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Autore: Odiblue    02/12/2014    4 recensioni
“Mentre guardava la grandine scendere nel cortile dei Nara, non poteva che paragonarla a Sasuke. Era bella – bellissima! - in ogni acino di ghiaccio che martoriava il lastricato, bianca come la pelle di lui, eppure, nonostante avesse il colore della purezza, dannatamente pericolosa. Difficile da sciogliere, impossibile da scaldare “. La storia partecipa al contest “NARUTO the movie: la vita e l'amore”, indetto da manga, sasuk8 e meryl watase, sul forum di EFP.
Genere: Generale, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Sakura Haruno, Sasuke Uchiha, Un po' tutti | Coppie: Hinata/Naruto, Sai/Ino, Sasuke/Sakura, Shikamaru/Temari
Note: What if? | Avvertimenti: Spoiler! | Contesto: Dopo la serie
Capitoli:
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II.



Solo due cubetti. Giusto due chicchi per farle capire che era sbagliato pensare a Sasuke in “quel modo”. Poi uno scorcio di sereno. Forse gli dèi lo facevano per il suo bene: che si mettesse l'anima in pace, per una buona volta! Non le era bastato che Sasuke, pur essendo al villaggio da un anno intero, avesse fatto poco e nulla per avvicinarla?

“È mancata l'occasione” continuava a dirsi da brava scema.

“Qualche piccolo miglioramento c'è stato” protestava tra sé e sé.

“Tra noi non va poi così male”. Si salutavano, con cenni del capo e scarsi monosillabi.

“Ora che ci penso bene, credo che a modo suo abbia perfino cercato di chiedermi scusa”.

Le sembrava di aver sentito quella parola uscire dalle labbra di Sasuke, pochi giorni dopo il suo ritorno a Konoha, quello definitivo; ma poi Naruto si era messo a strillare che era così felice, e voleva così bene al suo migliore amico, ed era così contento che fosse tornato da lui... e lei non aveva trovato il coraggio di dire:

“Sasuke-kun, non credo di aver capito. Potresti ripetere?”

Se non lo aveva fatto, era per il terrore di sbagliarsi. A pensarci bene, forse non aveva detto: “Sakura, scusa”. E l'illusione poi – quel terribile modo di metterla da parte – rendeva chiara l'antipatia che provava per lei. Spesso la mattina, prima che la sveglia suonasse, Sakura si alzava di soprassalto e d'istinto portava la mano al cuore, come se il pugno di Sasuke lo tenesse ancora imprigionato. E le sembrava di sentire male, una fitta tremenda capace di cavarle il respiro. Allora si doveva mettere comoda sul materasso, immobile, e si impegnava – si impegnava davvero! - per togliersi il pensiero di quel momento dalla testa. Si ripeteva che tutto andava bene: Sasuke era a casa; era vivo; Naruto era vivo; i suoi amici erano vivi; persino lei era viva.

Andava tutto semplicemente e splendidamente bene.

E il dolore diminuiva. Però restava. Anche se piccolo e minuscolo, restava sempre. Dalla sua vita, Sakura aveva appreso che c'erano due tipi di dolore: fisico e mentale. Per diventare ninja bisognava imparare a mettere da parte il dolore fisico, a non prestare attenzione alla fatica, a un kunai che lacerava la pelle, a un pugno troppo forte. Così l'esperienza lo riduceva, ma lo stesso non si poteva dire del dolore mentale. Sakura ricordava tutta la disperazione che aveva provato a dodici anni nel credere Sasuke morto. Non era mai stata brava a fare da scudo ai propri sentimenti, a corazzarsi in se stessa e, anzi, quando si trattava di Sasuke, il suo stupido cuore emetteva talmente tante scintille di emozioni diverse che nemmeno lei sapeva barcamenarsi al loro interno.

