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Autore: Flora    31/01/2005    7 recensioni
Cerca di gridare – e sente l’eco riflessa della sua voce, ma non la sua voce. È questa, la notte che cala sugli occhi?
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India, regione malliana. Il Re è ferito, forse morente. Mentre Alessandro lotta per sopravvivere, Efestione deve affrontare l'attesa più lunga della sua vita.
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Ho nostalgia di te. L’ho sempre avuta, anche prima di incontrarti. Come si può volere così tanto qualcosa che ancora non si conosce? Tu lo sai, Alekos? Lo senti questo richiamo?
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Questa storia fa parte del mio ciclo di racconti su Alessandro il Grande.
Genere: Angst, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Antichità, Antichità greco/romana
Capitoli:
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Pyr.




Sole. Luce abbacinante. Sudore e polvere.
E acqua.
Il fragore della corrente che sembra ingoiare tutto, le voci degli uomini e i nitriti dei cavalli che gli si conficcano nelle tempie, come aghi dolorosi.
Si passa una mano sulla fronte premendosi le dita tra le sopracciglia.
Suoni, odori familiari come la sua stessa pelle, la cacofonia sconnessa dell’accampamento – sempre la solita, sempre uguale a se stessa.
Da qualche parte il pianto isterico di un bambino e la voce di una donna, lo scoppio fragoroso di una risata e, lontana, la musica bianca e soffocata di un aulos.
Dolore dietro le palpebre. Calore. Sole indiano, senza pietà.
“Hephaistion, ti senti bene?”
Sussulta, come fosse stato improvvisamente richiamato indietro da un sogno. I contorni delle cose ritornano vividi, quasi insopportabili sotto la luce accecante.
Socchiude gli occhi e scuote la testa. L’odore selvaggio dell’acqua lo riassale con la violenza di uno schiaffo.
“Sto bene. Non preoccuparti, Nearkhos. Ho solo avuto un capogiro.”
L’altro sospira, mettendogli una mano sulla spalla.
“Amico mio, lasciami dire che hai una pessima cera oggi. Forse ti sei preso una qualche febbre. Il povero Demostratos, l’altro giorno, si lamentava nel letto con le budella disciolte. Ne ha avuto per più di tre giorni, non la riusciva proprio a tenere. Questo maledetto clima indiano sta facendo diventare isterico anche me.”
Hephaistion si sforza di sorridere; il dolore alle tempie è un martellare continuo, una pulsazione ritmica e attutita dietro gli occhi. E l’acqua. Il sentore dell’acqua che lo fa impazzire.
“Non è niente. Solo un po’ di stanchezza. Ho appena finito il giro di ispezione e passato in rassegna le mie truppe; voglio che l’accampamento sia attivo e pronto alla partenza per quando Aleksandros tornerà, e questo vale anche per le tue navi. Ci metteremo in marcia non appena l’esercito sarà qui e la tua flotta dev’essere pronta a riprendere la navigazione il prima possibile.”
Nearkhos annuisce. Hephaistion è sempre stato impeccabile e molto esigente nello svolgere i suoi compiti, è riuscito a organizzare l’immenso campo base in poche ore, ed è grato che sia lui a sovrintendere e coordinare i lavori di riparazione delle navi. È un uomo intransigente, lo conosce bene, ma nessuno riesce a eguagliare la sua efficienza.
Lui invece è diverso – cretese fino al midollo – e l’acqua è il suo elemento. A terra si sente mancare l’aria come un gabbiano insabbiato. Ma ha dovuto adeguarsi.
Essere al seguito di Aleksandros significa abituarsi a molte cose.
Si volta verso il fiume a osservare la lunga fila di immense galee splendenti nel sole, le lunghe trireme dalle chiglie lucide e dalle polene scolpite, i piccoli e leggeri polischermi dipinti di rosso e l’intricata foresta di remi inerti sotto il sole.
La corrente dell’Acesines è un rombo cupo, un suono basso e continuo come il respiro rabbioso di un gigante.
Quelle correnti l’hanno colto di sorpresa, lui che conosce mari e fiumi come il suo stesso sangue – hanno afferrato le sue navi in un abbraccio letale, subdolo come quelle acque straniere e lontane.
I genieri di Hephaistion sono al lavoro da due giorni ormai, ininterrottamente, e presto le imbarcazioni saranno pronte per riprendere la via del fiume, verso l’oceano. Aleksandros ne sarebbe rimasto molto soddisfatto, una volta tornato dalla sua caccia.
