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Autore: Marcuc    05/12/2014    4 recensioni
Questa storia non è autobiografica!
E' un esperimento che giaceva nel mio computer da anni e, in una notte, l'ho perfezionato. Ho voluto rubar tempo ai miei altri progetti, per mettermi alla prova in altri ambiti. Questa è una storia di un incontro, di un malinteso, di un rancore riacceso, di scuse finalmente arrivate, di perdono e di sorprese. Una storia mai chiusa, una storia ripresa dopo quasi nove anni! Spero davvero che possa piacervi...
Un estratto:
Impallidì di botto e maledì il destino per quell’ennesima brutta sorpresa. Era la dipendente del padre di colui che, nella sua adolescenza passata da poco, l’aveva ferita in modo quasi irreparabile. Aveva quattordici anni quando perse la testa per lui, fu una cotta folle e allucinata da parte di Isotta, mentre da parte di Alex fu solo puro divertimento, l’aveva guardata struggersi per lui, umiliarsi, odiarsi.
[...]
«...non ti illudere che io non sappia che me le stai chiedendo solo perché ti sei accorto che ho due tette e un culo che ti aggradano.»
Siate clementi, anzi no... voglio migliorare!
Genere: Commedia, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Sì, sono l'autrice di Runaway che se ne scappa con queste storie dell'ultimo minuto, quando dovrebbe finire quello che ha iniziato. Inveite pure, ne avete tutte le ragioni!
Mi giustifico dicendo che avevo bisogno di scrivere altro, fare una pausa dagli incantesimi, Maledizioni ecc. e tornare alla vita reale, giusto per ricordarmi come si sta in questo mondo (Da buona Potterhead ho inserito dei passaggi anche in questa!sssshhhhh).
Come ho detto nell'intro questa è una storia vecchia, che ho ideato tre sistemi operativi fa; pensate: è sopravvissuta alla nerdaggine di mio moroso e alla mia memoria farlocca, non è cosa da poco. Ovviamente quella che ho scritto " da bimba" (come se adesso fossi un'adulta stagionata!!! xD) era solo lo scheletro di quella che leggerete qui, ma riscoprendola l'idea mi era parsa buona, ampliabile, diffondibile. Quindi mi sono messa in gioco in una sola notte, l'ho ripresa, ho aggiunto parecchio e perfezionato alcuni passaggi, ma il succo è sempre quello.
Potrei fare una serie di queste storie... dipende dal vostro giudizio!
PS- Ricordate: qualunque cosa leggerete non mi è mai successa, la protagonista non sono io anche se mi somiglia parecchio. Ogni riferimento ad eventi realmente accaduti o a persone esistenti è puramente casuale.

Buona lettura!!!!!





Caffé macchiato in terzo tempo





Il primo mattino di settembre frizzava sul lungomare adriatico. Erano passate da poco le sette, la fresca brezza che aveva accompagnato l’alba era sparita, lasciando il posto ad un debole alito di vento estivo. Un sottofondo di musica pop, quasi del tutto inudibile, aleggiava sopra i tavolini esterni ed interni del locale Green Sand, strapieno; i clienti affamati, ancora tiepidamente legati all’afosa notte appena sfumata, coprivano con il chiacchiericcio l’ultimo pezzo di Rihanna che passava alla radio proprio in quel momento.

La gente si avvicinava alla fine delle vacanze e il malcontento aleggiava come una nebbia scura su quasi tutti gli adulti presenti; gli sguardi taglienti che si riservavano l’un l’altro, come se il vicino di tavolo avesse compiuto nei loro confronti un torto irreparabile, erano lo specchio dell’incontentabile voglia di vacanza che mai si soddisfa .

Quattro capaci cameriere, in camicia bianca e calzoncini di jeans, sfilavano tra la gente ostentando il loro entusiasmo da contratto, si arrestavano per pochi minuti prendendo le ordinazioni, sorridendo anche ai più intrattabili mattinieri, poi convergevano quasi simultaneamente dietro al bancone dove altre due colleghe adempivano con altrettanto entusiasmo anche alle più strambe e indecifrabili voglie.

Isotta era una di quelle infaticabili ragazze che in quelle giornate si guadagnava il suo misero stipendio stagionale, forse era l’unica delle sei a riversare un sincero piacere nel lavoro che svolgeva. Era una ventiquattrenne dai tratti ordinari, chi sperava di conquistarla non era perché brillava per la sua bellezza esteriore; alta poco più di un metro e settanta, non troppo asciutta, le sue curve erano discrete e armoniose. La folta chioma di capelli rosso rame, scintillanti al sole, era solitamente stretta in una treccia o in una coda di cavallo, la frangia disordinata se ne stava posata su una fronte spaziosa in cui facevano capolino due linee cioccolato che denunciavano la vera natura della sua chioma contraffatta, subito sotto un paio di grandissimi e vivaci occhi glauchi regnavano incontrastati, protagonisti magnetici sul suo viso mediterraneo. Gli occhi erano l’unica cosa che le piaceva di lei, una volta aveva letto che la dea Atena era stata descritta con le iridi dello stesso colore, da appassionata della mitologia greca li aveva considerati un dono preziosissimo.

“Sotty”, così la chiamavano i clienti abituali conquistati dal suo magnetico sguardo, si vedeva ogni giorno piroettare leggiadra tra i corpi avvolti dai teli estivi che celavano costumi colorati, sorrideva deliziata ai bambini che riprendevano a rincorrersi dopo la pausa rinvigorente arrivata al calar del sole, cercava di addolcire con un sorriso doppio chi tra i grandi non veniva conquistato dal suo saluto squillante, riuscendoci, dava il cinque ai ragazzotti ancora troppo giovani per vacanze separate dai genitori, abbracciava le comitive di ragazzi più grandi come se fossero suoi amici da una vita. Molti, uomini e donne, andavano in quel bar due o tre volte al giorno solo per vederla, per farsi servire un caffè e una parola affettuosa. C’era penuria di effusioni nel mondo, bisognava cogliere ciò che rimaneva. Lei li accoglieva come se fossero i suoi famigliari e, se il locale non era stipato di gente, si fermava qualche minuto in più a parlare, a chiedere brandelli di notizie che rimbalzavano sulla spiaggia, troppo lontano dalle sue orecchie indaffarate. Li chiamava per nome, rideva alle loro barzellette, chiedeva di figli e nipoti, li faceva sentire a casa. Era stata la vera attrazione del Green Sand quell’ estate.

Ma quella mattina c’era qualcosa di diverso nell’aria, o almeno c’era per lei. Non se ne preoccupò quando, annodandosi il grembiule scuro sui fianchi, diede il via al suo turno otto/diciotto no stop. Era una strana sensazione che la rese molto distratta fino agli sgoccioli del suo turno, come se sentisse che doveva avvenire qualcosa di sconvolgente. La mattinata scivolò via come tutte le altre, niente di eclatante, niente di particolarmente sospettoso, fece quello che aveva sempre fatto con lo stesso amore con cui lo aveva sempre fatto, e così fu anche per il pomeriggio. Quando il sole cominciò a scaldare meno, invitando una nuova ondata di gente per l’aperitivo, la brutta sensazione non se n’era ancora andata e non se l’era ancora spiegata.