E Sasuke poi sembrava divertirsi a tormentarle l'esistenza. Prima se ne andava da Konoha, quindi tornava, se ne andava di nuovo e ritornava. Era un Ulisse che non conosceva pace. Appena i suoi piedi minacciavano di gettare le radici e fondersi assieme al suolo di Konoha, qualcosa scattava in lui. Poteva essere vendetta, sete di sapere, smania di novità, brama di potere. Con la sua katana recideva quei legami che lo avevano ancorato al terreno e fuggiva, adducendo poche parole come scusanti.

Sakura faceva quel che sin da piccola aveva imparato a fare: aspettava. Fino al giorno in cui era tornato, avvolto in un mantello logoro; stanco e affamato. Lo aveva incrociato davanti ai cancelli del villaggio.

“Devo parlare con l'Hokage.”

“Quello vecchio o quello nuovo?” aveva chiesto lei, giusto per sdrammatizzare.

Sasuke aveva cercato il suo sguardo e poi lo aveva scostato, quasi per il timore di diventare comprensibile. La frangia troppo lunga copriva per metà l'occhio del Rinnegan, ma nell'altro Sakura era riuscita a leggere un briciolo di soddisfazione.

“Così il Dobe ce l'ha fatta?” le aveva domandato.

“Certo che no! Figurarsi! Non ancora! Non oso pensare quanti danni farà quando entrerà in carica!”

Non lo credeva davvero. Credeva invece che Naruto sarebbe stato un ottimo Hokage, forse il migliore di sempre. Ma prenderlo in giro e deriderlo davanti a Sasuke le ricordava i vecchi tempi.   

“Accosterà Tsunade per i prossimi due anni e poi prenderà il suo titolo. Da parte mia sto ancora aspettando che Kakashi-sensei si faccia avanti e rivendichi il posto. Sarebbe sicuramente un candidato migliore”.

“Non lo farà”.

“No, certo. Preferisce continuare a leggere quegli orrendi libretti arancioni!”.

Parlando, avevano continuato a camminare, raggiungendo il palazzo dell'Hokage. Sakura aveva sorriso per tutto il tempo, felice di non essere stata mandata via; inquieta: era la volta buona? Sasuke avrebbe smesso di essere Ulisse? Avrebbe lasciato che i suoi piedi si fondessero con quella terra che tanto lo amava?

“Come è andato il tuo viaggio?” gli aveva chiesto, una volta entrati nell'edificio.

Si erano seduti uno di fianco all'altra, sulla panchina d'attesa, fuori dallo studio di Tsunade. A dire la verità, Sakura aveva lasciato un posto vuoto tra i loro corpi, quasi la troppa vicinanza potesse spaventare Sasuke e convincerlo a scappare via.

“Lungo.”

Nel rispondere aveva fissato la sedia che li divideva.

“Potevi tornare prima. Ti stavamo aspettando.” Io ti aspettavo. “Ti aspettiamo sempre”. Io ti aspetto sempre.  

Si era sentita morire, quando Sasuke non aveva risposto. Maledetta. Stupida. Non stavano andando bene con quegli scambi di battute classici, senza il bisogno di addentrarsi tra i rovi di una situazione pungente e distruttiva? Aveva trattenuto il respiro, sentito i polmoni esplodere per la mancanza d'aria. Si era ripetuta che non meritava di prendere una nuova boccata, perché aveva rovinato tutto e alla fine aveva ragione Ino: era un totale disastro.

“Lo so.” Solo con la risposta di Sasuke aveva ripreso a respirare. “Ma c'erano delle cose che dovevo fare”.

Ci sono sempre delle cose che devi fare. Sempre ce ne saranno. Perché non lo vedi che anche qui c'è bisogno di te? Che anche qui puoi crescere? Anche qui espiare le tue colpe? Soprattutto qui! Perché se non espii le tue colpe ottenendo il perdono di chi hai ferito...

il mio perdono!

… allora che espiazione è?

Invece aveva sigillato le labbra, perché non lasciassero uscire quelle parole troppo scomode. Le aveva tenute incarcerate nel petto, sentendole graffiare sulle pareti del cuore e della gola: volevano essere libere; ma a volte la libertà poteva trasformarsi in danno più che in sollievo.

“E adesso che farai?”

