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Autore: Some kind of sociopath    03/12/2014    3 recensioni
Anno 1769: Haytham E. Kenway, dopo il suicidio dell'amico Jim Holden e la morte della sorella Jenny è tornato a Boston alla ricerca di Tiio. Lei è sopravvissuta all'incendio del villaggio, nonostante il figlio non lo sappia, e Haytham ha intenzione di ricucire la sua famiglia, quella che non è riuscito ad avere nella propria gioventù. Ma non ha messo in conto gli altri Templari, il suo vecchio Gran Maestro Reginald Birch e la piccola e fastidiosissima Confraternita degli Assassini...
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Il testo dei primi due capitoli è stato rivisto e modificato. Mi farebbe piacere sapere che cosa ne pensate al riguardo e quale "versione" preferite, ;)
 
Genere: Avventura | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Achille Davenport, Altro personaggio, Connor Kenway, Haytham Kenway
Note: What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Spoiler!
Capitoli:
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But I'm a creep
I'm a weirdo,
What the hell am I doin' here?
I don't belong here.
– Radiohead, Creep.

Dei disgraziati. Tutti noi lo siamo.
– Irvine Welsh, Il Lercio.

 

– Piena anche quella?
– Maledizione! Che è, si sono messi d'accordo? – Il patriota che mi aveva colpito con il moschetto si passò una mano sulla fronte madida. Lì sotto giugno si faceva sentire, ma non sarebbe stato niente in confronto al calore di New York, messa a ferro e fuoco dalle giubbe rosse in quelle stesse ore. – In questa ce ne sono addirittura sei!
Mi schiarii la voce. Dopo aver singhiozzato per un'altra ventina di minuti non avevo più aperto bocca, se non per maledire il nome di Washington tra me e me. Quei soldati non erano il loro comandante. E poi dovevo ucciderli. Tanto valeva farci due chiacchiere. – Disertori?
– A-ah. – Non sembravano curarsi del fatto che stessi parlando con loro. Meno male. Avevo bisogno di sentire qualcuno che non dicesse solo cazzate. – Sembra che tutti abbiano le idee confuse. Dicono che anche se vincessimo le tasse dovranno essere pagate, solo a un governo diverso, quindi saltellano tra un esercito e l'altro per tenere le chiappe al sicuro. – Annuii tra me. Non erano confusi. Solo persone intelligenti che la sfortuna aveva spedito in cella. Al loro posto avrei fatto la stessa cosa. – Washington ha deciso di dare un taglio alle esecuzioni. Per dimostrare di non essere come il Re.
L'altro soldato grugnì, irritato. – Già. Peccato che così non ci sia spazio manco per l'aria, lì dentro. – Colpì la porta metallica della cella con un calcetto. – Così anche se non li impicchi muoiono di fame, di sete o per qualche diavolo di malattia. – Sbuffò. – Vanno tutti nello stesso posto, alla fine.
– Amico, qua non ci starebbe neanche per un topo – replicò il primo, sbirciando in una delle celle attraverso lo spioncino. – No. No, io lo riporto da Washington.
Il secondo fece spallucce. – E che gli diciamo? Che dobbiamo lasciarlo libero perché è stato troppo buono con gli altri cento o centocinquanta traditori?
Sogghignai. – Potrebbe essere un'idea – aggiunse il primo. – Questo posto non ha senso. I bastardi restano in vita e noi rischiamo di morire per la prima pestilenza di merda che parte da qui. Io dico di chiedere a Washington una soluzione alternativa.
L'altro sospirò. – Come vuoi.
Aggrottai la fronte. Che? Forse, per una volta, avrei potuto risparmiare un essere umano. Che novità. Stupiva anche un cinico come me. Schioccai la lingua mentre i due soldati mi spingevano nuovamente verso le scale per uscire di lì.
Al loro posto, io avrei preferito morire che continuare a servire quel figlio di puttana. Quindi, pensandoci, non c'era tutta questa pietà nei miei gesti.
Al diavolo. Tanto sbagliavo sempre.
Mentre mi spingevano alla luce grigiastra che il sole versava su Valley Forge, pensai che la soluzione alternativa di Washington poteva anche comprendere la mia morte. Sì. Un cadavere tra gli altri, buttato in una latrina coperta di terra. Nessuno vi avrebbe mai fatto caso. Tranne mio figlio, forse.
Di sicuro se ne sarebbe accorto Tom, appena fosse stato a corto di denaro. Bugiardo schifoso. Dunque aveva mentito su quanti uomini avesse davvero ammazzato quella volta.
Il fatto era che avevo cose peggiori cui badare, e tutte quelle stronzate si sovrapponevano nella mia testa, mi confondevano. Ce n’era sempre una più grossa delle altre, lì, ad alitarmi sul collo come un lupo famelico. La mia sopravvivenza, giusto per fare un esempio. O l'assicurarmi che la Mela non cadesse nelle mani di Reginald, neanche per sbaglio. Se Thomas decideva o meno di uccidere delle persone non era un mio affare. Neanche un'eternità passata a chiedere perdono al Papa in persona avrebbe potuto espiare le nostre colpe.
– Guarda dove cammini, cazzone! – Uno dei soldati mi afferrò per un braccio mentre caracollavo in avanti, inciampato in un gradino pieno di sbeccature. Imprecai tra me. In un accampamento britannico non sarebbe mai successo. La passione per la forma dei miei compatrioti mi mancava un po'. O forse, semplicemente, avrei preferito vedere il vecchio Church resuscitato piuttosto che inginocchiarmi davanti a Washington.
Serrai i denti, le corde che sfregavano sui polsi come se volessero segare la carne. – Dovrò buttarmi ai suoi piedi e implorare pietà? – bofonchiai sfacciato, sperando che non m'ammazzassero loro stessi. D'altronde, nessuno fuori dalle mura poteva sapere quali fossero i motivi per cui, ogni giorno, decine di soldati morivano negli accampamenti. Potevo essere uno dei tanti, sparito senza lasciare traccia. Oh. Per favore, George. Se proprio avessi dovuto, sarebbe stata quella la mia preghiera. Ho venduto la mia anima per la vendetta. Sono invecchiato e sopravvissuto solo per quella. Lasciami vivere ancora un po'. Solo un po', non chiedo nient'altro.
E speravo che il comandante fosse clemente. In nome della libertà, delle sue stupide idee democratiche o della profonda amicizia che lo legava a mio figlio. Era sangue del mio sangue. Non poteva farmi fuori, giusto? Non senza un motivo valido.
Come un paio di pugni in faccia.
Dannazione. – Farai ciò che vuole Washington, tu. Ora zitto. – Roteai gli occhi. Ciò che voleva. A pensarci, poteva essere di tutto. – Anzi, dimmi una cosa.
L'altro sbuffò, e sentii la sua mano colpirlo in una pacca amichevole. – Andiamo, James, piantala. Se ci beccano a fare amicizia...
– Chiudi il becco per un secondo, cazzo, e dimmi se arriva qualcuno. – James, quello che mi aveva salvato dallo spaccarmi il naso sulla dura terra di Valley Forge, infilò un braccio nell'incavo del mio gomito e mi trascinò con sé in una brusca deviazione dal sentiero principale dell'accampamento, tra le rimesse per i fucili e le casse di rifornimenti impilate con cura. – Adesso mettiamo in chiaro due cose, vecchio.
Aggrottai la fronte. Doveva esserci qualcosa di grosso in ballo se osava disobbedire al grande George Washington. Connor non avrebbe fatto una cosa del genere neanche sotto tortura. – Jim. Vacci piano.
L‘altro rispose con un grugnito. – Arriva mica nessuno, vero?
– Oh, Dio, mi hai sentito dare l'allarme?
James allentò la presa sul mio braccio. – Be', no.
– E allora di che ti preoccupi? Se arriva un cazzo di qualcuno te lo dico. – James sbuffò e prese a caricare il moschetto, il suono del proiettile in canna che mi rimbombava nelle orecchie come una messa funebre.
M'irrigidii di colpo. Avevo la baionetta del soldato tremante sotto il mento, gelida a contatto con la pelle. – Allora smetti di rompere le palle e sta' di guardia! – berciò. Ero talmente concentrato sulle loro parole che quando mi mandarono a sbattere contro la parete di una rimessa per la polvere da sparo lanciai un grugnito d'indignazione, la guancia schiacciata contro il legno.
– Ma se continui a parlarmi come cazzo faccio a stare di guardia? – L'altro si allungò per mollare uno spintone a James. Oh, Dio. Perfetto. Mi ero trovato i due soldati più stupidi che il fato potesse concedermi.