Si volta verso Hephaistion, che sembra di nuovo remoto e sofferente, la mano sulla fronte contratta e segnata da un solco profondo.
“Credo che dovresti andare nella tua tenda a riposare, Hephaistion. Ti ripeto che hai un aspetto terribile. I lavori stanno procedendo alla perfezione, rimarrò io qui ad assicurarmi che gli uomini seguano le tue istruzioni e non battano la fiacca.”
Hephaistion scuote la testa e socchiude gli occhi scuri, incapace di sopportare l’alone di luce che sembra avvolgere tutto in un involucro soffocante, poi richiama con un gesto uno dei suoi attendenti.
“Devo andare a controllare i carri degli approvvigionamenti e lo stato delle scorte di grano, voglio farmi un’idea precisa delle nostre riserve prima di rimetterci in marcia verso l’Indo. Sarà un lungo cammino fuori dalle rotte di rifornimento e non voglio avere sorprese.”
Nearkhos alza le spalle. Hephaistion ha un dono per queste cose, l’ha sempre avuto fin dai tempi di Mieza, quando studiavano assieme con il vecchio Aristoteles. Riuscirebbe a far quadrare un cerchio. Aleksandros vagheggiava di terre lontane e di città leggendarie; Hephaistion, adesso, gliele costruisce.
“Come vuoi tu. Passerò dalla tua tenda più tardi. Cerca di riposare almeno un po’.”
Hephaistion lo congeda con un sorriso veloce – più simile a una smorfia – e una pacca sulla spalla. Poi, si avvia nell’altra direzione.
L’accampamento gli scorre accanto, un’informe massa sfocata di sagome e profili, ombre iridescenti appena visibili dietro le palpebre socchiuse. Il respiro è una lama affilata nel petto, un fendente sanguigno che sembra lacerarlo a ogni passo.
Si ferma, cercando un appiglio – squarci intermittenti di rosso gli lampeggiano davanti agli occhi e su tutto una luce fulgida, cattiva.
“Mio Signore Hephaistion, che cos’hai, non ti senti bene?”
La voce preoccupata del giovane scudiero risuona distante, un’eco appena percepibile dietro la superficie appannata della coscienza.
“È tutto a posto, Aleksias. Suppongo solo di non essere fatto per questo stupido sole indiano.”
Il ragazzo annuisce con energia – nervoso, sollecito. La vita pare crepitare in lui, sembra giovane, così giovane che guardarlo fa quasi male. Si chiede se anche lui sia stato così, un tempo – quanto tempo? Anni? A volte sembrano solo migliaia e migliaia di vite.
Le voci e i suoni gli arrivano attutiti, come strisciassero sull’aria simili a serpenti.
Gli schiamazzi dei soldati che giocano ai dadi o incitano i galli in un combattimento, le risate dei bambini e le grida delle loro madri, il suono dei flauti e il canto degli aedi, e poi il cicaleccio continuo dei mercanti e degli interpreti, le cantilene dei giocolieri, il viavai degli schiavi. Un flusso costante di rumori e parole biascicate, di musica soffusa e frastuono assordante, così familiare da essere parte di lui, ma che adesso gli è estraneo come il grido strozzato di un nemico in agonia.
Dappertutto il blaterare incomprensibile degli sciti e dei battriani, dei traci e di quei pochi indiani che hanno deciso di seguirli in cerca di fortuna. Ha imparato molti di quegli idiomi, eppure adesso gli arrivano simili a un borbottio indistinto, poco più che singhiozzi sconnessi, primordiali.
Infine, ecco il colpo decisivo, come lo aspettasse. Uno scoppio di luce abbagliante davanti agli occhi, una ragnatela feroce di sangue che lo acceca, e il respiro ricacciato giù in gola come una massa aggrovigliata di fili incandescenti.
(Alekos)
Cade in ginocchio, incapace di respirare. Annaspa per ritrovare l’aria che sembra essere scomparsa improvvisa dai suoi polmoni, si aggrappa alla terra raschiando il suolo polveroso e strappando fili d’erba avvizzita.
(Alekos)
Il ragazzo è chino su di lui, grida qualcosa ma non riesce a sentirlo, la sua faccia è solo un ovale sospeso, un’ombra informe e priva di significato.
Poi passa – violenta com’è arrivata – e lui è risucchiato indietro con forza da artigli di fuoco. Il mondo riacquista i suoi contorni, le voci tornano a essere distinte, riconoscibili.
(Alekos)
Si rimette in piedi a fatica, stentando a riprendere il controllo di un corpo che sente improvvisamente estraneo e si sforza di sorridere al ragazzo, impietrito dalla paura.