La sua giornata lavorativa stava quasi volgendo al termine, lo percepiva dal brontolio sommesso del suo stomaco vuoto, e, quando si avvicinò al bancone con una pila infinita di ordinazioni, non si accorse che qualcuno la stava osservando attentamente. Non sentì il pressante peso di uno sguardo che accarezzava la sua figura, non erano cose di cui si accorgeva sovente, non le piaceva l’adulazione. Consegnò alla collega Grazia le nuove ordinazioni, aveva un ultimo giro di danze dopo quello che stava per iniziare, poi si caricò di un vassoio colmo e sorridendo si allontanò ignara.

Era a metà strada verso il tavolo quattro quando Simona, la più anziana tra le cameriere e di fatto la responsabile di tutte loro, la intercettò concitata e sussurrò al suo orecchio:«Sotty, vedi il ragazzo al bancone con i calzoncini verdi?» fece un cenno con la testa.

Lei si voltò in modo discreto per prendere visione di chi le stavano indicando. Un ragazzo alto e moro dava loro le spalle, era appoggiato con entrambi i gomiti al bancone e, proprio in quel momento, con un movimento svelto, si era tirato uno sgabello sotto il sedere agganciandolo con un piede. Isotta annuì.

La sua superiore allora continuò «E’ il figlio del proprietario…» era anche un po’ nervosa.«Fammi il favore di servirlo tu, con la tua faccetta d’angelo farai fare buona impressione a tutto lo staff. Ovviamente non farlo pagare.» non era una cattiveria, non correva cattivo sangue o gelosia tra Isotta e le altre, anche se era palese che in molti preferivano che fosse lei a servirli.

«D’accordo, ma ho almeno dieci ordinazioni pri…» non le sembrava giusto favorire qualcuno, chiunque fosse, mentre in tanti aspettavano e pagavano la loro parte.

Simona alzò un sopracciglio e quasi le strappò di mano il vassoio:« Fate tenerezza voi giovani. Imparerai presto che il capo e la sua famiglia hanno precedenza su tutti. Se sono felici loro saremo felici anche noi. Farò io le tue mansioni e ho già chiamato quella del turno dopo, entrerà un po’ prima per coprirti nel caso si trattenesse più di cinque minuti. Ora vai, l’abbiamo già fatto aspettare abbastanza.»

Le sembrava indecente tutto quello sbattimento per una sola persona, si sentiva la prostituta preferita del pappone di turno, ma non poteva puntare i piedi: il suo stipendio dipendeva dal genitore insopportabile di quel ragazzo. Era un dato di fatto e non si poteva discutere, per quanto ingiusto e disgustoso fosse.

Si girò a malincuore, reprimendo i movimenti rivoluzionari che le attorcigliavano lo stomaco, e costruì un sorriso perfetto e terribilmente finto, un sorriso che in quei mesi non aveva mai dovuto costringersi di mostrare. Si avvicinò lentamente al bancone e arrivò davanti al ragazzo che alzò lo sguardo verso di lei, sorridendo compiaciuto.

Si guardarono per un buon minuto, una sensazione confusa accomunava i pensieri dei due: avevano l’impressione di conoscersi già da tempo. Ma non riuscivano a ricordarsi quando e dove era avvenuto il loro primo incontro. Confusi cercavano di riportare alla mente ricordi da tempo sopiti, vecchissime situazioni anche legate alla loro infanzia. Ma nulla. Non riuscivano a ricondurre nessuna situazione che li vedeva entrambi protagonisti e coinvolti in un dialogo o in un rapporto di qualsiasi tipo. Isotta era sicura di non averlo mai visto al Green Sand quell’estate, la sua prima di lavoro lì.

Nessuno dei due accennò nulla e, dopo quel momento di disorientamento, diedero il via al rimbalzare di frasi.

Isotta sorrise, questa volta sinceramente, e con gentilezza chiese:«Ciao! Posso portarti qualcosa?» squillante e coinvolgente come sempre. Non voleva far vedere a quel ragazzo che sapeva chi fosse, che avesse un minimo potere su di lei e sul suo modo di fare, lo avrebbe trattato come tutti gli altri.

Lui non poté resisterle. Si raddrizzò sullo sgabello e con mutato interesse disse:« Ciao! Un caffè macchiato, grazie.» giunse le mani davanti a sé, sul bancone, come se avesse risposto esattamente ad una domanda difficile all’Esame di Stato.

Lei piegò impercettibilmente la testa accogliendo l’ordinazione:«Posso portarti altro?» chiese prendendo con un gesto distratto i piattini sporchi posati sul bancone dai clienti. «Ci sono dei biscotti secchi fenomenali, il pasticcere ci ha rifornito neanche dieci minuti fa, sono ancora caldi.» faceva sempre così con tutti i clienti, con calore li spingeva a prendere qualcosa da stuzzicare e da accompagnare alle bevande, era una venditrice nata.

«Ti ringrazio ma devo seguire una dieta ferrea, per ora mi basta il caffè.» declinò lui con gentilezza.

«Come vuoi!» disse sempre sorridendo.

Stava quasi per voltarsi per prepararglielo quando lui la bloccò:«Hai un’aria familiare, per caso ci conosciamo?» diede voce ai suoi dubbi di poco prima. Non poteva più impedire all’educazione di spazzare via quella sensazione che li stava facendo impazzire.

Lei lo guardò negli occhi e in un lampo comprese chi fosse.

Alex.

Impallidì di botto e maledì il destino per quell’ennesima brutta sorpresa. Era la dipendente del padre di colui che, nella sua adolescenza passata da poco, l’aveva ferita in modo quasi irreparabile. Aveva quattordici anni quando perse la testa per lui, fu una cotta folle e allucinata da parte di Isotta, mentre da parte di Alex fu solo puro divertimento, l’aveva guardata struggersi per lui, umiliarsi, odiarsi. L’aveva presa in giro e, quando all’inizio del quarto anno aveva lasciato la scuola che frequentavano, come regalo d’addio alla sua classe aveva esposto i più umilianti dettagli dell’ossessione che aveva avuto, inutile dire che tutte le oche giulive che ne facevano parte le avevano riso dietro per mesi.

A distanza di quasi otto anni Isotta non accusava più gli strascichi delle furiose lotte contro tutte le prese in giro, contro quell’amore amaro e non corrisposto, trovarselo davanti non la spaventava più, e quindi decise di concedersi una piccola rivincita. Per scrupolo si appuntò mentalmente di procurarsi una fiala di cianuro, o ancora meglio un veleno non rintracciabile, da versargli nel caffè a nuova occasione. Così, per ridere.

Decise quindi di non rivelargli subito che lei era arrivata alla soluzione dell’enigma. Sapeva che era sempre stato facile prenderlo per i fondelli, o almeno farlo arrivare a fare delle figuracce epocali. Si voleva godere l’antipasto prima di passare a pianificare, con calma, una vendetta più elaborata e letale. Per modo di dire (forse).

Sempre guardandolo in faccia rispose alla sua domanda con un altro sorriso, leggermente più diabolico:« Non credo di averti mai visto prima, ma forse frequentavamo le stesse persone, magari conosci qualche mia amica.» ipotizzò facendo finta di farlo casualmente. « Non sono della città, abito nell’entroterra, ma frequentavo le superiori qui.» spiegò.

