── Per
il bene della Scienza ──
“Un male necessario”
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“L'uomo ha scoperto la bomba atomica,
però nessun topo al mondo
costruirebbe una trappola per topi.”
Albert Einstein
2. Risveglio
Novembre 2013
Sento della musica. Ho come l’impressione che
non l’abbiano mai spenta da quando mi sono addormentato. E questa puzza,
quest’odore pungente di disinfettante e candeggina, mi sta dando il
voltastomaco – no, forse la nausea è dovuta ad altro. Sento il corpo intorpidito
e la testa mi duole come se il cuore mi pulsasse dentro la scatola cranica.
Tum-tum, tum-tum…
Apro gli occhi. Mi bruciano. Cerco di
avvicinare una mano al viso per stropicciarli ma fatico a muovermi, talmente
tanto che a stento riesco a voltare il capo per guardami intorno. Distinguo a
stento i contorni dei mobili, ma non ci sono dubbi, sono in un ospedale. Cosa
ci faccio qui?
Un macchinario grigio alla mia sinistra
segna i battiti cardiaci; tossisco più volte e cerco di liberarmi della
maschera d’ossigeno. In questo stesso istante scatta un allarme, diffondendo
nella stanza uno stridio che mi costringe a tapparmi le orecchie. La testa!, la
mia povera testa, che dolore!
Vorrei girarmi sul fianco, ma sento le
giunture dolermi. Il mio corpo è pesantissimo, non riesco a muovermi, eppure –
mi guardo da sopra il lenzuolo bianco – sembro così piccolo e mingherlino.
Sento gli occhi inumidirsi di lacrime e prima che possa asciugarle qualcuno
apre la porta. Un individuo di sesso ambiguo, dai capelli corvini e i grandi
occhi grigi, rimane ad osservandomi sulla soglia con espressione allibita.
Sembra una statua greca, una di quelle che rappresentano giovani dèi, o eroi,
con le fattezze morbide e le membra acerbe tipiche degli adolescenti. È come se
non fosse mai cresciuto e avesse mantenuto il volto efebo che caratterizza i
ragazzi. Si capisce che ha una trentina d’anni, ma la sua pelle liscia dice il
contrario. Sembra un diciottenne e quel camice bianco lo fa sembrare ancora più
longilineo. Vedo le sue labbra muoversi ma non sento ciò che dice; oltre
questo, nessuna reazione, rimane lì, a guardarmi con un’espressione tra
l’impaurito e il sorpreso. Mi domando se il mio volto abbia qualcosa che non va
e cerco di tastarmi la pelle alla ricerca di sangue o chissà cos’altro. Sono
così stanco e dolorante che non riesco a capire se ho veramente alzato la mano
per toccarmi il viso o se lo sto solo immaginando. È come se fossi in trance,
un limbo tra sogno e realtà. Ecco, forse sto solo sognando.
«Syans?!» esclama
il medico, avvicinandosi frettolosamente al lettino ospedaliero. «Syans, mi senti?»
Syans? Sta
parlando con me?
Nel dubbio, annuisco lentamente…
o almeno credo di averlo fatto. Ho una concezione confusa dei miei movimenti,
come se mente e corpo non fossero sintonizzati correttamente.
Poco dopo arrivano altri due uomini in
camice: un orientale molto basso, dagli occhi assurdamente chiari, e un
occidentale alto e longilineo, dai capelli lunghi color mogano.
Statua Greca viene messo da parte,
allontanato dagli altri due medici che si avvicinano al mio letto con aria
entusiasta e sorpresa al contempo, guardandomi come se fossi…
un mostro o forse un dio sceso in terra.
«Dobbiamo fargli il test» ordina
l’orientale; il dottore dai capelli lunghi annuisce. «Vikutoru-san*,» riprende,
autoritario «porta la barella. Sbrigati.»
Capelli Lunghi sorride, ha quasi le lacrime
agli occhi. “Syans, oh, Syans!”
continua a sussurrare con voce rotta dall’emozione.
«Presto, Ishii-san**, aiutami a metterlo
sulla barella» ordina ancora l’orientale, che sembra avere in mano la
situazione. Dev’essere il primario del reparto,
penso.
«Dobbiamo anestetizzarlo» propone
l’occidentale.
«Potrebbe essere un rischio, non abbiamo la
certezza che si risvegli. Potrebbe non sopravvivere alla notte. Potrebbe non
sopravvivere alle prossime due ore.»
Cosa? Di cosa state…
Cosa mi sta succedendo?!
L’orientale e Capelli Lunghi mi portano
fuori dalla stanza, mentre Statua Greca mi guarda con compassione attraverso il
vetro. Mi fa “ciao ciao” con la mano, poi sparisco nel corridoio.
***
Vedeva sfocato, i contorni irregolari e i dettagli che slittavano via
dalla sua portata. Sentiva il rumore delle ruote delle barella e il
chiacchiericcio dei due medici: non riusciva a percepire le parole, ma
distingueva chiaramente il tono preoccupato di uno e quello emozionato
dell’altro.
Il corridoio sembrava
interminabile, un infinito susseguirsi di porte a vetro tutte uguali tra loro. L’aria
ancora impregnata di disinfettante, quell’odore disgustoso tipico degli
ospedali. Odore di malati.
Si sentiva stordito, ma più
il tempo passava più recuperava coscienza di sé e di ciò che lo circondava.