“Mio Signore, che cos’è successo? Improvvisamente tu…”
Hephaistion si guarda attorno e nessuno, a parte loro, sembra essersi reso conto di ciò che è accaduto – sì, ma che cosa è accaduto? Che cosa? Appoggia una mano sulla spalla del giovane e la stringe appena.
“Accompagnami alla mia tenda. Non preoccuparti, starò bene, ma adesso andiamo. Ho bisogno di avere dell’acqua.”
Si avviano lentamente. Si sente barcollare ma cerca di rimanere in piedi. Un sapore metallico gli invade la bocca – il sapore del sangue.
(Alekos)
L’interno della tenda è fresco e in penombra. Per un attimo rimane quasi accecato dall’oscurità dopo l’abbacinate sole pomeridiano e si lascia cadere pesantemente su una sedia.
Il ragazzo gli porta una bacinella e lui vi immerge le mani avvertendo una scossa dolorosa. Se le porta al volto che brucia come erba secca, e il contatto lo riconduce alla realtà. L’acqua è fredda, si conficca come uno stiletto acuminato nella pelle.
“Va’ a chiamare il generale Ptolemaios.”
Il giovane sbatte le palpebre confuso, incapace di parlare. Hephaistion gli sorride dandogli una pacca sulle spalle.
“Sto bene, non preoccuparti. È passata. Adesso però va’ a chiamare Ptolemaios.”
Aleksias rimane ancora un istante a fissarlo in silenzio, poi sgattaiola via veloce, richiudendo il lembo della tenda dietro di sé.
Hephaistion si passa la mano sugli occhi. Non riesce nemmeno a pensare, sente solo quel rivoltante sapore di sangue e il sibilo serrato del suo respiro.
(Alekos – oh, Alekos, stai bene?)
Il tavolo è ingombro di mappe, carte, dispacci, schemi e disegni che capisce solo lui. In un angolo giace dimenticato un foglio di papiro dove stava annotando i turni di guardia per le sentinelle della ronda notturna.
Lo afferra e la mano gli trema. Ha sempre avuto una stretta salda come ferro, ma ora il braccio vibra come percorso da una febbre.
La tenda si apre lasciando filtrare un’ondata di bianco e Ptolemaios si fa avanti nello spazio immobile, una figura scura stagliata contro la fulgida luminosità dell’esterno. Sembra annientato dal caldo e dal sole, ha il volto polveroso e segnato dalle rughe. Gli appare improvvisamente troppo alto e troppo magro, l’ombra malata di un estraneo.
“Non hai una bella cera, Ptolemaios. Che cosa c’è, Thais ti tiene sveglio la notte?” Tenta una risata che però non è niente più che un gracchiare sordo.
“Senti chi parla, e tu invece? Sembri un morto che discorre, Hephaistion. Il ragazzo mi ha detto…”
“Lascia perdere che cosa ti ha detto il ragazzo, sto benone. È solo che non sopporto questo posto. Un colpo di sole. Non morirò certo per questo.”
“Ah, no di sicuro, non con quella tua pellaccia dura. Nondimeno, faresti meglio a riposare un po’. Non ti sei fermato un attimo da quando siamo arrivati qui. Già me lo sento, Aleksandros. Dovesse vederti ridotto così, caverebbe gli occhi a tutti noi.”
Hephaistion agita la mano nell’aria in un gesto spazientito.
“Si vede che non lo conosci. Un amante dell’efficienza come lui ci caverebbe gli occhi se battessimo la fiacca, vorrai dire. E comunque sì, mi riposerò un paio d’ore. Puoi occuparti tu dei carri provviste e controllare gli stalli dei cavalli? I tessali sono efficienti, ma le baracche degli animali sono un disastro. Hanno usato foglie di palma e bambù, non è un riparo sufficiente. Li ho messi a lavoro, ma vanno controllati. Non voglio che i cavalli rimangano sotto questo sole, li ucciderebbe.”
Ptolemaios annuisce. “L’avrei fatto comunque. Tu finisci di dare un’occhiata ai turni della ronda appena ti sei ripreso, sai che io impazzisco su quella roba. Ah,” una pausa, “è appena arrivato Krateros con i maledetti elefanti.”
L’ha detto quasi per caso, è riuscito persino a sembrare indifferente. E bravo Ptolemaios, questo deve riconoscerglielo.
Hephaistion si porta una mano alla fronte, massaggiandosi le tempie.