Andiamo, erano patrioti. Da un lato dovevo aspettarmelo. – Sta’ all’erta e chiudi il becco – sibilò James prima di voltarsi a guardarmi. Mi fece girare su me stesso, la schiena contro la parete della rimessa. – Ascoltami un po'. Due punti, ti dicevo. Numero uno, se apri quella tua boccaccia da vecchio di merda ti taglio il cazzo e te lo faccio ingoiare. – Oh, ma che carini. L'emblema della democrazia.
Sollevai un sopracciglio. Numero due, se mi chiami un'altra volta "vecchio" i tuoi denti faranno la stessa fine del villaggio di Connor. Nel peggiore dei casi te li spacco adesso, altrimenti torno tra un paio di mesi e li strappo da quelle schifose gengive con un sorriso ancor più grosso.
Non riuscii a trattenere una smorfia divertita. Con tutte le disgrazie che avevo dovuto attraversare quel ragazzino credeva di spaventarmi con due parole? Uh. Non era un brutto giovane, anzi, a parte le occhiaie violacee e i denti gialli, poteva ancora essere considerato attraente, ma questo non gli dava il diritto di trattarmi come un idiota. Forse – senza dubbio, direi – funzionava con i suoi sottoposti. – E punto due, non provare a mentirmi. – Ringraziai il cielo: credo che se avesse aggiunto un'altra minaccia non sarei riuscito a trattenermi dal ridere.
Presi fiato. – D'accordo. Che cosa vuoi? – Cercai di andarci cauto. Avevo avuto centinaia di conversazioni come quella, nel corso della mia vita. Sapete, ogni uomo con un qualche grado pensa di essere moralmente e intellettualmente superiore a un soldato semplice, e ogni soldato semplice crederà di esserlo nei confronti dell'uomo comune. A volte abbiamo bisogno di conferme della nostra autorità. E avevo già fatto il bambino cattivo con Washington, se mi fossi messo a picchiare anche quei due mi avrebbero impiccato o sgozzato come un maiale solo a causa della mia follia. – Non siate timido.
James emise un grugnito. – Non lo sono, vecchio. – Irrigidì la mascella, e per un istante arrivai a pensare che mi avrebbe chiesto di inginocchiarmi mentre si sfibbiava i calzoni. "Non avevi detto che non avrei potuto aprire bocca?" Mio Dio, perché ogni volta che le cose si complicavano un po' la mia testa tirava fuori quegli assurdi sprazzi d'immaginazione? – Ascoltami un po' – disse con una mano tra i capelli. La sua bocca, piegata in una smorfia triste e ansiosa, sembrava quella di chi ha bevuto un intero boccale di piscio. – Hai detto che le aragoste stanno andando a New York, non è così?
Annuii con decisione. – L'ho saputo da un complice di Ben Church. Sono state le sue ultime parole, ho pensato di potermi fidare.
James mi lanciò una di quelle occhiate con cui i giovani sono bravissimi, da cucciolo disperato, il volto bianco e le palle degli occhi lucide. – Devi... – Si morse un labbro e si premette una mano sulla bocca. L'altro soldato scosse la testa in un cenno scettico. Potevo capirlo. – Devi esserne sicuro. Gli inglesi stanno veramente... andando a New York?
Il mio primo impulso fu quello di fare spallucce, ma al ragazzo sfuggì un singhiozzo. E poteva essere un patriota, un lealista, una giubba rossa o Gesù Cristo in persona, ma mi aveva salvato dal finire in una cella sovraffollata a morire di febbre. Mi sentivo in debito, lo ammetto.
Non dovevo necessariamente fare il bastardo con tutti, no? – È una situazione facilmente verificabile. Philadelphia ormai è in mano a voi, quindi direi che l'unico posto ancora libero e disponibile è New York. – Presi fiato. – Non avete molte truppe lì, o sbaglio?
James prese a camminare rapidamente in circolo, i pugni chiusi e le labbra strette al punto da sembrare ancora più bianche. – Dobbiamo andare da Washington e dirgli di ascoltarlo.
– Jim, è l'alba. – Il secondo scosse il capo. Direi che uno di loro aveva già capito come funzionava il mondo, quantomeno. – Non abbiamo più possibilità di riuscire a...
– Non me ne importa niente, Paul! – Quel James mi fece trasalire, riuscendo a suonare furioso e terrorizzato anche sussurrando. Ah, la vita militare. Uomini chiusi in una ferrea gerarchia, senza alcun potere sulle idiozie di un terzo bastardo con il grado giusto sul petto. – Ci stanno mia moglie e mia figlia laggiù!
– Credi che non lo sappia? Rassegnati, amico. Forse le giubbe rosse le hanno...
– Forse? – James non riuscì a trattenersi e alzò la voce, scagliandosi contro il compagno d'arme con uno spintone. – Dobbiamo mandare delle truppe di supporto! Adesso!
Paul lo afferrò per una spalla. – Stammi a sentire, se mandiamo delle truppe per un offensiva i nostri dovranno aprire il fuoco. Ci sei? Magari la città è stata presa pacificamente e stanno tutti bene, invece noi piombiamo lì e distruggiamo tutto. Li provochiamo, cazzo. – Mi ritrovai a sollevare un sopracciglio, pensando a quanto mi fossi sbagliato sul loro conto. Litigavano come comari, ma non per questo erano stupidi. Anzi, Paul aveva appena detto una cosa molto più ragionevole di tutta la merda che usciva dalla bocca di Washington.
James scosse comunque la testa. – Nessuno prende una città pacificamente. – Aveva abbassato il tono, e quando si voltò nella mia direzione le sue labbra avevano assunto una piega dura. – Devo sapere come stanno, Paul – singhiozzò. – Avrei dovuto mandarle dai miei.
– Amico, scommetto che stanno bene – lo rassicurò l'altro. Iniziavo a crederci anche io. A pensarci, se difendevano New York come difendevano Philadelphia, gli inglesi non dovevano neanche aver snudato la spada. Potevano essere ancora tutti vivi, al sicuro nelle loro case.
Non credo avrebbero più fatto l'errore di due anni prima, con quel maledetto incendio. Mi venivano i brividi solo a pensarci. – Tu – James mi diede una spintarella. – Se scopro che hai mentito, la pagherai cara.
Annuii perché mi spiaceva per lui, ma non temevo le sue minacce. In quel momento Charles poteva già aver recuperato la Mela dell'Eden, e appena fuori da quel casino, se ne fossi uscito vivo, ci avrebbe pensato lui ad ammazzarmi. – Non ho mentito – risposi. – Lo giuro.
Il giovane soldato mi mandò uno sguardo di fuoco. – Lo giuri? Che cos'hai su cui giurare? – La sua voce si era fatta più sottile, sul punto di spezzarsi. – Tu una vita l'hai vissuta, e adesso sei solo, qui, a fare il matto. Che cos'hai da perdere? – Mostrò i denti e diede una botta a palmo aperto sul legno accanto alla mia testa, facendomi trasalire. – Che cosa diavolo hai, tu, da perdere? Io non ho mai visto mia figlia sorridere o... o camminare! Sai da quanto tempo non mi scopo mia moglie? E ogni giorno, ogni minuto, ogni maledetto secondo che passa il suo viso diventa più sfuocato nella mia mente, e non posso fare nulla per cambiare le cose! Io ho ventidue anni e una famiglia che non ho neanche visto crescere per colpa di questa maledettissima guerra!
– James. – Paul lo prese per una spalla e lo tirò indietro. Le lacrime scorrevano copiose sul suo viso, brucianti di rabbia e frustrazione. Lo capivo. Era quello il guaio, ciò che Connor non riusciva a comprendere quando andava ad ammazzare i soldati inglesi. Che c'è la stessa gente da entrambe le parti. Uomini disperati e confusi, con una famiglia e tutto il mondo contro.
A parte Banastre Tarleton, mi pare ovvio. Quel ragazzo mi ricordava Tom da giovane. L'unica cosa che li differenziava era l'aria di classe che Ban il Sanguinario ostentava, tutto orgoglioso. – Andiamo da Washington – lo rassicurò Paul. James si era messo a piangere sulla sua spalla, il corpo scosso dai singhiozzi. Mi facevano davvero pena, ma io non ero in una situazione migliore solo perché non stavo piangendo o non ero rinchiuso in una cella. La mia vita faceva lo stesso schifo. Che novità. – Su. Non disperarti.
– Grazie. – Si asciugò il naso sulla manica della giubba, un debole sorriso stampato in faccia. – Andiamo – disse con un ultimo singhiozzo, afferrandomi di nuovo per il braccio e guidandomi verso la strada principale di Valley Forge, ancora avvolta nella nebbia grigia e squallida del primo mattino. Riuscivo a scorgere la bandiera  sulla tenda di Washington da laggiù, un superbo vessillo simbolo di qualcosa che non esisteva. Stessa terra, con un nome diverso. Come se avere un Parlamento sul suolo americano potesse permettere ai cittadini di avere davvero il controllo sulla politica.