Solo questo aveva trovato il coraggio di chiedere. E il coraggio era già tanto, visto che la risposta di Sasuke avrebbe potuto ammazzarla sul posto. Lui aveva gettato lo sguardo sulla sedia vuota. Di nuovo.

“Ci sono altre cose che devo fare.”

Una pugnalata al cuore. E non in un'illusione.

“Capisco.”

Lo aveva detto subito, in fretta e furia, perché se avesse guadagnato del tempo, in cerca di una risposta più soddisfacente, le lacrime si sarebbero impossessate dei suoi occhi e avrebbero iniziato a scorrere fino al colletto della divisa da Jonin. Ritta sulla sedia, aveva puntato lo sguardo sulla porta dello studio, supplicando Tsunade di sbrigarsi a ricevere Sasuke; di privarla della sua presenza, scomoda come non mai.

E Tsunade aveva esaudito la richiesta e spalancato la porta:

“Guarda chi si vede? Il fuggitivo! Accomodati o preferisci forse scappare?”

L'aveva trattato male, solo perché lui trattava male la sua allieva. Poi era scomparsa nello studio, probabilmente davanti a una bottiglia di saké, mezza vuota. Sasuke, con un sospiro, si era messo in piedi, traballante per l'ennesimo viaggio che aveva voluto affrontare, ma prima di raggiungere la soglia aveva interrotto i suoi passi:

“Cose che farò qui”.

Si era tirato la porta dietro la schiena e aveva chiuso la conversazione con quel gesto. Da quel giorno era rimasto a Konoha, senza fuggire; ma a distanza di un anno, Sakura doveva ancora capire quali “cose” lo avessero trattenuto da una nuova partenza. Non lo sapeva lei, non lo sapeva Naruto, non lo sapeva nemmeno Kakashi che passava il tempo a scommettere con Gai su come si sarebbero evolute le vite dei loro allievi.

Forse però qualcuno lo sapeva. Quel solito qualcuno che li accompagnava dall'inizio dell'estate, spiando le loro mosse dalle volte più elevate del cielo, attaccandoli per punizione o per puro divertimento: grandine. Il primo acino colpì Sakura in mezzo alla testa, un chicco solitario che preannunciava l'arrivo della tempesta.

«Si può sapere che ti ho fatto? Che ho fatto a tutti voi? Sono stufa! Mi sono appena asciugata e sono di pessimo umore, quindi ti conviene startene tra le nuvole, a meno che tu non voglia che venga là su a prenderti a cazzotti-»

Altri due chicchi di grandine. Tre. Quattro. Cinque. Manciate di decine.  

«Scherzavo! Mi dispiace, non volevo insultarti, ma ti prego! Basta con la grandine!»

I piedi l'avevano portata lontana dal centro, lontana da casa sua, lontana dalle case dei suoi amici. Iniziò a correre senza una meta, mentre il cielo continuava ad odiarla per dei peccati che non ricordava di aver commesso. Ricordava invece che nello svicolo a destra avevano da poco aperto alcuni negozietti di arredamento.

«Entrerò nel primo e aspetterò lì che smetta di grandinare.»

Quando si imbatté nel primo edificio, scoppiò a ridere per la casualità della situazione, oppure, per dirla meglio, per la sfiga che si intestardiva a perseguitarla. Appesa alla parete, un'insegna rosa pastello recitava: “Qui vendesi stoviglie, tazze, bicchieri e piatti da cucina”.  

Sakura mosse un passo e si riparò sotto la tenda a veranda che proteggeva l'ingresso del negozio dalle intemperie. Giusto due giorni prima aveva rotto la sua tazza preferita, facendo una pessima figuraccia e tagliandosi la mano. Testimone del fattaccio?

Niente meno che Sasuke Uchiha!

Sakura rabbrividì nel maglioncino rosso e si fece piccola piccola nelle spalle. L'origine di quel tremito proveniva in parte dal freddo e da qualche cubetto di grandine che si era infilato dentro il colletto, riuscendo a scorrere lungo la spina dorsale. Ma un altro fattore fomentava i brividi, ed era un sentimento che rispondeva a un unico nome: vergogna.

