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Autore: Experiment 513    03/12/2014    1 recensioni
Durante la seconda guerra mondiale una ricca famiglia tedesca fonda un laboratorio di ricerca e sperimentazione avanzata, facendo esperimenti per potenziare le capacità fisiche e psichiche degli esseri umani. Le cose si complicano quando il progetto ad esclusiva gestione familiare viene compromesso dall'assunzione di un famoso scienziato giapponese, il quale prende le redini e il controllo del laboratorio, alterando il programma iniziale e stravolgendo l'intero lavoro svolto dagli altri membri. Da quel momento in poi il laboratorio viene caratterizzato da morti, esperimenti illegali, tradimenti e assunzioni di personale non gradito da parte degli scienziati e medici tedeschi, e proprio quando la situazione sta degenerando fino a raggiungere un punto di non ritorno giungono Albrecht e Saito, nipoti dei fondatori, a ripristinare l'efficienza e la meraviglia di quell'edificio, dando anima e corpo per rendere perfetto il loro lavoro. Finalmente si raggiunge un equilibrio stabile e tutti i colleghi sono accomunati dallo stesso scopo: migliorare la razza umana.
Tutto procede tranquillamente per anni, finché Syans - terzo figlio di Albrecht - non diviene vittima di un terribile incidente.
Genere: Introspettivo, Mistero, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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── Per il bene della Scienza ──

 

“Un male necessario”

───────────────────

 

 

 

 

“L'uomo ha scoperto la bomba atomica,

però nessun topo al mondo

costruirebbe una trappola per topi.”

Albert Einstein

 

 

 

2.     Risveglio

            Novembre 2013

 

 

 

 

Sento della musica. Ho come l’impressione che non l’abbiano mai spenta da quando mi sono addormentato. E questa puzza, quest’odore pungente di disinfettante e candeggina, mi sta dando il voltastomaco – no, forse la nausea è dovuta ad altro. Sento il corpo intorpidito e la testa mi duole come se il cuore mi pulsasse dentro la scatola cranica.

    Tum-tum, tum-tum…

    Apro gli occhi. Mi bruciano. Cerco di avvicinare una mano al viso per stropicciarli ma fatico a muovermi, talmente tanto che a stento riesco a voltare il capo per guardami intorno. Distinguo a stento i contorni dei mobili, ma non ci sono dubbi, sono in un ospedale. Cosa ci faccio qui?

    Un macchinario grigio alla mia sinistra segna i battiti cardiaci; tossisco più volte e cerco di liberarmi della maschera d’ossigeno. In questo stesso istante scatta un allarme, diffondendo nella stanza uno stridio che mi costringe a tapparmi le orecchie. La testa!, la mia povera testa, che dolore!

    Vorrei girarmi sul fianco, ma sento le giunture dolermi. Il mio corpo è pesantissimo, non riesco a muovermi, eppure – mi guardo da sopra il lenzuolo bianco – sembro così piccolo e mingherlino. Sento gli occhi inumidirsi di lacrime e prima che possa asciugarle qualcuno apre la porta. Un individuo di sesso ambiguo, dai capelli corvini e i grandi occhi grigi, rimane ad osservandomi sulla soglia con espressione allibita. Sembra una statua greca, una di quelle che rappresentano giovani dèi, o eroi, con le fattezze morbide e le membra acerbe tipiche degli adolescenti. È come se non fosse mai cresciuto e avesse mantenuto il volto efebo che caratterizza i ragazzi. Si capisce che ha una trentina d’anni, ma la sua pelle liscia dice il contrario. Sembra un diciottenne e quel camice bianco lo fa sembrare ancora più longilineo. Vedo le sue labbra muoversi ma non sento ciò che dice; oltre questo, nessuna reazione, rimane lì, a guardarmi con un’espressione tra l’impaurito e il sorpreso. Mi domando se il mio volto abbia qualcosa che non va e cerco di tastarmi la pelle alla ricerca di sangue o chissà cos’altro. Sono così stanco e dolorante che non riesco a capire se ho veramente alzato la mano per toccarmi il viso o se lo sto solo immaginando. È come se fossi in trance, un limbo tra sogno e realtà. Ecco, forse sto solo sognando.