Lui parve pensarci. Fece spallucce e chiese:«Che scuola hai frequentato?»

«Liceo Classico, classe 1990!» le veniva da ridere quindi si voltò per fargli quel caffè macchiato e celare il suo divertimento.

Lui parve stupito:«Davvero? Anche io ho frequentato lì, ero una classe avanti alla tua ma ho abbandonato in quarta.» fece una pausa:« Forse ti ho vista per i corridoi… magari eri in classe con una certa Isotta Federici.» buttò lì.

Alla ragazza si fermò il cuore, ma non le fece così male. Era solo stupore. Cosa significava che dopo più di sette anni l’unica che si ricordava fosse lei? Aveva una decina di amiche di lui in classe, avrebbe potuto nominare chiunque del suo stesso anno, ma aveva scelto lei. Umiliarla era stato così spassoso da non farla dimenticare dopo così tanti anni? Con cento domande a ronzarle in testa rispose:«Oh… lei, sì, eravamo in classe assieme.» Bloccò il flusso del caffè, aggiunse un goccio di latte e si costrinse a voltarsi per darglielo con il sorriso in volto. «Ecco qui il caffè macchiato.» fece per abbandonare il bancone e salutarlo svelta come un fulmine, quasi pentita di averlo ingannato, ma Simona la intercettò con lo sguardo e scuotendo la testa le impedì di muoversi dal suo posto.

Sbuffò irritata, voleva tornare al suo vero lavoro, non poteva stare senza far nulla. Non la infastidiva lui o ciò che avrebbe potuto dire contro di lei, aveva il coltello dalla parte del manico, più il gioco durava e più la figuraccia sarebbe stata grande e soddisfacente, ma poteva farlo anche pulendo i tavoli che si svuotavano.

A malincuore tornò al bancone dove lui, completamente ignaro degli sguardi che si erano lanciate le due, girava il cucchiaino nella tazzina con attenzione eccessiva, probabilmente cercando di ricordare il suo volto. Quando alzò lo sguardo per ringraziarla fece un sorriso che lei non seppe interpretare :«Grazie mille», disse un po’ in ritardo alzando la tazzina verso di lei in un breve gesto di omaggio, era bravo a fare il gentile, un aspetto di lui che non conosceva e di cui dubitava la reale esistenza. Forse se la stava solo facendo buona.

«E’ il mio lavoro.» non lo disse con cattiveria, lo sottolineò con una smorfia ironica. Si guardò intorno in cerca di qualcosa da fare mentre intratteneva il suo carceriere. Trovò qualche macchia e cominciò a sfregare, sicura che la conversazione si fosse estinta, che non cercasse più di chiederle di Isotta… cioè di sé stessa.

Si sbagliava.

« Ma dimmi un po’… che fine ha fatto Isotta? E’ ancora stressante e orrenda come la ricordo o è migliorata?» sorseggiò dalla tazzina con le sopracciglia alzate in modo scettico.

La ragazza fu ad un passo dal rivelare la sua identità e riempirlo di bastonate, ma voleva divertirsi ancora un po’, aveva un vantaggio su di lui per la prima volta e non intendeva perderlo (come non intendeva perdere il lavoro e la libertà):«E’ peggiorata...» disse insofferente.« Più invecchia e più diventa assillante. La frequento ancora, ma prima di vederla devo prepararmi psicologicamente per affrontarla.» Solo verso se stessi si può essere brutali.

«Mi dispiace per te che devi ancora sorbirtela, mollala e trovati nuovi amici.» Che maturità, che grandi consigli.

Fece una mezza risata mentre sistemava qualcosa di sporco nel cestino della lavastoviglie.«Fosse facile. La conosco da quando sono nata, mi ci sono affezionata in un certo senso. Sai… come ad un gatto.»

Lui rise divertito:«Buona questa!» compiaciuto dalla battuta tagliente.

« Comunque a te che ha fatto di così tanto grave? Ai tempi della scuola non era così popolare da essere ricordata per il suo caratteraccio.» sondò lei.

Lui prese un altro sorso di caffè, poi, quasi con entusiasmo, cominciò infamare il soggetto del loro discorso:«Mi è stata dietro per due anni e mezzo, mi ha perseguitato letteralmente! Mi seguiva ovunque, una piattola. Mi ha regalato un pallone da basket di qualità, quelli indistruttibili e anche una maglia autografata da Micheal Jordan, non so dove abbia trovato tutti quei soldi per poterselo permettere è una stracciona. » era concitato, folle. « Fosse stata carina avrei anche potuto farci un pensierino, ma è uno scorfano inguardabile.» disse senza pietà.

Non mentiva, lei gli aveva fatto sul serio quei regali, la maglia aveva persino il certificato di autenticità, aveva speso più di duecento euro per aggiudicarsela ad un’asta di e-Bay, e quel pallone di qualità era un regalo per il suo compleanno, centocinquanta euro bruciati in trenta secondi in un negozio di sport per quel coglione che le stava davanti. Forse avrebbe dovuto chiedergli un risarcimento. Aveva attinto a piene mani dalle bustarelle che le nonne le avevano dato a Natale e compleanno, tutto per permettersi quei regali che lui disprezzava. Rabbrividì pensando a quanto fosse stata idiota a ragionare in quel modo e a sprecare tutto quel denaro. E lui l’aveva preso come un regalo di un’ossessionata, non aveva notato la sua accortezza per le sue passioni e il desiderio di farlo felice. Si rigirò una tazzina in mano chiedendosi se fosse il caso di scagliargliela in testa.

Isotta comunque incassò senza proferire verbo e fece finta di cadere dalle nuvole:«Ooooh tu sei Alex! Quello di cui parlava in continuazione… il giocatore di basket chiamato da una squadra americana. Già… ora si che mi ricordo.» era per quello che aveva abbandonato la scuola, tutta la scolaresca lo sapeva, in un’astuta mossa si preoccupò di non sottolineare che era stato in panchina per sette stagioni, per di più in una squadra che raschiava il fondo della classifica americana. Doveva tenere le fila del gioco, lo adulò e lui parve compiaciuto, quindi aggiunse anche lei la sua dose di insulti a sé stessa, incalzando e ridendo.« Ora è tutto chiaro! Comunque, sì… Isotta era davvero insopportabile e inguardabile nella sua penosità. Senza offesa per te ma non si reggeva più ad un certo punto, parlava di te continuamente.»

Finì il caffè:«Non ti preoccupare, posso capirti.» rise di gusto «Ma ha continuato anche quando me ne sono andato?» fece una pausa e poi chiarì:«A parlare di me intendo.» c’era una vaga speranza nella sua voce, come se volesse la conferma che fosse rimasto di argomento, famoso, anche dopo il suo abbandono.