Ricordava dettaglio per dettaglio la successione di eventi che aveva portato alla rottura della tazza. Se solo avesse potuto dimenticare!
 

    C'erano alcuni giorni che nascevano come “giorni no” ed erano destinati a morire marchiati della medesima etichetta. Quel mercoledì, per Sakura, nacque come “super giorno no”: pioggia sin dal primo mattino, caffè rovesciato sulla divisa, battibecchi con Shizune su chi dovesse entrare in sala operatoria, fallimenti sul lavoro. E questa era la nota dolente. Perché per un medico “fallimento sul lavoro” equivaleva a un unico concetto: morte. Sakura non sapeva come tutto fosse iniziato, o meglio lo sapeva. La troppa pioggia aveva spezzato i sostegni di un'intera palazzina e dieci famiglie erano rimaste intrappolate sotto travi e mattoni. Lo sapeva, ma non se ne capacitava. Non riusciva a comprendere come lei, l'allieva di Tsunade, potesse guarire ninja ridotti in fin di vita e non salvare due bambini, stritolati dalla morsa del cemento.

Eppure aveva fallito. Aveva fallito a tal punto che le era venuta voglia di scoppiare a piangere, strappandosi i capelli e prendendo a calci Shizune. Perché cavolo non era entrata in sala operatoria? Perché l'aveva lasciata sola, a mettere le mani in quel mare di sangue? Ad ascoltare il rumore assordante dell'elettrocardiogramma farsi piatto? E poi dare la notizia alla famiglia. Lo aveva fatto seguendo le istruzioni di Tsunade, rimanendo zitta mentre il padre di famiglia l'accusava di essere una stupida ragazzina, un'esaltata, un'assassina.

Ed era tornata a casa, senza dirlo a nessuno.

Sul divano del salotto sentiva ancora il sibilo della morte. Aveva provato a tapparsi le orecchie con i cuscini e con la cera, ma quel suono si era infilato nella sua testa e non voleva andarsene via. Allora era rimasta immobile, con il braccio sopra gli occhi, perché tutto quello che vedeva le sembrava rosso e bianco, come il sangue e la pelle di un cadavere. Come quei bambini che più bambini non erano.

Rimase sul divano per un numero non definito di ore, fino a quando qualcuno bussò alla porta. Il toc toc delle nocche sul legno si trasformò ancora una volta in quel sibilo. Non rispose, preferendo stringere i denti per cancellare ogni suono, perfino il suo respiro.

«So che non stai dormendo.»

Riconobbe la sua voce senza bisogno di aprire gli occhi. Ecco l'ultimo tassello che avrebbe condannato la giornata ad essere “no”. Sasuke. Ci mancava solo questo: venire schernita per la sua debolezza, vista come una depressa, incapace di reagire.

«Riposavo.»

Soprattutto perché Sasuke non sapeva e Sakura dubitava gli importasse. Non la avvicinò, non le chiese nulla. Rimase sulla soglia e lei sentì di detestarlo, per il suo costante menefreghismo, per la sua sfacciataggine, per la sua freddezza.  

«Non hai dimenticato nulla?» le chiese.

Solo che si era ripromessa di non essere debole. Non davanti a lui. Solo che aveva giurato agli dèi che avrebbe raccolto tutte le sue energie e il suo coraggio, pur di diventare degna di stargli accanto. E stava fallendo. Del resto Sasuke era sempre stato il più grande dei suoi fallimenti.  

Però voleva provare. Voleva tentare di essere la donna giusta per lui. Stoica, impassibile, capace di solidificare il dolore negli argini del corpo, capace di soffrire dentro e non fuori. Così si tirò seduta, dopo aver strofinato gli occhi sulla manica della maglia, giusto per asciugare quelle due lacrime che si era concessa.  

«Dovevamo vederci con Kakashi e Naruto» ricordò. Forte come lui l'avrebbe voluta. Con voce stabile. «L'ho scordato.»  