“Bene. Ci penserò più tardi. Gli elefanti vanno sistemati quanto più possibile lontano dai cavalli. Li spaventano.”
“Suppongo che se ne stia occupando lui in questo momento.”
“Tanto meglio.”
“Vuoi parlarci?”
Hephaistion si allunga all’indietro sulla sedia, distendendo le gambe e chiudendo gli occhi. “Dei del cielo, no. È già abbastanza che debba trovarmi con lui nello stesso posto e sotto lo stesso cielo. Preferirei rimandare, se non ti dispiace.”
“Non era dell’umore migliore, Hephaistion.”
“Lo immagino. Non gli va a genio di doversi trovare ai miei ordini in questo accampamento. Non ha mandato giù che Aleksandros abbia lasciato a me il comando di questa spedizione, se così possiamo chiamarla.”
Ptolemaios si appoggia al tavolo ingombro, facendo cadere alcune carte che raggiungono il pavimento fluttuando pigre.
“Hai detto bene, una specie di spedizione. Né io né te abbiamo trovato l’ombra di un solo maledetto mallo. Dovevamo catturare i fuggiaschi, se non sbaglio. Tu eri cinque giorni di marcia avanti a lui, e io tre giorni indietro. Una trappola perfetta. Ma non se ne è visto nessuno. Scomparsi. La domanda è: dove sono?”
Hephaistion si passa una mano tra i capelli in un gesto nervoso. Si sono allungati, dovrà tagliarli prima o poi.
“E c’è un’altra cosa, Hephaistion,” continua Ptolemaios, “Krateros si aspettava di trovare Aleksandros all’accampamento. La sua marcia è stata rallentata dagli elefanti e dalle salmerie. Pensava che Aleksandros avrebbe sistemato la faccenda con i malli nel tempo impiegato per arrivare qui, e invece di lui nemmeno l’ombra. Ora, Krateros potrà anche non piacerti, ma non ha tutti i torti. A quest’ora Aleksandros avrebbe già dovuto essere all’accampamento, e da un pezzo.”
Lo fissa in silenzio, ma l’espressione di Hephaistion è indecifrabile, i lineamenti lignei e contratti di maschera.
“L’hai detto anche tu, Ptolemaios. Non abbiamo trovato malli. A questo punto è logico pensare che si siano rifugiati tutti nelle loro roccaforti, nella regione tra l’Acesines e l’Hydraote, dove Aleksandros aveva tutta l’intenzione di stanarli. L’avranno tenuto occupato più del dovuto, dovresti sapere che non è da lui lasciare le cose a metà. Probabilmente sarà già sulla via del ritorno. Ce lo vedremo piombare qui da un momento all’altro.”
Ptolemaios continua a fissarlo in silenzio. Hephaistion sente di non riuscire a sopportare quello sguardo inquisitore un attimo di più.
Si alza, tentando di non dare a vedere quanto gli costi, e si avvicina a un basso tavolino in legno intarsiato – un dono di Aleksandros – poi afferra una coppa, versandosi del vino.
“Se lo dici tu. Hai certamente ragione, sarà stato impegnato più del previsto. Sì, sarà certamente così.”
Hephaistion porta la coppa alle labbra. La mano gli trema; con uno sforzo di volontà riesce a mantenere una presa ferma e ingoia il caldo liquido speziato tutto d’un sorso. Il vino sembra bruciargli nella gola, scavare un solco rovente fino alle viscere.
Ptolemaios lo sta ancora fissando.
“Hephaistion.” Una lunga pausa. “Lui sta bene, vero? Pensi che stia bene, non è così?”
Hephaistion sbatte con forza la coppa sul tavolo, mandandola in frantumi. Il vino si sparge come una macchia di sangue sul ripiano, densa e viscosa. Gli sembra di sentirne di nuovo il sapore in bocca, nella gola – corrodergli la piaga scavata dal vino. Per un attimo trattiene il respiro mentre un grido gli si blocca nel petto, come un nodo di fuoco lancinante.
(Alekos)
Ptolemaios è rimasto a guardarlo a bocca aperta. Deve dirgli qualcosa.
“Sta bene. Cosa credi che direbbe se ti vedesse così, come una donnetta in preda al panico? Avanti, Ptolemaios, non è la prima volta che siamo lontani da lui durante qualche campagna, cosa ti fa pensare che possa essere diverso? Si starà divertendo a dare la caccia ai malli in lungo e in largo, tornerà indietro non appena avrà ritenuto conclusa la faccenda. Adesso facciamola finita. Ci stiamo comportando come due mogli isteriche, se non te ne sei accorto.”