Lei alzò le spalle noncurante, questa non gliel’avrebbe data vinta:«Mha… no, non mi pare. E’ passato parecchio tempo. Al terzo anno l’ho sempre vista sui libri, voleva entrare alla Bocconi con una borsa di studio, non usciva mai e non parlava mai di ragazzi. Per un momento ho pensato che invece della Bocconi aspirasse al convento, o fosse diventata lesbica. Ma poi alla fine dell’ultimo anno ha spostato la mira su un altro povero sfortunato. Sono stati insieme quattro anni e mezzo, poi lui l’ha mollata ed è sparito nel nulla, giusto qualche mese fa è successo.» mandò giù un grosso nodo in gola, quello che gli stava dicendo era la verità. Si era lasciata da un mese e mezzo con Daniele, era letteralmente sparito dopo l’annuncio di una grande difficoltà, ne aveva sofferto terribilmente ma era riuscita a procedere, a farsi forza. Aveva lasciato l’Università per cui aveva lavorato duramente, lo aveva fatto al suo ultimo anno di Magistrale in Semiotica e si era ritrovata a mendicare un lavoro con in mano solo una Laurea Triennale in Scienze della Comunicazione, praticamente inutile pur essendo stata conseguita in una prestigiosa Università.

«E’ un vizio per lei far fuggire i ragazzi che le piacciono?»chiese ironico.

Isotta si voltò per far finta di pulire la macchina del caffè, sentì l’elsa di un pugnale invisibile farsi strada nel suo cuore, trattenne a stento un singhiozzo e un ceffone, purtroppo si era spinta troppo in là in quel gioco di distruzione e quello era il suo tallone d’Achille:« Se vizio lo si vuol chiamare…» fece difficoltà a far uscire quelle parole mentre si imponeva di mantenere la calma. Si riprese quasi subito. Non poteva di certo fargliene una colpa, era un idiota e non sapeva la verità.

Il bar si stava svuotando, i clienti la salutavano chiamandola da lontano con entusiasmo e lei ricambiava con grandi sorrisi e agitando le mani, alcuni andavano a pagare al bancone solo per scambiare qualche parola in più con lei, prima di darsi appuntamento alla mattina successiva. Alex la guardava muoversi sicura avanti ed indietro, parlare amorevolmente con la gente e rivolgere una carezza ai bambini che la chiamavano “tata”, scambiare qualche battuta con i ragazzi e le ragazze, parlare dei suoi programmi della serata – c’era un film interessante in tv che non si voleva perdere- ricordare l’evento della sera dopo proprio lì. Il tempo scorreva, il cielo imbruniva e il turno della ragazza era finito da più di un ora, ma lei era ancora lì a far finta che non lo fosse. Alex non la disturbò fino a quando nel locale rimasero poche persone, immerse nei loro aperitivi e nella loro conversazione, e tre delle altre cameriere. Isotta stava sistemando dei piatti nel cestello della lavastoviglie, la treccia le scivolava lungo il collo e danzava al ritmo dei suoi movimenti, quasi si dimenticò di essere attentamente scrutata.

«I clienti ti adorano… » disse lui di punto in bianco, cercando di farle un complimento mentre una nuova canzone passava in sottofondo.

«E’ buffo, sai?» cominciò a pulire il lavandino con energia. « In molti non mi sopportavano qualche tempo fa. Ora sono quella che mandano quando il figlio del proprietario viene a prendere un caffè qui… dicono che faccio fare bella figura allo staff. »

Lui non colse la sua pesante critica a quel modus operandi leggibile tra le righe del discorso. «Hanno ragione! Sei una persona deliziosa con tutti, ci sai fare con le persone…» disse sorridendole senza che lei lo vedesse, era troppo occupata a tenere il suo volto ben celato. Dopo qualche secondo disse ancora:«Per quanto mi stia sforzando non riesco a ricordarmi di te, che peccato.»

Alzò le spalle «Nessuno che sia stato in una classe diversa dalla mia può ricordarsi di me, neanche io ero così popolare alle superiori.» disse digrignando i denti per pulire una macchia piuttosto ostinata, ma non solo per quello. «Comunque sono gentile perché non parto prevenuta con la gente, è una dote naturale.» una frecciatina. Pensò di meritarsi un po’ di complimenti dopo essersi insultata per quasi tutta la conversazione. «Con chi mi piace è sempre tutto più facile.»

Alex si sporse di più sul bancone fino ad arrivarle ad un palmo dalla faccia:«Ed io ti piaccio? » chiese languido « Con me sei stata deliziosa.» sottolineò.

Sentirlo così vicino la fece sobbalzare. Per un momento Isotta ebbe paura che l’afferrasse per la camicetta per tirarla verso di lui. Fortunatamente non fu così sfacciato anche nei modi. La sua faccia da schiaffi, ma ancora terribilmente bella nonostante il pessimo carattere che nascondeva, rimase protesa verso di lei in attesa di una risposta.
Ostinatamente non alzò il volto ed eluse la domanda:«Mh… Devo andare a pulire i tavolini e a concludere il mio turno.» un sorriso tirato, in gran fretta radunò l’occorrente e sgusciò via da lì, ma lui la intercettò prima che potesse raggiungere il primo tavolino. Intuì dall’espressione, quando gli si parò davanti, che era quasi deluso che non gli avesse risposto con un accorato ed entusiasta “sei magnifico” e non si fosse prostrata ai suoi piedi nuda ed eccitata. Era facilissimo leggerlo. Che narcisista!

Anche se non avrebbe potuto dargli torto, -fisicamente era cambiato molto, alto parecchi centimetri più di lei, la sovrastava con il suo corpo scolpito da tutti gli allenamenti che aveva subito, i suoi occhi scuri erano vivaci e i capelli ricci e bruni ben sistemati, i tratti adulti avevano completamente preso il sopravvento su quelli da ragazzino che aveva conosciuto, portava anche la barba- non gli diede la soddisfazione di uno sguardo di apprezzamento.

«Posso almeno invitarti ad un’uscita stasera? Dopo il turno?» le chiese quasi supplichevole.

Era cambiato dai tempi delle superiori, a sedici anni era considerato uno sfigato su tutti i fronti, uno che da “grande” voleva fare il giocatore di basket e che l’unica nota di popolarità l’aveva acquisita a spese di lei. Era sempre stato privo di amici, nessuna ragazza se lo era mai filato oltre Isotta. Ma in quel momento la stava corteggiando come un adulto, la invitava ad uscire, non aveva tentato approcci molesti e impacciati, sapeva usare bene il suono della sua voce, alternando sussurri e tonalità roche, e il suo corpo, le braccia larghe come ad accoglierla in una stretta.

La mano di lei scattò alla fronte, con il mignolo arpionò un ciuffo impertinente e lo spostò in modo che non le entrasse nell’occhio, ma quel gesto di stizza non era solamente per il povero ciuffo rosso, ma per tutta la situazione. Aveva compreso il dramma di quella richiesta, un dramma di cui lei era la vittima. Quel giochetto cominciava a darle sui nervi, lo aveva iniziato solo per umiliarlo. Rise divertita, nascondendo il nervosismo:«Non sai nemmeno il mio nome.» nove anni prima avrebbe ucciso per uscire con lui.

Alex fece un gesto che sottolineava la sua sbadataggine: «Si rimedia in un istante. Ricominciamo da lì…» le porse la mano per farsela stringere e disse:«Piacere, io sono Alex, tu?»

Lei fece per stringere la sua mano ma poi si ritirò al contatto:«Ho la mano bagnata…» temporeggiò e poi disse sospirando:«Ci conosciamo Alex, guardami bene.» guardava altrove ma poi si decise ad affrontare il suo sguardo.