    «Syans?!» esclama il medico, avvicinandosi frettolosamente al lettino ospedaliero. «Syans, mi senti?»

    Syans? Sta parlando con me?

    Nel dubbio, annuisco lentamente… o almeno credo di averlo fatto. Ho una concezione confusa dei miei movimenti, come se mente e corpo non fossero sintonizzati correttamente.

    Poco dopo arrivano altri due uomini in camice: un orientale molto basso, dagli occhi assurdamente chiari, e un occidentale alto e longilineo, dai capelli lunghi color mogano. 

    Statua Greca viene messo da parte, allontanato dagli altri due medici che si avvicinano al mio letto con aria entusiasta e sorpresa al contempo, guardandomi come se fossi… un mostro o forse un dio sceso in terra.

    «Dobbiamo fargli il test» ordina l’orientale; il dottore dai capelli lunghi annuisce. «Vikutoru-san*,» riprende, autoritario «porta la barella. Sbrigati.»

    Capelli Lunghi sorride, ha quasi le lacrime agli occhi. “Syans, oh, Syans!” continua a sussurrare con voce rotta dall’emozione.

    «Presto, Ishii-san**, aiutami a metterlo sulla barella» ordina ancora l’orientale, che sembra avere in mano la situazione. Dev’essere il primario del reparto, penso.

    «Dobbiamo anestetizzarlo» propone l’occidentale.

    «Potrebbe essere un rischio, non abbiamo la certezza che si risvegli. Potrebbe non sopravvivere alla notte. Potrebbe non sopravvivere alle prossime due ore.»

    Cosa? Di cosa state… Cosa mi sta succedendo?!

    L’orientale e Capelli Lunghi mi portano fuori dalla stanza, mentre Statua Greca mi guarda con compassione attraverso il vetro. Mi fa “ciao ciao” con la mano, poi sparisco nel corridoio.

 

 

 

***

 

 

 

Vedeva sfocato, i contorni irregolari e i dettagli che slittavano via dalla sua portata. Sentiva il rumore delle ruote delle barella e il chiacchiericcio dei due medici: non riusciva a percepire le parole, ma distingueva chiaramente il tono preoccupato di uno e quello emozionato dell’altro.

    Il corridoio sembrava interminabile, un infinito susseguirsi di porte a vetro tutte uguali tra loro. L’aria ancora impregnata di disinfettante, quell’odore disgustoso tipico degli ospedali. Odore di malati.

    Si sentiva stordito, ma più il tempo passava più recuperava coscienza di sé e di ciò che lo circondava.

    Dopo svariati minuti che non seppe quantificare, giunse in una sala ampia a luminosa, piena di macchinari che non aveva mai visto in vita sua. Gli prelevarono un campione di sangue, gli fecero una TAC e un’altra dozzina di esami dalla dubbia utilità e per tutto quel tempo la sensazione di stordimento non fece che diminuire, tuttavia le orecchie gli facevano male e non riusciva a coordinare correttamente i movimenti, tant’è che faticava perfino a parlare: più volte tentò di richiamare l’attenzione dei medici, ma l’unica cosa che riuscì ad articolare furono versi sommessi e privi di significato.

    Alla fine si arrese. Lasciò che i medici facessero i loro accertamenti per poi condurlo in una grande stanza verde e luminosa, con un arredamento essenziale e sobrio. Gli consigliarono di riposare, raccomandandogli anche di tirare la cordicella rossa vicino al suo letto nel caso avesse avuto bisogno dell’assistenza di un infermiere: Viktor (che lui aveva soprannominato “Statua Greca”) sarebbe accorso immediatamente. Dopo avergli detto qualche parola di conforto, gli sorrisero entrambi contemporaneamente e uscirono silenziosamente dalla stanza, lasciandolo in balìa del silenzio ovattato e della puzza di disinfettante.

    Quei due medici gli parevano due bambini che trattenevano le risate dopo aver combinato una marachella. Si chiese se poteva fidarsi di loro, ma in realtà sapeva di non aver scelta. E rimase lì, solo, con tante domande e nessuna risposta.

 

«È fantastico, è fantastico!» esordì Saito, abbracciando calorosamente Albrecht in un improvviso ed inaspettato slancio di affetto; l’austriaco ricambiò tra le risate.