Non lo guardò per non rompere l'inganno, per mantenere intatto il muro che imprigionava le sue emozioni. Non poteva permettersi che le travi e il cemento cedessero sotto lo sguardo di Sasuke. Perché sentiva i suoi occhi su di lei, iridi di diversi colori che la trapassavano come chicchi di grandine, sfere di ghiaccio che minacciavano di abbattere i suoi sostegni e di ridurla a un cumulo di macerie, una rovina identica alla palazzina di periferia.

«E tu ti saresti dimenticata dell'incontro per dormire?» le domandò lui.

Ancora una volta guardandola dall'alto al basso. Sakura strinse i pugni. Era troppo forte; possedeva attacchi troppo aggressivi perché lei potesse resistere. Con le unghie conficcate nei palmi, trattenne un singhiozzo e il nodo alla gola si fece stretto. E desiderò piangere. Pregò il cielo che Sasuke provasse a consolarla. In fondo era andato da lei e lei voleva solo parlargli e sentirsi dire che non era inutile, un fallimento...

«Oggi all'ospedale è successo un macello!» iniziò a dire. Sentì le parole premere sulla lingua. Volevano correre fuori dalla bocca, all'alta velocità di un treno. «Non puoi nemmeno immaginare. Ero in sala operatoria e c'erano questi due bambini. All'inizio voleva entrare Shizune, ma io le ho detto che potevo farcela e poi-» .

«Kakashi mi ha chiesto di venirti a cercare.»

Distrusse quel labirinto di pensieri piacevoli, prima che le strade che lo componevano trovassero il tempo di ingarbugliarsi.

Sono importante per Sasuke, si preoccupa per me, è qui per ascoltarmi, vuole sapere perché non sono andata all'appuntamento.

Tutte fantasie tessute dalla sua mente bacata.

«Oh, sì, certo» sussurrò.

Almeno non gli avrebbe dato il sollievo di farsi vedere colpita e affondata. Era stata una scema a illudersi che Sasuke fosse andato a cercarla di sua spontanea volontà. Si mise in piedi, spiaccicandosi in faccia la maschera più finta che conoscesse.

«Scusa, non ti ho nemmeno invitato dentro. Sei rimasto lì sulla porta, scusa» ripeté il suo dispiacere e gli fece segno di entrare.

Ma Sasuke non si mosse e allora gli andò incontro. Avrebbe voluto prenderlo per mano, intrecciare le dita con le sue, ma sapeva che non gli piaceva venire toccato, non senza il suo permesso; e lei non voleva risultare inopportuna, indiscreta. Gli stava lasciando i suoi spazi.

Impugnò il pomolo della porta, attenta a non sfiorare nemmeno un lembo della maglietta grigia che Sasuke indossava. E lui la fissava e lei si sentiva svenire. Ma la colpa era del chakra. L'aveva usato tutto per l'intervento ed ora si trovava a secco e poi...

«Sei passato dall'ospedale.»

Aveva in mano la sua valigetta da lavoro, quella in pelle marrone che le aveva regalato Ino per farla sembrare una brava professionista. Se l'era scordata nello stanzino di guardia, perché nella fuga non aveva trovato il coraggio di tornare al piano di sopra. Incrociare gli infermieri. Incrociare i medici. Incrociare i pazienti. Altri potenziali fallimenti.

«Già» rispose lui. «Sono passato dall'ospedale. Nella fretta l'hai scordata.»

Sapeva. Sapeva tutto e per quello la guardava così, come se fosse stata un'incapace. Ed era vero che la frangia si ostinava a nascondere l'occhio del Rinnegan, ma l'altro emanava frecce così pungenti che si sentiva stupida per il dolore che stava provando.

Soprattutto perché lo provava davanti a Sasuke, al quale la vita aveva tolto tutto; mentre a lei – lei che piagnucolava – non aveva mai tolto niente. Così ricambiava il suo sguardo, in un silenzio che di rado le era parso tanto pesante.

«Grazie per la borsa.»

Afferrò la cinghia della tracolla e la recuperò. Rapida diede le spalle alla fonte del suo disagio e a piccoli passi raggiunse il cucinino.  

«Che ne dici di un tè?» gli chiese.

