più grande di quello
superiore e volutamente lasciato socchiuso. Sembrava una rosa in mezzo ad un
deserto di neve.
Gli occhi forse erano troppo grandi per un viso così scarno, ma l’espressione
da cucciolo abbandonato stava così bene su quella faccia da bimbo che arrivai
alla conclusione che quelle perle nere fossero state volute così da una forza
più grande. Qualcuno le aveva create dal nulla con devozione e riserbo. Per il
proprio piacere e secondo il proprio gusto. Come un pittore il quale finito il
suo dipinto si allontana di un passo per vederne la perfezione nell’insieme del
tutto.
Stava ancora
aspettando una risposta. Con aria annoiata fece schioccare la lingua.
«Allora?»
«Cosa?» domandai ancora persa nell’oblio nero dei suoi occhi.
«Dove vuoi
andare? Ti ci porto»
«Con te non
voglio andare proprio da nessuna parte»
«Come fai a
dirlo?» Aggrottai la fronte e lo guardai come se mi avesse appena detto che il
basso non era uno strumento importante quanto la chitarra. Decisi di ignorarlo
e gli diedi le spalle, ricominciando da dove mi aveva interrotto.
«Perché non
vuoi venire a cena con me?»
«Perché non
mi piacerebbe»
«Come fai a
sapere che una cosa non ti piace se non l’hai mai provata?» Non mi lasciai
intenerire dal suo tono da bambino.
«Io odio il
formaggio e so per certo, senza il bisogno di provarla, che la fonduta non mi
piace. Perché c’è il formaggio» spiegai.
«Io sarei il
formaggio o la fonduta?»
Mi fermai e
tornai a guardarlo negli occhi «Mi stai prendendo il giro, vero?»
«No» fece un
passo avanti «Voglio portarti fuori a cena»
«E perché
mai?»
«Bè, ho
pensato che una suicida e un assassino avrebbero molto di cui parlare, non
trovi?» Questo gioco di domande retoriche mi aveva confuso. Rimasi a bocca
aperta: mi aveva fregato.
Non riuscii
a non sorridere, fu un gesto spontaneo. Turner mi sorrise sghembo.
«E’ un sì?»
«Devo
lavorare»
«Quando?»
«Sempre»
«Allora
ceniamo qui» Fece un altro passo e la vicinanza mi mise in imbarazzo. Mi
riavviai i capelli con un gesto rapido della mano.
Svelto come un gatto, Turner mi prese il polso e se lo avvicinò al viso.
«Let it be»
lesse ad alta voce. Sul polso sinistro, sulla parte esterna, avevo tatuato il
titolo di quella che io consideravo la migliore canzone di sempre.
Non dissi
nulla, ma nemmeno cercai di liberarmi dalla sua presa. Mi stupii del calore
della sua mano. Avevo immaginato che il suo tocco fosse freddo e nervoso, ma al
contrario le sue dita erano calde e morbide come un maglione di lana.
Distolsi lo
sguardo e non so per quale motivo, ma lui ne approfittò per accostarsi ancora
di più. Eravamo una di fronte all’altro, lui teneva la mia mano stretta nella
sua ed eravamo così vicini che potevo sentire il debole profumo di tequila del
suo fiato.
I suoi occhi imprigionarono i miei in una prigione di vuoto nero. Aveva le
pupille dilatate. La fronte increspata e un mezzo sorriso da lupo.
«Io…»
ansimai
«ALEX!» Mi
spaventai e feci un piccolo salto sul posto. Da dietro la spalla di Turner
scorsi un Matt Helders estremamente
incazzato. «Il taxi è qui, muovi il culo.»
«Arrivo
mammina» Turner fece schioccare la lingua mentre mi scansionava il viso per
l’ultima volta. «Ci vediamo» disse rivolto a me.
Rimasi
immobile, esitante e confusa. Non avevo capito niente di quello che era appena
successo.
«Cosa vi siete detti?» Guardai Liam con aria stralunata. Quando era arrivato?
«Come?»
«Tu e Turner!
Cosa vi siete detti?» ripeté euforico.
Deglutii a vuoto «Credo di avere un appuntamento con lui»
Cornerstone
Salve
a tutti :) Mi chiamo Julia e cavolo è davvero un sacco che non
scrivo! Spero che il capitolo vi sia piaciuto anche perchè ci ho
davvero messo molto a scriverlo! Comunque non voglio parlare troppo,
però ho pensato che sarebbe meglio cercare di chiarire bene come
funzionerà questa storia.
All'inizio ci sarà sempre una "slice of life" ovvero dei piccoli
episodi della vita di Lyla dove scopriremo cosa l'ha ispirata per
scrivere il testo di una canzone.
Sotto il piccolo epidosio ci sarà il capitolo vero e proprio dove racconterò la storia di Lyla.
Episodio iniziale e capitolo sottostante NON AVRANNO ALCUN LEGAME TRA
LORO. Per intenderci meglio se nel capitolo tal dei tali Alex si spacca
il naso nell'episodio seguente non avrà necessariamente il naso
rotto.
La
canzone di questo capitolo è "doomsday" dei Kasabian (nuovo
album) anche se magari non vi piacciono i miei kasabianucci adorati vi
consiglierei di concedervi un ascolto o perlomeno di leggere il testo
della canzone visto che l'intero capitolo sottostante è scritto
grazie all'atmosfera che quella canzone ha creato nella mia testa (lo
so è strano, ma non so come spiegarlo)
Vi ringrazio per la lettura e spero di avervi regalato minuti piacevoli :)
p.s. Quando parla del nome Alexander, Lyla si riferisce a Aleksandr Pičuškin (http://it.wikipedia.org/wiki/Aleksandr_Pi%C4%8Du%C5%A1kin)