Illusi di merda. – Vuoi che ci parli io? – chiese Paul. James annuì, e io ne fui felice. Sembrava più ragionevole del compagno, calmo, il tipo di persona cui tutti danno retta. Iniziai a chiedermi se la sua famiglia fosse già andata all'altro mondo. Forse semplicemente non ne aveva una. – D'accordo. Amico, sta' calmo. Sono al sicuro. James. Guardami. – Lo prese per le spalle, scrollandolo un po'. – Pensa positivo, per una volta. E prega Iddio di avere ragione.
James singhiozzò di nuovo, ma senza piangere. – Che senso ha? Questo schifo di guerra non ci ha mai portato niente di positivo.
Sbuffai piano, evitando di farmi sentire. Lì la colpa non era della guerra, ma di quell'inetto figlio di puttana che avevano per comandante. – Dopo andiamo a bere qualcosa e scriviamo una lettera a tua moglie. D'accordo? – James annuì. – Ora mi serve che tu stia calmo, però. Puoi rimanere qui, se preferisci. – Scrollò il capo. Perfetto. Forse Washington si sarebbe fatto un paio di scrupoli sul condannare un uomo quasi innocente davanti ai suoi sottoposti.
Quasi innocente, sì. Mi aveva provocato. Se fosse stato più acuto non avrei dovuto organizzare nessun attentato, e senza dubbio non l'avrei mai preso a pugni. L'avrei immaginato, forse. Si era impicciato degli affari miei e di Connor, insieme ai Templari e alla Prima Civilizzazione, e pensava di poter mandare all'aria tutti i miei piani. Mi aveva punzecchiato fin dall'inizio.
Questo mi mandava davvero in bestia. Questo. L'essere tormentati da uno stupido bastardo che aveva sempre voluto solo il potere. Ricordavo le sue parole al Congresso Continentale. Balle. Nient'altro che schifose balle in caso ci fosse stato qualche problema. Avrebbe potuto fare qualsiasi cosa, per poi scrollare le spalle con la scusa del "l'avevo detto che non mi sentivo all'altezza".
George Washington era stato un verme prima ancora di diventare comandante. Forse ce l'aveva nel sangue. Lo ricordavo con Braddock. Cercava di difendere l'uomo che, se non mi fossi mai messo in mezzo, a quell'ora avrebbe avuto il suo posto di lavoro.
A pensarci, era lui a dovermi la vita. Che ingrato. – Comandante? – Paul si era appena schiarito la voce, il petto gonfio, pronto a scattare sull'attenti. – È permesso?
Mi fecero fare il giro della tenda, piazzandomi di fronte all'ingresso. Non sopportavo di essere legato come un quarto di bue davanti a lui. Mi faceva sembrare impotente. Quel bastardo mi si sarebbe messo davanti, con la sua aria da Dio in terra, e mi avrebbe lanciato il suo migliore sguardo caritatevole prima di annunciare la mia condanna a morte.
George Washington era in piedi davanti alla sua scrivania, sfogliava lettere e puntava le dita sulle mappe con gli occhietti lucidi per la commozione. Un altro pezzo di terra da cui ricavare tasse, evviva! Era eccitato come un bambino. – Perdonate l'interruzione, signore, ma abbiamo avuto un piccolo problema. – Con una spinta dietro il ginocchio, Paul mi fece cedere le gambe. Non potevo crederci. Mi aveva fatto inginocchiare davanti a Washington. Tanto valeva che mi slegasse e mi mettesse carponi. Avrebbe facilitato il compito a entrambi.
George si voltò, e una scintilla di sorpresa e rabbia galoppò attraverso i suoi occhi. – Di che si tratta? – grugnì senza nemmeno guardarmi in faccia. – Mi pareva di essere stato chiaro.
Paul deglutì rumorosamente. In quell'istante capii che sarebbe stato disposto a fare – a farmi – qualunque cosa pur di non essere punito a sua volta. Anche ammazzarmi a mani nude. – Le celle sono piene, signore. Non c'è nemmeno lo spazio per aprire la porta. Se posso permettermi...
Washington lo fermò con un cenno prima ancora che cominciasse. Incredibile. Era ebbro di sé e del suo potere, come se essere a capo di un esercito lo rendesse il padrone supremo del mondo. Alla stregua di Dio.
Che ipocrita, sussurrò una vocetta ragionevole nella mia testa, è esattamente ciò che fai tu nei confronti dell'Ordine.
Certo, la vocina aveva ragione. Ma io avevo avuto al massimo cinque sottoposti. Suppongo non fosse come fare il prepotente con centinaia di uomini. – Quest'uomo dovrebbe essere già sulla forca per ciò che ha fatto – sibilò Washington. Bah. Esagerato. Avevo cercato di salvare il mondo dalla sua smania di potere. Con metodi non propriamente ortodossi, ma, come si dice?, a volte il fine giustifica i mezzi. – Siete fortunato. Ho abbandonato la politica della pena capitale diverso tempo fa.
Mi sfuggì un sorrisetto. Quindi anche il buon comandante aveva deciso di smetterla con gli omicidi, oh, che carino.
Bisognava essere proprio stupidi per non cogliere il palese secondo fine di questa buffonata. Dove ti impiccavano appena dicevi che i nuovi boccoli di Sua Maestà erano un tantino ridicoli?
In Inghilterra. Esattamente.
E contro chi stava combattendo l'Esercito Continentale? Da chi voleva l'indipendenza economica a tutti i costi?
Ops. Senza contare che infilare cinque o sei persone in una cella per mesi, magari senza cibo o acqua per darsi una ripulita, non mostrava assolutamente più rispetto per gli esseri umani. Anzi, forse quei poveretti avrebbero preferito morire, mentre io pensavo che se qualcuno doveva essere ucciso, quello era lui.
Lui e nessun altro. – Ho riflettuto a lungo su questo. Ho pensato all'amicizia che mi lega a vostro figlio. – Un modo moralmente accettabile per definire suo servilismo. – Dovete essere molto amico di Charles Lee, e proprio per questo è vostro dovere appoggiarlo di più in ciò che fa. Abbiate fiducia. Quell'uomo non ha bisogno di protezione.
Mi corse un brivido lungo la schiena. Lo diceva perché non aveva mai visto la sua espressione alla prospettiva di farsi fottere da Reginald. La sua disperazione.
Non aveva idea di come fosse fatto Charles. Proprio per niente. – Ciononostante, ho preso in considerazione l'idea di lasciarvi andare vivo. – Sospirò. Eh, che fatica fare il comandante. Maledetto bastardo. – Un'altra volta. E di nuovo, dovreste ringraziare solo vostro figlio.
– Ne siete sicuro, signore? – C'era una nota di stupore nella voce di Paul.
Gli feci un sorrisetto. – Sì, ne sei sicuro? – ripetei. – Perdio, sei così generoso che potrei mettermi a piangere.
– Totalmente, soldato. – Washington fece un cenno d'assenso a Paul, dietro di me, ignorandomi con la sua solita supponenza. – Siete libero. Spiegherò tutto a vostro figlio, quando lo rivedrò.
Sentii la rabbia montare nel mio petto come un'onda. Perché continuava a ripetere "vostro figlio"? Non si ricordava neanche il fottuto nome dell'unico uomo davvero dalla sua parte, che non fosse costretto da un ideale o una gerarchia? Che razza di bastardo. – Perché? – sibilai, i denti stretti gli uni contro gli altri. – Sei forse un vigliacco, George? Andiamo. Ammazzami. Prendi la pistola, un colpo in testa ed è tutto finito. – Non c’era nessun affetto verso Connor nelle sue parole. Solo apparenza. Perché, ovviamente, secondo lui io sarei uscito di lì saltellando, per urlare a tutta Philadelphia che George Washington era un uomo meraviglioso. Insomma, ero vivo! Che cosa poteva darmi di più?
Scosse la testa. – Dovreste essergli grato. Quel ragazzo non vi merita. – Oh, certo, io dovevo essere grato a Connor! Come osava trattarmi in quel modo? Mi stava lasciando andare con la testa e gli arti al loro posto, ma era solo una scusa. Glielo leggevo in faccia.
Non voleva guai con mio figlio. Il ragazzo che l'ultima volta, al Congresso, gli aveva chiesto in maniera esplicita di non ammazzarmi. Avrebbe potuto prenderlo una qualche cieca follia e sarebbe finito ad ammazzare Washington.