Lui rimase interdetto, poi sorrise:« Stai al gioco, sai che non mi ricordo di te anche se abbiamo fatto la stessa scuola.» se si fosse spazientito a nessuno fu dato saperlo. Continuava a ridere.

Isotta puntò una mano ai fianchi lasciando un alone bagnato sulla sua camicetta bianca:«Ti ricordi di me, azzarderei che sono l’unica di cui ti ricordi tra tutte le ragazze della scuola. Hai parlato di me tutto il tempo.» fece una pausa ad effetto godendosi la sua espressione confusa:« Sono Isotta Federici, idiota.»

Non sembrò crederci: «Eddai, non scherzare.» ma cominciò a scrutarla meglio.
Fece un risolino sprezzante:«Sei libero di non crederci… ma certo non mi stupisce che tu non abbia collegato che il nome “Sotty”- con cui mi hanno chiamato clienti e colleghe sin da quando sei arrivato e anche da prima- con il diminutivo di Isotta, o che tu non ti sia disturbato a leggere questo.» si indicò la cucitura scarlatta sulla camicia che disegnava il suo nome, in bella vista sul suo seno. « Certo, sempre che tu sappia leggere. »spietata, come era giusto che fosse. Se ne ricordava solo in quel momento della scritta e fu una fortuna, se prima avesse tentato di nasconderla avrebbe attirato la sua attenzione lì. La distrazione le aveva permesso di far durare la presa in giro più tempo e anche a rendere il tutto più teatrale. Non era arrabbiata, il dolore per certi argomenti toccati era del tutto sovrastato dalla soddisfazione, in realtà si stava godendo le diverse sfumature che aveva assunto il viso di lui, rosso, viola, bianco, bordeaux. Uno spasso. «Ora scusami ma devo tornare al lavoro, ho perso anche troppo tempo dietro te…» e forse non si riferiva solo a quella giornata.

Lo lasciò piantato in mezzo alla sala a tentare di convincersi che fosse tutto un brutto sogno.

Mentre passava lo straccio sul piano di tre o quattro tavolini gongolava di soddisfazione, era stato appagante vederlo umiliato. Avrebbe voluto fare un monologo più lungo di quello a cui aveva effettivamente dato voce, ma si accontentava anche di quello che poi era riuscita a dire. Bastava per il suo ego modesto.

Guardò l’orologio all’ennesimo brontolio dello stomaco e parve finalmente accorgersi degli straordinari che stava facendo. Ripose tutto dietro il bancone, passando il testimone alla sua collega che salutò con un bacio in guancia. Senza degnare di uno sguardo il ragazzo, che la stava ancora osservando attonito da punto in cui era pochi minuti prima, si diresse verso lo sgabuzzino con su scritto “riservato”, si sfilò il grembiule e sciolse la treccia lasciando che l’ondata ramata le accarezzasse liberamente la schiena.

Uscì da lì con la borsa stretta alla mano, rovistandoci all’interno alla ricerca del cellulare. Una delle colleghe la fermò:«Te ne vai? Hai firmato il foglio degli straordinari?»

«Sì, è nello sganz.» così chiamavano il loro spogliatoio.«Avrei voluto scriverci: “Per colpa di quell’idiota di tuo figlio”, ma gliel’ho risparmiata.» fece una mezza risata.

Lei rise e guardò Alex ancora piantato lì:«Ma che gli hai detto?» chiese indicando il ragazzo con la testa, discretamente. La stava ancora fissando imbambolato e aveva attirato parecchia attenzione.

Lei alzò le spalle:«Niente che non possa “schiacciare”.» disse alludendo alla carriera sportiva del giovane. Gli scoccò uno sguardo impudente e un sorriso divertito che lui colse.

«Ok.» era perplessa.«Domani ricordati il vestito e le scarpe, per la serata.»

« Devo proprio portare i tacchi, Giò?» si lamentò.

«Temo di sì. Ah, siamo dispensate dal turno diurno per due giorni, il capo voleva che te lo dicessi.» disse lei con costernazione e divertimento mischiate sul volto a cuore. «Poi mi racconterai anche del figlio di papà… sono curiosa.» sussurrò al suo orecchio.

«Vedremo.» enigmatica. Diede anche a lei un bacio sulla guancia e si salutarono.

Per uscire dal Green Sand dovette passare accanto ad Alex e, per fargli vedere quanto non si sentisse in colpa per la trappola che gli aveva tratto, lo salutò in modo squillante:«Buona serata, Air Jordan*! » rise sfottendolo con il soprannome dato al più grande giocatore di tutti i tempi.

Uscì spingendo la porta e camminando a passo lesto verso il parcheggio.

Lui aveva avuto la decenza di non seguirla.

Neanche 29 ore dopo…

Il Green Sand era stipato di gente quella sera estiva, “Il Venerdì del Corsaro”, che sanciva simbolicamente la fine della movida estiva, aveva richiamato qualche centinaia di ragazzi e momentaneamente modificato la disposizione dell’arredamento del locale. Qualche tavolino era stato lasciato all’esterno, ma all’interno lo spazio era completamente sgombro di arredi. La postazione del DJ macinava canzoni disco da qualche ora, la gente ballava senza sosta sotto il ritmo incessante che proveniva dalle quattro grandi casse disposte agli angoli della sala, c’erano anche un paio di fotografi che si aggiravano tra la folla. Le cameriere erano all’opera dietro il bancone servendo cocktail senza tregua, si facevano urlare le ordinazioni all’orecchio e con un sorriso eseguivano solerti.

Tutto dell’atmosfera abituale era stato spazzato via. Le otto ragazze che erano state chiamate a lavorare quella sera, di solito impeccabilmente sobrie, erano costrette in abiti da “piratesse” sexy, per attirare una moltitudine di uomini. Avevano tutte una bandana scarlatta a cingere la testa, i capelli, che si erano acconciate a vicenda, apparivano arruffati come se fossero preda dei venti del ponte di una nave, una benda nera sull’occhio sinistro e qualche accessorio di bigiotteria, colorata d’oro, intorno a polsi, collo e che pendeva dalle orecchie, tintinnava indisturbato; erano anche truccate pesantemente, la matita nera scuriva quasi completamente il contorno occhi e un rossetto rosso brillava sulle loro labbra. Il vestito fornito era decisamente a tema: un corpetto di cuoio nero, con delle spalline spesse, soffocava i busti ed alzava le tette, era strizzato sopra una camicia leggera, morbida e candida con i bordi di merletto, lasciava scoperte le spalle e una buona parte di petto, una cintura spessa, con la borchia in vinile pitturata d’oro, era stretta intorno alla vita; avevano dei leggings di pelle nera molto aderenti, un lungo tessuto di varie sfumature rosso scuro, volutamente stropicciato, sfilacciato e rattoppato, era stato mal cucito ad arte all’elastico di quegli pseudo pantaloni, inoltre avevano stivali coordinai al personaggio, neri con fibbie e un tacco di qualche manciata di centimetri.