Dopo svariati minuti che non
seppe quantificare, giunse in una sala ampia a luminosa, piena di macchinari
che non aveva mai visto in vita sua. Gli prelevarono un campione di sangue, gli
fecero una TAC e un’altra dozzina di esami dalla dubbia utilità e per tutto
quel tempo la sensazione di stordimento non fece che diminuire, tuttavia le
orecchie gli facevano male e non riusciva a coordinare correttamente i
movimenti, tant’è che faticava perfino a parlare: più volte tentò di richiamare
l’attenzione dei medici, ma l’unica cosa che riuscì ad articolare furono versi
sommessi e privi di significato.
Alla fine si arrese. Lasciò
che i medici facessero i loro accertamenti per poi condurlo in una grande
stanza verde e luminosa, con un arredamento essenziale e sobrio. Gli
consigliarono di riposare, raccomandandogli anche di tirare la cordicella rossa
vicino al suo letto nel caso avesse avuto bisogno dell’assistenza di un
infermiere: Viktor (che lui aveva soprannominato “Statua Greca”) sarebbe
accorso immediatamente. Dopo avergli detto qualche parola di conforto, gli
sorrisero entrambi contemporaneamente e uscirono silenziosamente dalla stanza,
lasciandolo in balìa del silenzio ovattato e della puzza di disinfettante.
Quei due medici gli parevano
due bambini che trattenevano le risate dopo aver combinato una marachella. Si
chiese se poteva fidarsi di loro, ma in realtà sapeva di non aver scelta. E
rimase lì, solo, con tante domande e nessuna risposta.
«È fantastico, è fantastico!» esordì Saito,
abbracciando calorosamente Albrecht in un improvviso
ed inaspettato slancio di affetto; l’austriaco ricambiò tra le risate.
Nessuno dei due poteva
crederci e non si preoccuparono di placare il loro entusiasmo poiché ogni
stanza di quell’edificio era insonorizzata.
«È un miracolo, vecchio mio,
ecco cos’è!» esclamò l’austriaco, lisciandosi i lunghi capelli color mogano.
«Oh, no, no. È scienza.
Medicina, lavoro, bravura, esperienza, tentativi, fortuna…
Non un miracolo. Syans si è risvegliato perché noi
siamo degli ottimi medici, ecco perché.»
Si scambiarono un lungo
sguardo d’intesa, uno sguardo che esprimeva più di mille parole, parole che non
avevano bisogno di esser dette a voce perché entrambi sapevano cosa stesse
pensando l’altro. Nonostante appartenessero a due culture differenti, due emisferi
complementari, due mondi separati, il corso dei pensieri di Saito
seguiva perfettamente quello di Albrecht, e
viceversa. Ogni loro idea viaggiava sulla stessa lunghezza d’onda. Non ebbero
mai un incomprensione, un disguido o un malinteso. Sapevano esattamente cosa
voleva l’altro e che tipo di approccio bisognava utilizzare per avere una
discussione pacifica e un civile scambio di opinioni. Occasionalmente ebbero
dei battibecchi più o meno accesi, ma solo per questioni di massima importanza.
Come le cure di Syans. Inizialmente Albrecht aveva proposto di staccare la spina dei macchinari
che lo tenevano in vita, ma nonostante i cinque mesi di coma Saito non si diede per vinto e convinse il collega ad
attendere. L’orientale aveva un gran potere di persuasione e gli capitò spesso
di spronare Albrecht a reagire, piuttosto che
lasciarsi abbattere dalle intemperie della vita. La prima volta che lo convinse
a rischiare risaliva a parecchi anni fa, durante quel terribile incidente che
ancor’oggi disturba i sogni dell’austriaco. Fu così che diventarono amici. Da
quel momento Albrecht si sentì sempre in debito nei
confronti dell’orientale e, per ringraziarlo, tra le altre cose, sostenne
sempre le sue idee anche quando non era totalmente sicuro delle conseguenze.
«Dobbiamo brindare» propose
il moro con un tono che pareva un ordine, mentre si avviava con passo fiero
verso l’ascensore.
«Saito…?»
Albrecht,
immobile, era rimasto vicino la porta. Non aveva mosso un passo.
«Sì, Ishii-san?»
«Grazie.»
Il giapponese gli regalò uno
dei suoi rari sorrisi sinceri e solo allora l’austriaco lo raggiunse, quasi
commosso.
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* Vikutoru-kun: I
giapponesi hanno un alfabeto diverso dal nostro,
motivo per cui fanno fatica nel pronunciare
diverse parole straniere.
Vi risparmio i dettagli. In ogni caso “Viktor”
lo pronuncerebbero
come qualcosa simile a “Vikutoru”.
Il -san, invece, è un suffisso
onorifico giapponese: “san: utilizzato per indicare il
rispetto nei
confronti di qualcuno, come un collega di lavoro, un proprio
superiore oppure uno sconosciuto a cui ci si rivolge in maniera
educata, ma può essere utilizzato anche con persone con le quali
non si ha un rapporto amichevole per pura formalità”.
**
Ishii-san: Può darsi che più avanti venga
specificato, ma nel
dubbio
lo faccio ora. Inizialmente Saito chiamava Albrecht
per
nome, ma veniva fuori qualcosa simile a “Aruburekuto”,
motivo
per cui l’austriaco prendeva in giro l’orientale o si
lasciava
sfuggire risatine inappropriate ogni qual volta che il
collega
lo chiamava. Alla fine, quando la loro amicizia diventò più
intima,
Saito decise di dargli un soprannome giapponese per
risparmiarsi
questa tortura. “Ishii” era il cognome di Shiro Ishii,
“un medico, microbiologo e generale giapponese che guidò il
programma di armamento biologico dell'Impero giapponese al
comando di un'unità militare di ricerca chiamata Unità 731,
responsabile di sperimentazione umana e crimini di guerra”.
L’ho scelto durante una ricerca per trovare nuovi
spunti da
utilizzare nella storia.
Christopher