Oppure, cosa assai più probabile, gli avrebbe dato uno spassionato bacio sulla bocca. – Quel ragazzo non merita te! – replicai, sul punto di alzarmi nonostante le ginocchia doloranti. Volevo colpirlo di nuovo. E poi di nuovo. Fino a trasformargli la faccia in un mucchio di carne amorfa. – Ti ha dato fiducia e continua a farlo e io, davvero, io... – Scrollai il capo. Le parole mi si sovrapponevano in bocca, e sembrava non ce ne fosse neanche una cattiva abbastanza da fargli capire quanto lo avrei voluto morto, quanto fosse fortunato ad avere un sostenitore come Connor. – Io non so come faccia dopo tutto quello che gli hai portato via.
Washington si prese una mano nell'altra, dietro la schiena. Il suo sguardo debole e acquoso era sviato, puntava a nord, verso il villaggio di Connor. Quel figlio di puttana non aveva neanche il coraggio di guardarmi in faccia.
Come poteva essere ancora vivo? Davvero nessuno aveva avuto la mia stessa pensata, farlo fuori e lasciare che una persona con più buonsenso guidasse gli Stati Uniti?
Che Connor dicesse ciò che voleva, ma io conoscevo George Washington. Da prima del Congresso Continentale. Quand'era solo il leccapiedi di un uomo più grande, il Bulldog. Un altro figlio di puttana, ma non aveva mai cercato di coprire le sue azioni, quantomeno. Era un sanguinario.
Nell'esercito lo sapevamo tutti. Era la sua principale qualità, ciò che metteva paura agli avversari, e così fu anche la sua condanna. Edward Braddock era odiato, ma senza di lui non saremmo mai riusciti a vincere la Guerra dei Sette Anni. Mentre Washington... Che cosa stava facendo, di preciso? A parte mettere inglesi contro inglesi, s'intende.
Sputai a terra mentre lo guardavo riflettere, o prendere tempo, come preferite. Quella guerra era patetica. Uomini che lottavano per non pagare le tasse all'Inghilterra, per una stupida questione di principio. Cosa pensavano? Che quando gli Stati Uniti fossero stati liberi nessuno avrebbe messo in piedi un governo?
Oh, aspettavo solo quel momento. Strinsi la mascella con tanta forza da mordermi la lingua, imprecando sottovoce tra me e me. Sì. Volevo vivere abbastanza da vedere i nuovi americani pugnalarsi alla schiena l'un l'altro per scegliere il loro rappresentante.
A cui versare delle tasse, ovviamente.
Patetico, come dicevo. Eppure tutti la prendevano come... non so. Una questione d'onore. Perché non s'accontentavano del loro maledetto pezzo di terra? Che bisogno c'era di scatenare un altro putiferio?
George si voltò con due dita premute sulle palpebre, l'aria sconsolata di chi ha a che fare con gli irragionevoli. – Vi lascio andare. Consideratevi libero. – Paul mi tirò rudemente in piedi e tranciò con la baionetta i legacci ai polsi. Il sangue riprese a scorrere nelle mani doloranti e insensibili. Forse quel fastidioso formicolio era dato dal bisogno del mio corpo di infierire su quello di Washington.
Non sopportavo il modo in cui mi si rivolgeva. Come fossi il più grosso idiota del mondo. – Ti rendi conto di quello che stai dicendo? – gridai, azzardando un passo verso di lui. Mi sentii trattenere saldamente per un braccio. Paul, sicuramente. Mossa saggia, devo ammetterlo. – Hai venduto sua madre a Charles Lee!
Non ero riuscito a trattenermi, ma a quel bastardo non importava niente. Ero solo un pazzo delirante che urlava e continuava a urlargli frasi senza senso, mentre il comandante mi sbatteva in faccia la sua finta pietà per far colpo sugli allocchi come Connor. – Questo è il mio ultimo avvertimento – scandì, gli occhi chiari fissi sulle mie sopracciglia. Un trucchetto vecchio come il mondo. Avrei voluto cavare quelle biglie dalla sua testa a mani nude. – Oggi vi lascio andare perché le circostanze sono quelle che sono. Nel Nuovo Mondo trattiamo la gente con rispetto. Porgiamo l'altra guancia, come Nostro Signore ci ha insegnato.
Scoppiai a ridere. Oh, ci mancava solo che mettesse in mezzo la Chiesa. Certo. Ero un pazzo, violento e adesso anche eretico. – Ma se dovessimo incontrarci ancora, e se di nuovo finissimo per far scontrare le nostre idee, ed è palese quant’esse divergano, io non sarò così clemente, signore. – Mi diede la schiena, intimando al suo sottoposto con un gesto noncurante di mandarmi via.
– Clemente? – Mi stavano trascinando verso l'uscita di Valley Forge, ma continuai a urlare. Che importava? – Sono io quello clemente, qui! Io, cazzo!
Paul mi spinse oltre la palizzata, mandandomi carponi a terra. Restammo un attimo a guardarci, dunque lui scrollò le spalle e tornò al suo lavoro.
Sentivo gli occhi bruciare per le lacrime. La colpa era tutta di quel bastardo. Incredibile, ma la riuscita della mia missione era nelle mani inette di George Washington, il figlio di puttana che non mi ammazzava solo per mostrare alla gente quanto fosse buono.
Un brav'uomo avrebbe guardato Charles, lo avrebbe guardato davvero. Non gli sarebbero sfuggiti gli occhi iniettati di sangue, le borse violacee sotto gli occhi e i capelli sporchi, la noncuranza nel vestirsi e quell'aria terrorizzata nascosta dal suo miglior sguardo spavaldo. Era così l'ultima volta che lo avevo incontrato. Chissà, magari adesso zoppicava anche un po'.
Mi sfuggì un singhiozzo, che mi costrinsi a tarpare con una mano sulla bocca. Va tutto bene, pensai, va tutto bene.
Non potevo mentire a me stesso. Mi sollevai lentamente, le ginocchia e le gambe che chiedevano pietà. Avevo soltanto due possibilità. Aspettare che Connor tornasse, lì, seduto contro un albero, con il rischio di essere abbattuto dalla prima fila di giubbe rosse che avesse deciso di fare una capatina, o cercare un po' di ristoro e conforto nell'unica casa in cui, speravo, ci avrebbero accolti senza troppe maledizioni.
Un paio, forse. Non di più.
Affondai le mani nelle tasche e mi incamminai verso l’uscita da quel posto di merda, verso Philadelphia, pregando di non dover arrivare fino in città. Pregando di essere ammazzato prima e di non dover assistere alla mia rovina.
Avevamo perso. Questa era la verità. In un colpo solo Washington aveva condannato me, Connor e Charles. Non solo, ora che ci pensavo. Aveva condannato se stesso, e l'umanità con lui.
Perché poteva essere lui quello clemente, ma io... io avevo pensato di essere furbo. Avrei dovuto uccidere Washington in quel momento, o la volta prima. Non me lo sarei dovuto far scappare. Forse ci avrebbe pensato Lee, quando avesse avuto in mano la Mela, mentre io sarei stato chiuso in una taverna a piangere e ubriacarmi, brindando al Nuovo Mondo di Reginald Birch.
Lo immaginavo mentre veniva a cercarmi con il Frutto dell'Eden in mano e mi trovava in quello stato, sbronzo e singhiozzante. Che fine miserabile.
Non ho mai detto di meritare di meglio.
Presi a calci un paio di sassolini, lungo il sentiero. Ero perso nei miei pensieri. – Goditi il ragazzo, Georgie – sussurrai con lo sguardo basso. – Goditelo finché puoi. Prima che apra gli occhi.
Mi passai una mano in faccia, lasciando sfuggire un altro singhiozzo disperato. Lo ammetto. Ormai avevo smesso di sperare, di credere che prima o poi sarebbe successo. Connor era una sua vittima, un succube. Solo perché era a capo di un grosso mucchio di persone con uno scopo apparentemente identico al suo.
– Ma gli uomini non vogliono la libertà – dissi tra i denti digrignati. – Vogliono il sangue, l'illusione di avere potere. Quando dai loro una scelta si ritirano come conigli. Non sono pronti. Non sono abituati. E se facessero la scelta sbagliata? O se qualcuno si scagliasse loro contro perché non hanno puntato il dito sull'uomo giusto? No. Voti fasulli per decisioni fasulle. Da' loro la democrazia, Connor, ma saranno quelli come me a scegliere. – Dalla bocca mi uscì uno strano miscuglio tra una risata e un singhiozzo.
Sempre se sopravvivo.
– Ma sei cretino?
Sollevai lo sguardo di colpo, con un paio di ampi passi indietro. Avevo il placido muso di un cavallo bruno a una spalla dal viso, il cuore che batteva agitato sotto le costole. – Di‘ un po', amico, tu guardi dove vai?