Doveva fare qualcosa; dire qualcosa. Perché Sasuke era lì ed era al settimo cielo per la sua presenza. Però non sapeva che fare, come comportarsi. E lui non collaborava. La guardava e basta.

«Già che sei qui!» continuò a dire. «Scommetto che non hai fatto colazione, Sasuke-kun. Forse manco pranzo. È davvero maleducato da parte mia non offrirti niente, visto che hai fatto tutta questa strada per me.»

Che scema! Il punto d'incontro si trovava a meno di cinquecento metri da casa sua.   

«Così ci vendicheremo anche di Kakashi che è sempre in ritardo.»

Scema il doppio. Non lo sapeva che era meglio astenersi dal pronunciare la parola vendetta in presenza dell'ultimo Uchiha? Ma, grazie agli dèi, lui non colse il termine tabù, né prese seriamente i suoi deliri. Possibile che a diciotto anni suonati Sasuke le facesse ancora quell'effetto? Continuò a parlare a vanvera, senza accertarsi di pronunciare un discorso dotato di capo e coda; ma una vocina in lei le suggerì che Sasuke le stesse prestando attenzione, perché si sedette sul divano del monolocale, con le braccia incrociate al petto.  

D'accordo... provò a dire – ma solo un accenno! - che non voleva un tè:

«Sakura, lascia stare. Non serve.»

E che avrebbero dovuto sbrigarsi:

«Dobbiamo assicurarci che la grandine non abbia rovinato le impalcature del settore ovest.»

Ma lei andò per la sua strada e cercò il pentolino dell'acqua.

«Per una volta che in ritardo sono io» si giustificò.

Continuò a trafficare con cucchiaini e zollette di zucchero. Scema la terza volta: a Sasuke il tè piaceva amaro! Presa com'era dal mostrarsi una perfetta padrona di casa e un'eccellente domestica, non prestò ascolto ai richiami del suo corpo. Sì, era vero. Si trovava senza chakra, ma questo non significava non sapesse fare un tè. Se poi la testa girava un poco, che problemi c'erano? E se le gambe erano molli e lì lì per cedere, non voleva dire che stesse per...

«Ahi!»

La tazza si ruppe in due e il coccio appuntito, a forma di triangolo, penetrò la carne, in mezzo al palmo. Un fiume rosso colò nel lavandino e si mischiò all'acqua che usciva dal rubinetto. Si aggrappò al bordo del lavabo e serrò le palpebre. Qualcosa si spezzò in lei. Nel buio degli occhi presero forma immagini confuse, echi di voci che la chiamavano. Voci di bambini, un maschietto e una femminuccia. La pregavano di salvarli. Sakura, per piacere; Sakura, siamo piccoli; abbiamo ancora tanti giochi da provare; Sakura, dai, sistema i nostri corpi, così poi facciamo guardia e ladri; Sakura, perché non ce l'hai fatta? È perché ti stavamo antipatici? O siamo stati cattivi?

E voci di genitori che pronunciavano quella parola. Assassina. E dipinti nelle sue iridi c'erano i cadaveri; nelle sue orecchie ancora il sibilo dell'elettrocardiogramma. Il sibilo piatto, il sibilo della morte.

«Sakura!»

E questo era Sasuke che la chiamava, in quella che doveva essere un'illusione, perché lui non pronunciava mai il suo nome con tanto affanno e tanta preoccupazione e tanto... affetto? Era pazza, totalmente impazzita.

«Sakura!»

Anche perché si sentiva sorreggere da lui, quando sapeva benissimo che stava seduto sul divano, a guardarla con disprezzo. E perché le pareva che la stesse sollevando da terra; e le piaceva il contatto con il suo corpo. Sembrava in grado di racchiuderla nelle sue braccia e di difenderla da tutto. Anche dal dolore; anche dalla morte.

Finché il contatto venne meno e si trovò circondata dai cuscini del sofà. E Sasuke si fece lontano, accompagnato dal rumore di cassetti che sbattevano e antine che venivano aperte e poi chiuse.

«La mano» le disse in un ordine.