Isotta era nel plotone allineato dietro al bancone, sommersa da richieste di ogni tipo. Riempiva di liquidi di diversi colori i bicchieri e poi li allungava alla gente stipata lì davanti. Per quella serata aveva avuto la giornata libera, come le altre sue colleghe giovani, deludendo parecchi suoi “fan”, ma, nonostante il riposo, alle due del mattino, dopo cinque ore di incessanti movimenti, il peso di quel lavoro sfiancante si faceva sentire, irradiandosi dai talloni e infuocando ogni giuntura del suo corpo. A lei non piacevano quelle serate, neanche quando non era lei a dover lavorare. Odiava la confusione, i corpi ammassati, la musica scialba che passavano. Era stata in discoteca cinque o sei volte nella sua vita, e aveva sofferto le pene dell’inferno ogni volta. Preferiva di gran lunga l’ambiente confortante della sua minuscola casetta e una montagna di film da vedere o di libri da leggere. Le sue amiche non l’avevano mai compresa, ma lei si sentiva a suo agio, davanti agli altri, con la sua anormalità.

La gente non accennava a volersene andare anche a quell’ora tarda, continuavano a chiedere alcolici e lei stava per tirare fuori l’espressione contrariata che i suoi clienti del giorno non avrebbero mai visto. Ma anche in quel turno, purtroppo per lei, doveva mantenere il suo ottimismo e il suo sorriso. Era un’impresa.

Qualche minuto prima dello scoccare delle tre, la folla cominciò finalmente a diradarsi e a confluire verso l’esterno. La musica persisteva, i fotografi continuavano a scattare foto e qualche volta passavano al banco dalle ragazze che, a richiesta, posavano abbracciate per qualche scatto simpatico, ostentando sorrisi aperti e gioiosi o linguacce impertinenti. Alle tre e un quarto la gente che chiedeva cocktail era gestibile anche per cinque persone, quindi le ragazze cominciarono ad accordarsi per dei turni di un quarto d’ora ciascuno, in modo da assicurare qualche tregua e proseguire lentamente fino all’esaurirsi dei clienti e della serata, probabilmente alle prime luci dell’alba.

«Stacca tu, Isotta, sarebbe meglio che non ti sforzassi più di tanto.» le disse Grazia all’orecchio. L’aveva vista fin troppo pallida e affaticata.

«Posso reggere ancora.» disse stringendo i denti. Era pagata per lavorare.

«Non è necessario, ce la facciamo. Vai pure a prenderti una tregua e torna solo quando te la senti. Il capo non può capire, ma noi sì. Teniamo alla tua salute e un quarto d’ora in più per ciascuna non ci pesa. » le accarezzò la schiena con dolcezza.«Il peggio è passato. E’ già troppo che tu sia venuta e forse è meglio che tu vada a casa del tutto, ripensandoci.»

Si sentiva stanca, accaldata e spossata, con il fiato corto per quel maledetto bustino e tentata da quel quarto d’ora lontano da lì ,quindi a malincuore ammise: «Forse hai ragione, ho bisogno di una pausa. Esco a prendere una boccata d’aria, mi ci vorrà un attimo.» non voleva andarsene e lasciarle sole per più tempo del concordato, in mezzo a quel delirio non ancora esaurito.

«Dai retta a me, torna a casa. Non è essenziale che tu rimanga. Ti copriamo noi, anche le altre sono d’accordo.» la spinse via dalla sua postazione.

«Torno fra poco…»promise lei.

Grazia scosse la testa contrariata, ma ricevette come risposta una linguaccia impertinente prima che sparisse all’esterno.

C’era parecchia gente che ciondolava nel cortile del locale, la maggior parte era ubriaca, urlavano oscenità alla buia notte, alcuni vomitavano tra i cespugli o nei cassonetti, per poi accasciarsi dove capitava.

“Che spettacolo desolante.” Pensò Isotta sgattaiolando via da lì contrariata e con la mente rivolta al pensiero di trovare un punto appartato, lontano dalla confusione. Dovette spingersi un po’ in là alla ricerca una panchina nascosta tra alcune fronde, un posto che nessuno calcolava mai; quando finalmente la trovò, andando a tentoni nel buio, si sedette di peso e i suoi muscoli urlarono la loro approvazione. Quasi sorrise con sollievo.

Si tolse la benda dall’occhio che venne piacevolmente investito da una brezza rinvigorente, mentre cercava di riabituarsi alla libertà, le parti del suo corpo rimaste scoperte non riuscivano a saggiare quella lieve freschezza. Si guardò intorno circospetta e, appurato che non ci fosse nessuno, slacciò la cintura e portò le braccia dietro la schiena cominciando ad allentare i nastri del bustino, i bracciali tintinnavano mentre seguivano i movimenti del polso. Non appena il nodo fu sciolto e cominciarono a cedere liberamente i confini rigidi della stoffa, l’aria circolò più fluida nei suoi polmoni dandole la piacevole sensazione di essere libera, come se le fosse stato appena tolto un masso non troppo pesante dallo sterno.

Era ancora occupata con quel pezzo di cuoio rigido quando una voce eruppe dal buio e la fece sobbalzare.

«Posso darti una mano io con quello.» malizioso e inopportuno, ma non era la voce di un ubriaco.

Isotta si alzò di scatto portandosi le mani a riparare il petto, come se fosse nuda.«Chi è?» chiese agitata alla notte, ripassando mentalmente nozioni di autodifesa.

Da dietro una pianta apparve l’ultima persona che avrebbe voluto vedere in quel momento.
« Alex! Ma che diavolo…» non sapeva che dire, era totalmente impreparata a quell’incontro e lo spavento non se ne era ancora andato. Dopo la visita del giorno prima non si era degnata di pensarlo, se l’era imposto come dettame morale che non ammetteva di essere violato. E ci era riuscita benissimo. «Mi hai seguito?» era più un’accusa indignata che una richiesta innocente.

«Volevo parlarti, Isotta.» tentò «Dentro era impossibile farlo.» spiegò indicando con il pollice la direzione del locale.

Trovarlo appostato lì, che le rivolgeva la parola nonostante la presa in giro del giorno prima, le fermò il cuore. La sua vendetta avrebbe dovuto sfociare nel nulla, anche se fosse stata costretta a vederlo quell’estate e l’estate successiva, o tutta la vita. Non voleva iniziare un altro rapporto con lui, anche se completamente diverso da quello che avevano avuto in passato, non voleva che tra loro ci fosse di più di un dialogo del tipo “ ‘Che cosa prendi?’ ‘Un caffè macchiato, grazie’”. Non era uno dei clienti che adorava tanto, non l’aveva mai apprezzata da ragazzino ed era sicura che non l’avrebbe apprezzata neanche in quel momento, ciò che aveva detto su di lei il giorno prima ne era la prova. Non poteva avere ancora effetto sulla sua vita dopo tanto tempo e tante sofferenze, non poteva dopo che così faticosamente l’aveva dimenticato.

«Io devo tornare al lavoro.» si fece coraggio alla prospettiva di dover affrontare ancora la confusione e la fatica della festa, ma era senz’altro meglio di rimanere a sentire le sue patetiche scuse. Riportò le mani nei lacci del bustino e, con difficoltà, a malincuore, riuscì a riannodarsi tutto sotto il suo sguardo indecifrabile. Si chiuse la cintura in vita e mosse qualche passo, i piedi protestarono, ma lei ignorò il dolore in modo temerario, senza tradirlo con le espressioni del viso.