Con una mano sul petto presi due ampi e rumorosi respiri, troppo spaventato per dire qualsiasi altra cosa, come che avrebbero dovuto vedermi anche loro o che, perdio!, dove diavolo erano finite le buone maniere? – Scusa – riuscii a grugnire dopo un silenzioso e interminabile istante.
L'altro rispose con una specie di gemito scocciato mentre facevo mente locale. Il cavallo contro cui ero quasi andato a sbattere era legato a una diligenza, una lunga carrozza da trasporto, e al posto del cocchiere era seduto un trentenne dalla pelle scura, intento a masticare del tabacco con gli occhi luminosi puntati su di me come due astri. Di quelli che per i superstiziosi portano sfortuna. – Allora, ti levi dalla strada o devo passarti sopra?
Sorrideva, ma non sapevo quanto fosse lecito fidarsi di quel tipo. Probabilmente per lui ero solo uno straccione che gli era piombato davanti, e prima mi sarei levato, prima lui sarebbe arrivato a destinazione.
Oh. Destinazione.
Che razza di idiota. – Signor Freeman, perché ci siamo fermati? – Ammetto che trasalii di nuovo quando scorsi il capo coperto dalla cuffietta di una signora sportasi dal finestrino per chiedere informazioni al cocchiere. – Mi pare di essere stata chiara con voi! Ho un matrimonio martedì, è urgente!
Freeman roteò gli occhi, tastandosi i gingilli. La donna aveva un tono così acuto da farmi male alle orecchie, pareva un maiale sgozzato.
Non avrei mai voluto ricevere gli auguri di matrimonio da lei. I miei poveri timpani non avrebbero retto, e avevano subito l'esperienza di più di un decennio ascoltando Connor. Non era cosa da poco. – Lo so, signora Fitzgerald – gridò il cocchiere prima di farsi scrocchiare il collo da una parte e dall'altra. – Sentito, amico? Credo tu debba toglierti. Mi stai proprio in mezzo ai piedi.
– Aspetta – riuscii a sussurrare. Quella diligenza era la mia unica speranza di tornare a casa velocemente, in fondo.
Casa. Un posto dove dormire senza pagare, diciamo. – Dove stai andando?
Sputò il tabacco masticato a terra, in un grumo marrone e informe. – Se mi lasciassi ripartire, io dovrei arrivare a New York.
Mi sentii mancare. New York. Perfetto, diavolo! – C'è posto per un altro passeggero? – chiesi, il cuore illuminato dalla speranza. Forse, per una volta, Dio era dalla mia parte. Sì. La Prima Civilizzazione mi aveva mandato a sbattere contro Freeman e la sua corriera per un qualche motivo.
– Spiacente, sono già stipati come sardine.
Ecco. Cos'è che stavo dicendo? 'Fanculo. – Andiamo, ho bisogno di arrivare a New York. Posso darti un sacco di soldi. – Soppesai la scarsella nel palmo. Non erano esattamente  un sacco di soldi, ma pregavo che se li facesse bastare. – E sono armato.
– Che c'è, è una minaccia?
– No, ma a New York ci stanno andando anche le giubbe rosse. Posso proteggerti – dissi tra i denti. Mi sembrava di essere in ginocchio ai suoi piedi, mentre lo osservavo attraverso i due cavalli che trainavano la diligenza. – Non ti sembra un'offerta generosa?
Lui schioccò la lingua. – Sì, così i miei clienti se la fanno addosso e chiedono un passaggio ad altri. Se vuoi arrivare a New York devi scordarti quest'aria impertinente, capito, Sua Maestà? – Feci un sorrisino tra me e me. L'accento della madrepatria era duro a morire, diavolo. – Quanto grano hai?
Aprii la scarsella con occhio critico. Uff. – Duecentodieci sterline – confessai, sperando che non fosse un avvoltoio. Quelli erano i miei ultimi soldi. Mi serviva una banca, o qualcuno da derubare.
Schioccò la lingua. – Sgancia settantacinque e per me sei a posto – esclamò, battendo il palmo aperto sulla parte libera del sedile, accanto a sé. – Non ti dispiace, giusto?
Gli porsi il denaro e salii, afferrando la mano scura e callosa che mi porgeva per accomodarmi più facilmente sulla seduta. – D'accordo. Allora si parte. – Sentii un mormorio d'assenso provenire dall'interno della corriera. Non credevo che, di quei tempi, qualcuno avrebbe sperperato tanto denaro per arrivare in una zona di guerra così critica. Era folle.
O da comari che vogliono a ogni costo assistere a un maledetto matrimonio. – Come ti chiami, amico? – chiese Freeman con un sorriso cordiale.
– Haytham Kenway. – Pregai che non mi avesse mai sentito nominare, perché non avevo più la forza di inventarmi un'identità nuova. – Tu?
Allungò una mano. – Dandy Freeman. Piacere. – La sua stretta era rapida e forte, come una martellata. Se fosse durata un po' di più, quel Freeman mi avrebbe spezzato tutte le dita. – Cioè, non mi chiamo veramente Freeman. E nemmeno Dandy, ma suona meglio del nome che avevo prima di arrivare qui.
Sogghignai, ricordando i vecchi tempi in cui non riuscivo a pronunciare il nome di Tiio. – Sei uno schiavo?
– Lo ero, amico. Lavoravo in una piantagione. Tutto il giorno a raccogliere e tagliare tabacco. Poi il mio vecchio acquirente è schiattato e i figli hanno cominciato a litigare come puttanelle per dividersi noi e la proprietà. Tre piccoli bastardi. – Sorrise. I denti scuriti dal tabacco erano quasi invisibili alla luce fioca della Frontiera, nonostante non fosse neanche mezzogiorno. – Solo Iddio sa quanto sono stato fortunato. Il figlio di mezzo era contrario alla schiavitù, e quando gli sono arrivati venti negri dalla piantagione del padre se n'è sposata una e ha dato l'appellativo di uomini liberi a tutti quanti. – Schioccò la lingua. – Ed eccomi qui. Vivo e vegeto.
In quel momento non feci molto caso a lui, preoccupato e nervoso com'ero. Dovevo pensare alla salvezza di Charles e della Mela, al mio disperato desiderio di ammazzare Washington. Ero confuso. Una parte di me gridava di ignorare quelle cose. L'altra di agire. E Dio benedica che non avevo ancora deciso di buttarmi da un maledetto terrazzo alto abbastanza da farmi fuori.
Eppure, davvero, avrei dovuto fare più attenzione a Dandy Freeman. Sembrava felice, gioviale, molto più aperto e sorridente di qualunque altra persona vedessi da un po'. Era stato uno schiavo, e nonostante ciò era entusiasta e soddisfatto della propria vita.
Lo ammetto, mi irritava. – D'accordo. – Freeman scrollò le redini, e i cavalli sotto di noi cominciarono a muoversi, accompagnati dai mormorii di assenso dei passeggeri stipati sulla diligenza.
Di lì a qualche ora sarebbe calata la notte. Mi passai una mano sulla faccia pensando che non era stata esattamente la mossa più furba del secolo. Mi ero avventurato nella Frontiera di notte, su una corriera, con la certezza quasi matematica che avrei incontrato delle giubbe rosse lungo la strada e senza neanche un piano di riserva.
Già, quello era il futuro Gran Maestro dell'Ordine. Che fortuna, eh? Gli Assassini avevano quel vigliacco fuori di testa di Achille, i patrioti stavano con Washington, i Figli della Libertà con Paul Revere, il giocherellone. Una pessima annata per le figure a capo delle varie associazioni. – Dunque. – La voce di Dandy mi riscosse da quei patetici pensieri sulla gerarchia del mio tempo. – Che cosa ti porta a New York? Una donna? – Fece un grosso sorriso nella penombra, allungandosi oltre la mia testa per accendere l'unica ciondolante lanterna della diligenza. Intorno a lui, oltre all'odore acre di chi non si lava da un po', c'era il sentore del fuoco. Una puzza che avevo imparato a odiare dopo mio padre. Dopo Tiio, dopo le infanganti accuse di Connor.
E dopo Alice. – Deve esserci una donna. L'unico motivo per cui mi butterei in un viaggio simile sarebbe una bella fregna ad aspettarmi appena poggio i piedi a terra. – Fece un sorriso sconsolato, come se andasse avanti masturbandosi da tutta la vita. – Oltre al denaro, naturalmente. Oggi mi farò un bel gruzzoletto, amico.
Mi strinsi nel cappotto con un grugnito d'assenso. Odiavo il clima della Frontiera. Caldo e pieno di zanzare di giorno, freddo come la morte appena calava il sole. Forse l'inverno mieteva più vittime, ma l'estate era irritante. Parecchio irritante. – Immagino – sussurrai alla fine, con una punta di invidia. Quando fossi sceso da quella carrozza, se le giubbe rosse non ci avessero fatti saltare tutti in aria prima, avrei avuto in tasca poco più di cento sterline. Avevo bisogno di una banca. O di un bordello particolarmente economico.