Ptolemaios emette una risata nervosa, simile a un lamento.
“Non posso darti torto. Bene, finiamola qui. Vado a dare un’occhiata agli elefanti e a parlare con Krateros. Verremo qui tutti e due più tardi, così possiamo finire di esaminare quelle mappe. Tu intanto riposati. Hai davvero un aspetto terribile, se ancora non te l’ho detto.”
Hephaistion impreca tra i denti. “Neanche tu sei esattamente un fiore, Ptolemaios. Se fossi Thais ti terrei a debita distanza dalla mia tenda.” Si sforza di ridere. “A ogni modo farò come dici, e porta i miei omaggi di benvenuto a Krateros.”
Ptolemaios gli indirizza un insulto incomprensibile ed esce dalla tenda, nel caldo sole
diurno.
Hephaistion rimane per un attimo a fissare il lembo di stoffa che si ripiega su se stesso, sigillando fuori i rumori insensati del campo e quella luce malata che sembra piantarglisi nella carne come un chiodo vivo. Si accorge con disgusto che ha la mano appoggiata sulla viscida chiazza di vino e la tira via con un’imprecazione, facendo precipitare i cocci della coppa sul pavimento.
Si sfila il corsalino di tela e si lascia cadere sul letto, portando una mano alla fronte. La pelle scotta, è ruvida ed essiccata. L’aria pare improvvisamente non essergli più sufficiente, scivolargli via dalla gola come da una ferita aperta.
(Alekos)
Occhi pesanti, coltri di lana in una notte d’inverno – e il petto che si alza e si abbassa mentre l’aria esce a fiotti in un sibilo ininterrotto.
La realtà scivola via su di un piano inclinato verso il nulla, una discesa vertiginosa, uno stordimento che lo attira in una voragine di roccia spaccata e dolorante, in una terra di nessuno di città in rovina, Dei sconosciuti e carne corrotta.
Fa un disperato tentativo di tirarsene fuori mentre il terrore gli scava la gola come una lama appuntita, annaspa per ritrovare la strada, risalire verso la luce, ma ecco che la sente per la prima volta, ecco che sente la sua voce, chiara e distinta come un comando gridato in battaglia.
Dove sei?
Si volta, e percepisce le fiamme lontane arrivare fino a lui, raggrinzirgli la pelle delle braccia, ustionargli il volto come fossero lì, tutte attorno, in una fornace di calore.
Dove sei?
Lo sta chiamando, la voce emerge come un’onda dal passato, la voce del ragazzo che adesso non è più, quando nelle notti di Mieza invocava il suo nome dopo aver sognato il fuoco. Lo sogna ancora? Sono passati così tanti anni. Tanti, tanti anni.
Dove sei?
Eppure lo sta chiamando, può sentire lo schianto acuminato del terrore nella sua voce, e allora si dibatte per uscire da quel vuoto incandescente, per raggiungerlo, per trovarlo.
Aleksandros
Lo chiama con tutto il fiato che ha in gola, ma la voce non esce sebbene possa sentire i polmoni dilatarsi ed emettere un fiotto d’aria violenta.
Aleksandros
Lo chiama ancora, e avverte l’aria riarsa muoversi attorno a sé, scavargli un passaggio mentre si sposta nel morbido bozzolo di calore, cercando di farsi strada tra le rocce aguzze e le lingue di fuoco.
Aleksandros
Lo percepisce ancora prima di vederlo – il suo semplice esistere. Ne è cosciente come lo è sempre stato, la consapevolezza della sua presenza, il pulsare vibrante della sua vita, adesso attutito e veloce, ma vivo, caldo come il corpo dell’uccellino che una volta – in un’ altra esistenza? – aveva tenuto tra le mani, per deporlo di nuovo nel nido da cui era caduto.
Dove sei?
Un urlo, ruvido e disperato come un graffio.
Qui. Sono qui.




Si sveglia con un grido soffocato. La tenda è buia, l’oscurità densa e vischiosa. Lo squarcio di cielo che riesce a vedere è nero e striato d’argento.
Si passa la mano tra i capelli appiccicosi, gemendo piano. La pelle gli brucia ancora, mentre il sudore va asciugandosi lentamente sulle spalle nude.
Aleksandros
Lo mormora a voce alta, il sussurro si rompe in un singhiozzo.
Aleksandros
Allunga la mano verso l’oscurità invocando una risposta, ma attorno a lui c’è solo tenebra fredda e muta.






  
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