«Stai dimenticando questa.» disse lui. Lei si voltò a guardarlo controvoglia. In mano aveva la benda nera che poco prima aveva abbandonato nel sedile della panchina. Sbuffando la prese ma lui le bloccò il braccio tempestivamente, tirandola verso di sé.

«Lasciami». Sibilò tra i denti, rabbiosa.

«Solo se accetti di ascoltarmi.» la ricattò lui con un sorriso amabile.

Avevano il viso a pochi centimetri:«E se invece decidessi di denunciarti per molestie? Il tuo paparino come la prenderebbe? Non mi sembra di averlo visto molto affabile le tre volte che si è degnato di incontrarci.» l’astio non intrideva solo le sue parole, anche il suo corpo ne tremava sotto l’effetto.

«Non credo che gli importi.»alzò le spalle lui, noncurante.

«Ma ad un bel gruppo di poliziotti sì.» lo sfidò lei.

Alex lasciò la presa sul suo polso, ma non sembrava che lo facesse per la minaccia espressa da Isotta. Aveva ancora quell’espressione da strafottente dipinta con maestria sul suo bel volto.«Mi hai ingannato, credo che tu mi debba almeno cinque minuti.»

Lei rise sprezzante:«Ah davvero? Io ti devo qualcosa? Allora ricordo veramente male. Non eri tu il coglione che mi ha insultato, preso in giro, e fatto in modo che la tua classe e mia classe mi uccidessero di prese in giro quando ero solo una quattordicenne con una cotta? Non eri tu, ieri, che mi hai insultato ancora con una che credevi di non conoscere?» era diventata tutta rossa dalla furia. In un attimo di follia ricordò che due sere prima si era vista Frozen con i nipoti, in quel momento avrebbe voluto il potere di Elsa per farlo diventare un blocco di ghiaccio e poi mandarlo in mille pezzi.

Ad un tratto parve calmarsi. Inspirò ed espirò tre o quattro volte, capì che non ne valeva la pena di arrabbiarsi, di litigare, non era ciò che si era ripromessa quando l’aveva ingannato. Non poteva fare nulla per cambiarlo, e comunque non ci sarebbe riuscita, anche se l’aveva ferita inconsapevolmente il giorno prima quelle parole erano legate ad un passato con cui non avevano niente a che fare in quel momento. Non doveva provar rancore. Gli rivolse un sorriso pacifico, per rassicurarlo che il momento di furia cieca si era estinto e disse: «Io non ti devo nulla, Alex. Ieri mi sono solo ripresa un pezzo della mia dignità, con sei anni di ritardo. Avrei potuto fare molto peggio, ma credo che la tua richiesta di uscire mi abbia soddisfatto abbastanza, la ruota ha girato anche per me, finalmente.» girò i tacchi e fece per andarsene.

Ma lui le urlò dietro in un ultimo tentativo:«E se volessi parlarti per chiederti scusa?»

Si voltò ancora verso di lui e disse con le braccia allargate, in un gesto di rassegnazione e ovvietà:«Le accetto, se è questo che vuoi. Ma non ti illudere che io non sappia che me le stai chiedendo solo perché ti sei accorto che ho due tette e un culo che ti aggradano. Solo che… delle scuse per motivi sbagliati son sempre delle scuse, quindi mi accontento.» fece l’occhiolino e alzò le spalle sorridendo «Ci si vede in giro, sempre che non convincerai tuo padre a licenziarmi perché non te l’ho data.» lo salutò come se avesse un cappello sulla testa.«Alla via così!» rise e riprese la strada per il locale.

Il Green Sand non era più pullulante di gente, solo modestamente affollato, le colleghe di Isotta erano dietro il bancone che chiacchieravano a voce alta, non avevano ordini da eseguire in quel momento. Quando la videro raggiungere la sua postazione le loro espressioni erano contrariate e severe.

«Che ci fai qui? Ti credevamo a casa a riposarti.» disse Elena, la più giovane di tutte, la sua fronte spaziosa era aggrottata sotto la bandana. Si era tolta anche lei la benda,i suoi occhi azzurro cielo erano allo scoperto, completamente contornati e accentuati da un ombretto nero come la pece.

«Ero andata solo a prendere una boccata d’aria fresca. Resto a darvi una mano.» sorrise lei, non ammetteva repliche e si mise subito a ripulire qua e là, sovrappensiero. Non era sconvolta dalla chiacchierata avuta fuori da lì con Alex, era sicura che fosse andato già a cercarsene un’altra, dopo averlo rassicurato che avesse accettato le sue scuse. Era per quello che le voleva parlare, per assicurarsi che non stesse antipatico a qualcuno, che rimanesse il più affabile e il più figo di tutti.

Non le importava. Anche se quella fitta…

Un urlo sconvolto fece voltare parecchie teste:«Isotta!» Elena l’affiancò preoccupatissima.

Lei si volse verso la collega con sguardo interrogativo:«Che c’è?» non si spiegava il perché di tutta quella agitazione. Seguì lo sguardo di Elena verso il basso senza capire. Rimase stupita nel vedere che dal palmo della sua stessa mano, chiusa a pugno su qualcosa, stava sgorgando del sangue scurissimo. La aprì per vedere la causa di quel taglio e solo allora si accorse che aveva stretto, nella rabbia, un bicchiere di vetro in frantumi raccolto poco prima. Come poteva non essersi accorta di nulla? Come poteva non aver sentito dolore? Anche quel momento le fitte della carne viva e pulsante avrebbero dovuto farle male, in teoria, ma non sentiva nulla.

Si era completamente estraniata dal mondo mentre puliva e sistemava, pensava alla rabbia che provava ancora, dopo così tanto tempo, nei confronti di Alex, pensava a come aveva tradito i suoi propositi. Pensava che forse un po’ le importava ancora.

Alcuni clienti si ammassarono sul bancone per vedere, Grazia tentò di scacciarli mentre sciacquava la ferita dell’amica con dell’acqua fresca e ci avvolgeva intorno un asciugamano pulito. Le altre intanto pulivano l’alluminio dal liquido rosso cremisi.
«Sotty , dobbiamo portarti all’ospedale, ci vogliono i punti.» disse Grazia esaminando la ferita.

«Figurati, non è niente. Fra poco smetterà di sanguinare, abbiamo una cassetta delle emergenze nello sganz, dovrebbero esserci delle bende.» imbambolata e noncurante guardava la stoffa avvolgerle la mano.

Intanto la notizia che una cameriera si fosse fatta male era rimbalzata di persona in persona, strisciando fra ogni ospite, sparpagliandosi anche all’esterno del locale.

Alex era tornato al Green Sand con la coda tra le gambe, un po’ afflitto per quel confronto mancato, non era entrato per non scatenare una litigata che non voleva affrontare, era deciso a godersi quel che rimaneva della nottata con i suoi amici di sempre. Se ne stava appoggiato ad un muretto con una birra in mano che una delle ragazze gli aveva ceduto per fargliela finire, non partecipava attivamente alla conversazione, la mente troppo occupata da altri pensieri, ma qualche volta una battuta attirava il suo orecchio e lo faceva ridere di gusto.