Sogghignai tra me, sollevando lo sguardo al cielo stellato. – E poi New York non è il massimo in quanto a figa – Dandy scrollò il capo e agitò le redini con enfasi. – Vai in Virginia, da dove vengo io. Ce n'è di tutte le età e le razze, e sono tutte disponibili. Quando non lo sono basta aumentare l'offerta. – Alla lugubre luce della lanterna le sue labbra carnose si aprirono in un sorriso. – Adesso... – Si volse verso la sua clientela e abbassò un po' la voce. – Adesso se la fanno tutte seccare perché hanno paura. Paura qui, paura lì, cazzate. Si comportano come se nulla ci fosse dovuto. Ieri sera sono sceso per una pisciata, e ho beccato uno che cercava di infilare le dita sotto la gonna della moglie. Quella è scoppiata a piangere e ha svegliato mezza diligenza. Perché? – Dandy fece ripartire i cavalli, la lingua che schioccava tra i denti. – Perché chissà cosa sarebbe successo se in quel momento fossero arrivati i soldati – scimmiottò il tono di una di quelle comari bostoniane che tanto mi stavano simpatiche, e non riuscii a trattenere un sorriso. – Dammi retta. Qua più si sale e meno sono disposte a concedersi.
Mi strinsi nelle spalle, appoggiato di traverso allo schienale. – La loro paura è giustificata – replicai senza un tono particolare. Iniziavo a sentire le palpebre pesanti. Avevo avuto una giornata difficile. – Tu non ne hai, di questi tempi?
Mi scoccò un'occhiata in tralice. – Ho i miei sistemi per evitarla, Sua Maestà. E poi, dimmi, quante altre corriere hai visto di recente? Nessuna. Non c'è la minima concorrenza, mi capisci? Si cagano tutti addosso. – Si batté una mano sul petto, fiero di sé. – Se vuoi arrivare da Philadelphia a Boston paghi un negro o non ci vai proprio, semplice.
Feci spallucce. Il suo ragionamento non faceva una piega. Non mi sembrava che ci fossero molte carrozze pronte a mettersi in viaggio. Bisognava essere molto spavaldi, oppure disperati. Chi poteva cavarsela con i soldi che aveva se ne sarebbe rimasto a casa, con la propria famiglia, senza rischiare.
La mia famiglia. Avevo abbandonato mio figlio al suo villaggio e Thomas Hickey a Philadelphia. Non volevo che mi vedessero in quello stato. Quando mio padre morì io ce l'avevo proprio sotto il naso, e chissà come doveva essersi sentito. Me l'ero chiesto spesso.
Quanto diavolo può essere triste lasciare a tuo figlio, come ultimo ricordo, il tuo respiro affannoso, i colpi di tosse, la camicia che si tinge di vermiglio e le parole biascicate per tutto quel sangue in bocca?
Io lo sapevo. Era parecchio triste, al punto da fare ancora male dopo quarant'anni, più male che mai. La mia nuova famiglia non doveva essere lì mentre cadevo a pezzi, mentre lentamente mi lasciavo smontare dai ricordi. – E se... – Mi schiarii la voce. – Alcuni non intraprendono il viaggio armati? Se sanno difendersi da soli non dovrebbero esserci problemi.
Era quello che facevo io da tutta la vita, attraverso due guerre, due continenti. Reginald mi diceva che per comprendere il mondo – forse intendeva "governare", ma usava proprio quel verbo, comprendere – bisogna avere tre cose. La verità, la ragione e un'arma. Era uno dei passi del suo modo di pensare che avevo sempre cercato di seguire. Poi era arrivata la Prima Civilizzazione, e prima ancora William Johnson, con cui la mia ragionevolezza era andata alle ortiche. – Questa gente? – Dandy indicò i suoi passeggeri con il pollice. – Li hai visti? Per favore. Sono riccastri in rovina, gente che pensava di cavarsela col sangue e con i diritti. Se queste supponenti facce di merda fanno girare i cosiddetti a un'aragosta, quelli ti sparano senza pensarci due volte. Non ti guardano neanche in faccia. Moschetto puntato e bum!, sei già all'altro mondo.
Lo ammetto, tutte le chiacchiere di Dandy mentre cercavo solo di chiudere gli occhi e riposare un po' mi stavano innervosendo. Aprii solo un occhio, cercando di non degnarlo di particolare attenzione. – E nel remoto caso che glieli facessi girare tu? – Chiacchierone del cazzo. Presi fiato. Tutte le mie energie erano concentrate sul sembrare calmo, solo per un minuto.
Dandy sollevò un sopracciglio, quasi offeso. – Mi hai preso per cretino? – Schioccò la lingua con disapprovazione, gli occhi fissi davanti a sé. – Li pago. – Uh. Questo spiegava un po' di cose, oh, sì. – Una parte del guadagno per farmi passare. E comunque alle giubbe rosse le corriere fanno comodo. Gli eserciti vogliono mettere paura, ma non al punto da fermare tutto il traffico di merci e gente che s'incrocia in questa fogna. Se anche i patrioti vincessero la guerra, senza un'economia attiva possiamo anche impiccarci con le nostre mani. – Corretto, tutto sommato.
Non giusto, ma vero. Perché Connor pensava che le due cose dovessero coincidere? Non era così, e non lo sarebbe mai stato. Si trattava soltanto di esserne consapevoli. Capirlo. Scrollai il capo. – Dovresti esserci tu al posto di Washington. – Saresti molto più adatto di lui, amico. Molto più di Connor, senza dubbio alcuno.
Dandy ridacchiò, gli occhi sulla pelle indurita delle sue mani. – Non mi metterei alla guida di quel macello nemmeno se fossi George in persona. – Mi scoccò uno sguardo rassegnato, la testa infossata tra le spalle. – Tu scherzi, amico, ma io al posto suo avrei rinunciato senza pensarci due volte. È un incarico per gente con le palle, e una volta che hai preso quella strada puoi uscirne solo quando il nemico ti cattura, te le stacca e ti lascia andare per pietà. – Inclinò la testa da una parte in cenno d'assenso. Era stato chiaro, direi. Al punto da lasciarmi basito, la bocca mezza aperta dallo stupore e una sequela di paralizzanti brividi lungo la schiena. Allora c'erano davvero delle persone col cervello, nelle Colonie. Persone vere, che sapevano come sarebbe finita tutta quella storia.
Centinaia, migliaia di vite annegate nel sangue. Nient'altro. – Peccato che abbia la pelle del colore sbagliato – aggiunse con un sorriso. – E poi non m'impiccio nella politica. Sono troppo ignorante per quella roba.
Sollevai l'angolo delle labbra in un sorriso amaro. La luce del sole sparì dietro le folte chiome degli alberi, e l'unico suono rimase quello delle ruote che cigolavano sullo sterrato, più forte addirittura del quieto vociare dei riccastri che Dandy scarrozzava per la Frontiera. – Troppo attaccato alla vita, forse – gli dissi nel mio tono più sincero, stretto nel cappotto come il vecchio nostalgico che stavo effettivamente diventando. Non rimpiangevo i tempi andati, perché quali erano veramente? Nulla cambiava. La struttura delle cose sarebbe rimasta la stessa, destinata a ripetersi per l'eternità. Era quello a scocciarmi. La banalità del mondo e del suo modo di pensare. Un rivoluzionario è solo l'ennesimo idiota bramoso di potere che propone una soluzione vecchia di secoli, volta solo ai propri interessi, quando tutti l'hanno già dimenticata. E come i suoi predecessori, come tutti quanti, era destinato a fallire.
Perché? Perché quelle trafile, quando sarebbe bastato consegnare il mondo a un'autorità solida che avrebbe potuto fermare imbecilli del genere prima che agissero con poche e ferme parole?
Era così semplice. "Morirai provandoci. E quand'anche tu ci riuscissi, troverebbero qualcos'altro di cui lamentarsi. Per cui farti fuori e riciclarti come un vecchio giocattolo."
Non era supponenza, quella dell'Ordine. Era coraggio, laddove chi capiva preferiva restare nell'ombra per continuare a vivere. Era comprensione, laddove molti altri preferivano tapparsi gli occhi e vivere una favola che semplicemente non esisteva e non sarebbe mai esistita.
Tutto qua. – Non prendertela, non è un'offesa. – Anzi. Quelli come Dandy erano la base dei Templari. Quelli che saremmo stati senza l'Ordine. Quello che io sarei stato senza mio padre, senza Reginald.