    Nessuno dei due poteva crederci e non si preoccuparono di placare il loro entusiasmo poiché ogni stanza di quell’edificio era insonorizzata.

    «È un miracolo, vecchio mio, ecco cos’è!» esclamò l’austriaco, lisciandosi i lunghi capelli color mogano.

    «Oh, no, no. È scienza. Medicina, lavoro, bravura, esperienza, tentativi, fortuna… Non un miracolo. Syans si è risvegliato perché noi siamo degli ottimi medici, ecco perché.»

    Si scambiarono un lungo sguardo d’intesa, uno sguardo che esprimeva più di mille parole, parole che non avevano bisogno di esser dette a voce perché entrambi sapevano cosa stesse pensando l’altro. Nonostante appartenessero a due culture differenti, due emisferi complementari, due mondi separati, il corso dei pensieri di Saito seguiva perfettamente quello di Albrecht, e viceversa. Ogni loro idea viaggiava sulla stessa lunghezza d’onda. Non ebbero mai un incomprensione, un disguido o un malinteso. Sapevano esattamente cosa voleva l’altro e che tipo di approccio bisognava utilizzare per avere una discussione pacifica e un civile scambio di opinioni. Occasionalmente ebbero dei battibecchi più o meno accesi, ma solo per questioni di massima importanza. Come le cure di Syans. Inizialmente Albrecht aveva proposto di staccare la spina dei macchinari che lo tenevano in vita, ma nonostante i cinque mesi di coma Saito non si diede per vinto e convinse il collega ad attendere. L’orientale aveva un gran potere di persuasione e gli capitò spesso di spronare Albrecht a reagire, piuttosto che lasciarsi abbattere dalle intemperie della vita. La prima volta che lo convinse a rischiare risaliva a parecchi anni fa, durante quel terribile incidente che ancor’oggi disturba i sogni dell’austriaco. Fu così che diventarono amici. Da quel momento Albrecht si sentì sempre in debito nei confronti dell’orientale e, per ringraziarlo, tra le altre cose, sostenne sempre le sue idee anche quando non era totalmente sicuro delle conseguenze.

    «Dobbiamo brindare» propose il moro con un tono che pareva un ordine, mentre si avviava con passo fiero verso l’ascensore.

    «Saito…

    Albrecht, immobile, era rimasto vicino la porta. Non aveva mosso un passo.

    «Sì, Ishii-san

    «Grazie.»

    Il giapponese gli regalò uno dei suoi rari sorrisi sinceri e solo allora l’austriaco lo raggiunse, quasi commosso.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

══════════════════════════════════════════════════

 

* Vikutoru-kun: I giapponesi hanno un alfabeto diverso dal nostro,

motivo per cui fanno fatica nel pronunciare diverse parole straniere.

Vi risparmio i dettagli. In ogni caso “Viktor” lo pronuncerebbero

come qualcosa simile a “Vikutoru”. Il -san, invece, è un suffisso

onorifico giapponese: san: utilizzato per indicare il rispetto nei

confronti di qualcuno, come un collega di lavoro, un proprio

superiore oppure uno sconosciuto a cui ci si rivolge in maniera

educata, ma può essere utilizzato anche con persone con le quali

non si ha un rapporto amichevole per pura formalità”.

 

** Ishii-san: Può darsi che più avanti venga specificato, ma nel

dubbio lo faccio ora. Inizialmente Saito chiamava Albrecht

per nome, ma veniva fuori qualcosa simile a “Aruburekuto”,

motivo per cui l’austriaco prendeva in giro l’orientale o si

lasciava sfuggire risatine inappropriate ogni qual volta che il

collega lo chiamava. Alla fine, quando la loro amicizia diventò più

intima, Saito decise di dargli un soprannome  giapponese per

risparmiarsi questa tortura. “Ishii” era il cognome di Shiro Ishii,

“un medico, microbiologo e generale giapponese che guidò il

programma di armamento biologico dell'Impero giapponese al

comando di un'unità militare di ricerca chiamata Unità 731,

responsabile di sperimentazione umana e crimini di guerra”.

L’ho scelto durante una ricerca per trovare nuovi spunti da

utilizzare nella storia.

 

 

                                                     Christopher

   
 
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