Si sedette accanto a lei, lei che finalmente si decise a schiudere gli occhi. Ed era vuota e stanca e miserabile. Debole e rassegnata e inutile. Lo vide aprire la cassetta del primo soccorso, quella che teneva nel mobiletto sotto il televisore, e recuperare una garza sterile.

«Sakura, vuoi darmi quella mano?» ribadì con impazienza.

Ma lei non eseguì l'ordine. Si sentiva avvolta da una strana coltre di sonnolenza, un dormiveglia ad occhi aperti, in pieno giorno. E allora Sasuke prese l'iniziativa e afferrò la sua mano, senza delicatezza, premendo troppo. Il flusso di sangue aumentò, il taglio si allargò un poco. Le labbra di Sasuke si staccarono e liberarono una sillaba, uno “scu-” che Sakura scambiò per l'inizio di quella parola che lui non le avrebbe mai detto.

Infatti tacque. Fasciò la mano in silenzio, la fasciò male, in modo maldestro, ma ci mise tutto il suo impegno. Gli si leggeva in viso. E non disinfettò nemmeno il taglio, prima di applicare la garza, né aggiunse una pomata cicatrizzante. Però fu più delicato e anche quando terminò di girare la fascia attorno al palmo, tenne la mano tra le sue.

E la guardava, mentre Sakura guardava lui e le sembrava improvvisamente triste, piccolo e solo. Triste, piccolo e solo, proprio come triste, piccola e sola si sentiva lei. Finché il rintocco delle quattro di pomeriggio non lo fece trasalire; e allora lasciò cadere la mano bendata sui cuscini del divano e scattò in piedi, dandole la schiena.   

 «Dirò a Kakashi che oggi non verrai.»

A testa bassa, senza un vero saluto, sparì nella pioggia di quel mercoledì pomeriggio.


A due giorni di distanza dal fattaccio, continuava a sentirsi una povera stupida. E non solo perché stava fissando la vetrina di un negozio, senza decidersi a entrare! Si sentiva stupida, perché teneva ancora la benda attorno alla mano. Una volta tornato il chakra avrebbe potuto curarsi e invece aveva scelto di non farlo. Non era messa meglio di quelle ragazzine dalla Suna che volevano l'autografo di Gaara sul palmo e non si lavavano per una settimana, per paura di cancellarlo.

Del resto, quella fascia malmessa era uno dei pochi gesti d'interesse che aveva ricevuto negli ultimi anni, e per un istante si era illusa che ci sarebbe stato un seguito. Non pretendeva un happy ending con dichiarazione d'amore in grande stile, matrimonio in pompa magna e una sfornata di bambini tale da ripopolare Konoha. Si sarebbe accontentata di una parolina in più rispetto al classico cenno del capo che Sasuke le rivolgeva ogni mattina, per salutarla.

E invece niente. Non un “mi dispiace per quei bambini”, non un “come sta la mano?”. E ora il caso – aiutato da quello stupido attacco di grandine! – la portava in un negozio di tazze. Sakura era convinta che le divinità, lassù, nascoste da nuvole grige, si stessero divertendo a renderle la vita impossibile.

Ma almeno, visto che era lì, avrebbe potuto approfittarne per comprare un nuovo servizio di tazze: quello che si ritrovava in credenza apparteneva all'uomo di Neanderthal. Con questo unico sollievo a riscaldarle il petto, si scrollò dalle spalle qualche chicco di grandine ed entrò nel negozio.

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Ecco il capitoletto due. Le persone che ho avuto modo di conoscere su efp sanno che non sono mai contenta di quel che scrivo. Di questa storia (mancano ancora tre capitoletti) sono soddisfatta solo e unicamente perché l'ho conclusa. In questo periodo nella mia vita ci sono stati tanti cambiamenti e ho dovuto ridurre il tempo per la scrittura ai dieci minuti prima di spegnere la luce e andare a dormire. Come storia, non mi soddisferà mai completamente, ma spero comunque che a qualcuno possa piacere. Grazie a tutti i lettori,

un bacione

Odiblue

   
 
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