Un topo di fogna, con le idee giuste ma senza le palle. Con una vita più facile.
Già.
Presi un gran sospiro. Sentivo gli occhi bruciare, dunque abbassai lo sguardo, trovando improvvisamente le mie ginocchia molto più interessanti del ripetitivo panorama coloniale. – Lo so. – Dandy schioccò la lingua. – Finché sono vivo e libero, a me sta bene così. L'onore è inutile se non hai una vita in cui dimostrarlo. E quando muori nel fango di un fronte, uno qualsiasi, il tuo onore è già andato a puttane da un pezzo. S'è fatto furbo. È dove dovresti essere tu, amico.
Sorrisi tra me, pensando che Thomas avrebbe subito preso in simpatia un uomo come quello, già solo perché preferiva una buona scopata alla guerra. Annuii senza un'altra parola. Per quanto belle potessero essere le sue parole e nonostante mi rispecchiassi davvero nella sua visione, il tempo in cui trovavo divertente discutere di quelle cose era finito.
Avevo assistito al tramonto di quell'era mentre tiravo un pugno sul naso di Washington. Mentre mi tiravo ufficialmente fuori dalla guerra e lasciavo fosse Connor a preoccuparsene. Non c'era scopo nell'impegnarsi in qualcosa che non mi interessava. George era un bastardo troppo grosso per morire in quel modo. Reclinai la schiena contro il sedile, il cappello calato sugli occhi e il respiro calmo, controllato. Ora non parlare più, Freeman. Per favore.
Sapevo perfettamente come sarebbe dovuto morire.
Immobile di fronte a me, circondato dall'aura luminosa della Mela dell'Eden, mentre il peccato e la tentazione, strette tra le mie mani, chiuse in quella sfera di metallo divino, dirottavano lui e tutti i suoi uomini verso la follia. Mi cullava il pensiero che se ne sarebbe andato così, mentre i suoi seguaci si ammazzavano a vicenda. Con lo sguardo fisso nel mio, colmo di terrore.
Prima che il cranio gli scoppiasse per la pallottola che un sottoposto gli avrebbe piantato nella tempia.
Prima che l'Ordine e la nostra verità, il nostro potere, e con esso tutto ciò che aveva cercato di portarci via lo soffocassero a morte.
Di lui mi sarei occupato dopo, senza dubbio. Quando fossimo stati di nuovo uniti e potenti.
Fino ad allora – fino alla mia vendetta – l'avrei lasciato fare come preferiva. E non v'era alcuna pietà in tutto ciò.
Solo rabbia. Quella che, da un po' di tempo, inevitabilmente mi colmava il petto. Mi ero abituato alla sua presenza. Ne avevo fatto un alleato, almeno nella mia testa.
La vendetta funziona così, no? Riversi tutto il male su chi te l'ha fatto e preghi che le dicerie restino tali. Preghi di esserne felice, soddisfatto. Ripagato.
Chiusi gli occhi. Sapevo già che sarebbe andata così. La ricompensa perfetta era riavere Charles. Rimettere in piedi l'Ordine.
Una nuova alba. Feci un sorrisetto.
Dovevo soltanto avere fede, credo.
 
Tutto quel cazzo di filosofare mi aveva reso veramente stupido. Davvero mi aspettavo di riuscire a dormire lì, seduto sullo scomodissimo sedile in legno di una diligenza? Certo. Chissà che gran pisolino mi sarei fatto, eh?
Il terreno era così dissestato che ogni passo del cavallo rischiava di farmi saltare due o tre denti. La carrozza sobbalzava di qua e di là come se avesse vita propria, e i commenti acuti e indignati dei passeggeri mi risvegliavano ogni qual volta che, miracolosamente, riuscivo a passare la soglia del dormiveglia. Il problema era svegliarsi senza farlo capire a Dandy.
Le sue chiacchiere del giorno prima mi avevano fatto venire il mal di testa. Tutto quel tempo a cianciare quando avrei solo voluto pensare a Charles e ai rischi che correvamo poteva essere anche una bella distrazione, ma io non ero lì per quello. Non potevo distrarmi, perché se Charles fosse morto la mia missione sarebbe stata inutile. Anche senza Connor, o Tom. Avevo impiegato anni per rimettere insieme quel nucleo. Se Washington l'avesse mandato a gambe all'aria non sarei mai riuscito a perdonarmelo.
Né a me, né a lui. – Possiamo fermarci un minuto? – trillò la voce acuta di una passeggera dall'interno della diligenza. – Mio marito dovrebbe... – Non proseguì. La frase sfociò in una risatina convulsa, come se guardare il marito con le gambe – o le chiappe – strette fosse la cosa più divertente del mondo.
Dandy sbuffò. – Non c'è problema. Sgranchitevi le gambe, se ne sentite il bisogno. – Il cocchiere mi diede uno scrollone che quasi mi buttò giù dal sedile, sulla terra fredda e bagnata della notte. Non avevo dormito un solo istante. Mi sentivo peggio di prima. Peggio di quando avevo picchiato Washington e gli avevo gridato in faccia la verità, le lacrime agli occhi.
Che cosa mi era saltato in testa? Tornare a casa e lasciare che fosse Connor a risolvere tutto? Non avrei dovuto avere tanta fiducia nelle sue capacità.
Sarei potuto restare a Philadelphia con Thomas, ma non sapevo dove fosse di preciso. Immagino che dopo un paio di giorni avrebbe intuito che me n'ero andato e si sarebbe messo in viaggio.
La verità era che volevo pensare un po' al futuro, a quella nuvola scura che si stava abbassando sopra di noi ed era pronta a schiacciarci a un qualsiasi passo falso. Ne ero terrorizzato. E parlarne con chi non ha paura può essere irritante. Inutile. – Amico, se volete pisciare...
Aprii appena gli occhi e feci cenno di no. Non mi sarei mosso dal confortevole posto sul sedile, che avevo scaldato tutto il giorno e tutta la notte, per niente al mondo. – Dandy – sussurrai, le labbra appiccicate tra loro e la lingua secca per il tempo passato senza bere. – Passeresti per Davenport? – Stropicciai gli occhi con i pugni, come un bambino, mentre il suono del piscio sulle prime foglie secche a terra mi riempiva le orecchie. – Ti pagherò bene – aggiunsi.
Freeman mi mollò un colpo sull'altra spalla e sobbalzai, trovandolo dalla mia parte della carrozza. –  È di strada. Non c'è problema. – Stringeva un grosso sigaro tra le labbra, e il fumo mi fece venire l'acquolina in bocca. Diavolo. – Ti va di darmi il cambio? Ho la schiena a pezzi – brontolò mentre gettava il mozzicone ai suoi piedi e lo schiacciava vigorosamente. – E poi due terzi dei miei clienti sono lealisti. Gli farà piacere avere un inglese che li porta in giro.
Sogghignai. – Oppure diranno che è un lavoro umiliante e dovresti farlo tu. – Fortunatamente non se la prese. Dandy non era quel tipo di persona.
Non era Connor. – Ah, non è male come sembra. A parte la schiena, ovvio. – Fece spallucce, ridacchiando. – A volte incontri persone interessanti.
Incrociai le braccia sul petto, infreddolito. Se di giorno si rischiava di svenire e le zanzare non conferivano un solo minuto di tregua, la notte la temperatura scendeva di parecchio, lasciandoti a battere i denti in pieno giugno come un idiota. – A volte le lasci andare per intraprendere questi stupidi viaggi – grugnii. Non avevo neanche provato a limitare il mio tono indisponente.
Dandy fece un sorrisetto scaltro. – Allora una donna c’è davvero! – chinò il capo da una parte, felice di avere una storia da ascoltare.
Peccato che non fosse come voleva lui. – I miei... figli. E un fratello. – Sì, Tom Hickey non poteva essere definito in altro modo. – Lì ho lasciati  a Philadelphia, dove rischiano soltanto di scannarsi tra loro.
– Be', avete fatto bene – disse dopo aver schioccato la lingua. – Prima o poi la prole deve responsabilizzarsi. 
Presi fiato e mi misi al suo posto, privo di qualsivoglia calore corporeo. – Non è per quello che me ne sono andato. – Feci spallucce, i miei occhi nei suoi. Mi sentivo in dovere di essere sincero, per una volta. Un uomo che non conoscevo mi stava aiutando in tempo di guerra, sotto pagamento, così simile e così diverso da me da spaventarmi. Sarebbe stato un buon amico.
Ai miei vecchi fratelli avevo mentito su Tiio, gliel'avevo nascosta, sperando che ci sarebbe stato tempo per aggiustare tutto, ogni cosa sistemata per bene. Mi sbagliavo. Mi ero dimenticato di mio padre. Non ricordavo più quanto potesse essere imprevedibile la morte, da quali remoti angoli potesse sgattaiolare via per piombarti addosso. Poteva essere dentro i tuoi amici, dentro un estraneo.
Persino dentro di noi. – Io... Non volevo vedere il massacro – sussurrai con i denti stretti.
Dandy annuì. – Capito. È comprensibile. – Si pulì le mani sul davanti della giacca e saltò al mio posto. Avevo come l'impressione che fosse troppo assonnato per ascoltarmi. – Sono i rischi del mestiere di padre.
Sbuffai. Quello non era mai stato il mio forte. – Hai figli?
– Li avevo – disse calandosi il cappello più a fondo sulla testa. – Peccato che siano morti. Ammazzati tutti da questa merda. Non voglio averci niente a che fare. Non più. Me ne fotto di chi vince. – Accavallò le gambe, tese verso l'asse che univa la carrozza e i cavalli. – Io voglio solo che la smettano. Tutti quanti. O non rimarrà nient'altro che un mucchio di vecchi lagnosi, mentre tutti i giovani con un briciolo di iniziativa se ne saranno già andati al Creatore.
Inclinai il capo da una parte. – Parole sante. – Con un chiocciare fastidioso le poche persone che avevano messo piede giù dalla diligenza rientrarono. Non avevano mai sonno? Cristo santo. – Fatti una dormita.
– Vuoi pensare ai tuoi figli in pace?
Trasalii. Che il diavolo mi porti. – No. Lo dicevo per te.
'Fanculo.
Dandy fece un cenno di assenso con il capo e si accoccolò contro lo schienale, un sorriso scaltro dipinto in viso. Come se mi capisse.
Sembrava che chiunque ci riuscisse troppo facilmente, in quel periodo. Perché? L'unica persona da cui volevo essere capito era Charles Lee, il ragazzo che, da sempre, aveva mostrato di non dubitare delle mie capacità. Sorrisi, facendo schioccare le briglie nel silenzio della notte. Avrei potuto ordinargli di saltare giù dalla Christ Church, all'epoca, e lui l'avrebbe fatto. Altroché. Senza un attimo di esitazione.
La sua mancanza era così pesante da far male, sapete? La paura che morisse, o peggio, che riuscisse a strappare la Mela ai nativi e la portasse da Reginald mi attanagliava la bocca dello stomaco. Perché?, avrei voluto urlargli. Perché non ti ribelli a quello che sta facendo?
Ero un ipocrita. Io per primo, da ragazzo, non avevo fatto niente. Non avevo nessun altro. Non era una questione di scelta. O stavo con lui, o andavo a mendicare nei vicoli di Londra, dove il rischio di essere violato si triplicava.
Magari Charles aveva paura. Come l'avrebbe presa l'Ordine – o quel che ne restava – quando se lo sarebbe trovato davanti? Temeva che non gli concedessimo il perdono.
Come poteva... Come faceva a pensare che io non gli avrei dato il permesso di rientrare? Pensava che la mia furia vendicativa contro Reginald si sarebbe consumata su di lui solo perché per molti anni era stato dalla sua parte? E io? Che cos'avrei dovuto dire?
Dunque era così che mi vedeva? Come un mostro assetato di sangue, cieco davanti alla vendetta?
O forse era Reginald a parlargli di me in questi termini. E lui ci credeva. Potevo capirlo. In quel frangente credi a chiunque, a qualsiasi cosa. Quando ti scombussolano così l'unico modo per risalire è trovare un punto fisso. Qualcosa cui aggrapparsi, anche se non è la verità.
E stringere con tutte le tue forze.
Charles Lee non era un bambino. Non era neanche un idiota. Chissà, forse se Reginald non avesse deciso per lui avrebbe avuto una moglie, dei figli. Una vita facile. Quella che volevo anche io.
Scrollai il capo. Il sentiero continuava a scorrere davanti a me, immutabile come il tempo. C'era quiete, nella Frontiera, e non la sopportavo. Il frinire degli insetti, tutti quei cinguettii diversi di adorabili uccellini, le centinaia di alberi tra cui nascondersi. Era il terreno perfetto per qualsiasi brigante, quel buco.
Sospirai, spronando i cavalli a fare più in fretta. Quando si sceglie una causa bisogna esserne convinti. La mia era mutata. L'Ordine non era passato in secondo piano, ma doveva essere come dicevo io. Incredibile. C'era una guerra civile all'interno degli stessi Templari, come pensavamo di vincere quella fuori dal nostro contesto?
Charles avrebbe saputo cosa fare. Era sempre stato un ragazzo attento, fin dalla prima volta che lo vidi. Un po' spaccone, senza dubbio, ma sapeva come comportarsi.
Iniziavo a pensare che lui non volesse i Templari. Dentro di lui non c'era sete di potere o uno sfrenato desiderio della pace. Quello è venuto dopo, probabilmente. All'inizio, l'unica cosa che avevo visto buttando i piedi giù da quella nave era stata una persona fragile, probabilmente sola, con un sogno.
Mio padre era la prova vivente del fatto che quando hai un sogno più grande di te devi farti aiutare a sostenerlo, altrimenti la volta ti crolla addosso.
Charles si era fatto schiacciare da Reginald pensando di essere nel giusto. Proprio come me. E il suo sogno si era eclissato dietro quello del Gran Maestro.
Mi premetti una mano sulla bocca per trattenere un singhiozzo. La vita era una schifezza, fatta di ingiustizie e di cadaveri che marciscono lungo la strada.
Le canalette di scolo per me erano già intasate, ma avrei trovato un buco per il corpo di quel figlio di puttana. Charles mi avrebbe aiutato, insieme a Tom. Saremmo tornati più forti. Avremmo vinto.
Una volta qualcuno, forse lo stesso Charles Lee, mi disse che non gli mancavano i suoi genitori. La mancanza, la nostalgia è ciò che provi nei confronti di qualcosa che avevi e ora non puoi più avere come prima. A lui non mancavano John e Isabella Lee perché per loro non era mai esistito davvero. – Io non ero una persona, Mastro Kenway – mi aveva detto quella volta. Sì, era proprio lui. – Ero un soldato, un uomo d'armi fatto e finito da quando nacqui. Mi facevano provare le vecchie uniformi di mio padre e camminavo avanti e indietro per ore. Quando mi sono arruolato... Passatemi il termine, non gliene fregava niente del fatto che sarei potuto morire. Ero solo la loro piccola giubba rossa.
– I genitori vogliono il meglio per noi – avevo replicato. Quella volta il pensiero andò immediatamente a Reginald. Il padre che mi aveva mostrato la retta via, laddove con mia madre sarei stato solo una balia.
Charles aveva sputato a terra. – Vogliono per noi ciò che loro non sono riusciti a ottenere. Non siamo che un riflesso.
All'epoca probabilmente avevo ridacchiato davanti alla sua presa di posizione così radicale. – E quando lo specchio s'incrina? – avevo replicato.
– È il momento di essere liberi, forse. – Mi aveva scoccato una strana occhiata. Pensava che potessi liberarlo, forse. Che fosse un mio dovere. – Non lo desiderate mai?
Avevo scrollato le spalle. – La mia libertà è l'Ordine.
– Non durerà per sempre – aveva replicato. – Nulla lo fa.
– Lo so. Nemmeno le idee. Prima o poi ti raggiungeranno nella tomba.
Per quanto tempo ero stato il riflesso di Reginald? Vent'anni? Quaranta? E la mia immagine non si era incrinata? Non era forse quello il momento migliore per essere liberi ed esserlo tutti, esserlo insieme?
La libertà degli americani poteva anche andare a farsi benedire.
Mi ero accorto, dopo cinquant'anni di vita, che non volevo essere al vertice di un'istituzione, di uno Stato. Non era il mio ruolo.
Volevo solo essere al vertice di  me stesso, a fare di testa mia senza che nessuno mi desse ordini.
Niente Reginald. Niente Thomas, niente Giunone Minerva Giove. Niente Connor.
Solo io. Col sogno di muovermi senza chiedermi perché lo stessi facendo. Avevo buttato la mia vita dietro uno scopo, quando non ne avevo mai avuto davvero bisogno.
Dovetti fermare i cavalli, in lacrime, le mani sugli occhi e sulla bocca per non lasciar passare i singhiozzi e non svegliare Dandy. Per non farmi vedere in quello stato.
Il mio unico fine, senza Reginald, sarei stato io.
Libero.
Come un Assassino.
Nel silenzio della notte, solo nella Frontiera, solo in mezzo a tutte quelle persone placidamente addormentate, scoppiai in una risatina isterica e folle, una sequela di singulti e squittii che non riuscivo più a fermare.
Un Assassino. 
  
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