Un amico si era avvicinato a lui e tranquillamente aveva detto:«Alla faccia del “Venerdì del Corsaro”… è realistica quest’anno, c’è pure sangue vero.» era già un po’ brillo ma continuava a bere sorsate dal bicchiere che aveva in mano, contenente un liquido rosso acceso.

Alex aveva riso:«Che vuol dire sangue vero?» credeva scherzasse.

«Una delle sexy cameriere di tuo padre si è… ehm… squarciata la mano.» aveva dovuto cercare nella sua mente offuscata dall’alcool il termine adatto.

Non lo aveva ancora preso sul serio:«Non dirmi cazzate…» e tornò a dare attenzione agli altri, mentre quello alzava le spalle noncurante e si scolava il bicchiere.

Fu un piccolo trambusto ad attirare lo sguardo di Alex , ma si voltò senza particolari paure e aspettative.

Isotta camminava velocemente con Elena, avevano un campanello di ragazzi attorno che parlavano concitati, qualcuno anche mezzo nauseato. Le due cercavano di farsi largo tra la folla guardando qualcosa nelle loro mani , qualcosa che non identificò subito. Solo aguzzando lo sguardo, dalla sua distanza, si rese conto che il suo amico non gli aveva detto una bugia: un asciugamano, in origine candido, era inzuppato di sangue e avvolgeva la mano di Isotta, anche parte delle maniche della sua camicetta bianca erano sporche di grosse gocce cremisi intenso. Si lanciò verso di loro preoccupato e pallido come un cencio.

«Isotta… che è successo?» chiese allarmato.

Lei per tutta risposta si voltò dall’altra parte, costringendo anche la sua amica a farlo, dato che era appiccicata al suo braccio. Al sentire la voce di Alex, che era sicura si fingesse preoccupato, tutto il dolore che non aveva sentito precedentemente la investì e quasi rischiò di accasciarsi al suolo agonizzante.

Elena rispose al ragazzo:«Si è scordata di avere un pezzo di vetro in mano, la sto portando al Pronto Soccorso perché si faccia mettere dei punti.» spiegò. Infondo lui era il figlio del loro capo, doveva saperlo.

Isotta scoccò all’amica un’occhiata gelida, non voleva essere palesemente vulnerabile davanti a lui.

Alex intanto la prese per le spalle e rispose alla ragazza che l’aveva ragguagliato:«Torna pure dalle altre, ci penso io ad accompagnarla al Pronto Soccorso». Si offrì gentilmente, ma sembrò un ordine.

«NO!» ruggì Isotta quando lui avanzò la proposta.

Ma Elena si era già dileguata dopo aver consegnato la borsa di lei a lui. Isotta non lo sapeva ma, al di là della sua testa, i due si erano tacitamente accordati prima che lei potesse impedirlo. La mancanza di alternative la fece infuriare. Si scrollò via le sue mani dalle spalle e si piantò lì, con la gente intorno che la guardava come si guarda un pazzo: negli occhi un misto di paura e pena.

«Dai, andiamo.» disse lui tirando fuori dalle tasche le chiavi della macchina.

«Piuttosto muoio dissanguata.» puntò i piedi desiderando che sprofondassero nel cemento del piazzale.

Qualcuno ridacchiò tra la folla, mentre gli altri confabulavano tra loro sul perché la tanto amata Sotty ce l’avesse a morte con il figlio del proprietario. Le prime congetture furono espresse da labbra impastate in modo abbastanza udibile, ma entrambi le ignorarono.

Alex non se ne fece un problema:«Non mi lasci altra scelta.» Senza che lei potesse fermarlo la sollevò di peso e se la caricò sulle spalle.

«METTIMI GIU’!» Urlava lei, dando deboli cazzotti alla sua schiena, mentre lui salutava gli amici con una risata fragorosa e quelli gli rispondevano con dei fischi di approvazione. Si ribellò e divincolò sulla sua spalla, cercando di rovinare a terra e poi scappare. Quando si rese conto che era a quasi a due metri d’altezza dal suolo, abbandonò quella strategia e prese a minacciarlo di morte, di una morte lenta e dolorosa, ma neanche le sue parole servirono a farlo rinunciare.

Arrivarono alla macchina in pochi minuti e lui la scaricò, letteralmente, sul sedile del passeggero, scaraventando ai suoi piedi la borsa, fermò facilmente i suoi energici tentativi di fuga bloccandola con un braccio allo schienale del sedile. Assicurò l’asciugamano ben stretto sulla mano squarciata che si divincolava e che perdeva molto meno sangue, le sfilò via dalla testa la bandana e la usò per legarle i polsi insieme e ad assicurarla al poggia-mano dell’auto. «Lo faccio per te» Si era giustificato ridendo alla sua giusta protesta. Con quattro falcate raggiunse la portiera del lato del guidatore, in qualche secondo fu seduto al volante, mise in moto l’ auto prima che lei riuscisse a raccogliere le forze per urlare ancora o rompere qualcosa della sua macchina costosa.

Ma il sangue che aveva perso l’aveva spossata, e quindi Isotta non vide altra scelta se non abbandonarsi sul sedile e accettare il suo aiuto, anche se si sentiva prigioniera di un mentecatto. Optò per un mutismo ostinato e quasi infantile, con la testa appoggiata alle sue braccia sollevate e imprigionate.

Fu lui a rompere il silenzio per primo:«Perché dopo tanto tempo porti ancora rancore?Hai detto che accetti le mie scuse.» le chiese mentre filavano via silenziosi per le strade che conducevano al centro città.

«Non porto rancore…» sputò lei stizzita, per poi soffiarsi via dal viso un ciuffo impertinente. Sapeva di mentire.

Lui la guardò per qualche secondo, scettico , poi riportò lo sguardo sulla strada, quasi deserta, delle quattro del mattino.«Mettiamo che ti creda… che non porti rancore, intendo. Perché non volevi farti portare da me in ospedale?» chiese alla sua volta con un’espressione strafottente.« Ho dovuto legarti, per la miseria!» quasi rise ribadendo l’ovvio.

Isotta non rispose. Guardò ostinatamente al di là del vetro, la città ancora addormentata sfilava velocemente, il cielo cominciava già ad essere più chiaro vicino all’orizzonte. Si chiese come fosse finita in macchina con lui, diretta all’ospedale, legata come un salame, si chiese perché il destino fosse così crudele con lei da darle ancora quella prova da superare. Rimase così per un po’. Poi, senza farsi beccare, voltò la testa impercettibilmente verso di lui e, con la coda dell’occhio, lo fissò. Aveva ancora un sorrisino compiaciuto ad increspargli le labbra fine, teneva con sicurezza il volante ed era attento alla strada. Per il Venerdì del Corsaro non si era vestito a tema come lei, ovviamente non era dello staff, lui portava solo una maglietta bianca e attillata che si modellava perfettamente sui suoi pettorali definiti, e un paio di jeans scuri a seguire i guizzi muscolari delle sue gambe. Tornò a guardare fuori dal finestrino infastidita dalla sue stesse sensazioni. Le piaceva stare lì, con lui, e guardarlo. Non poteva accettarlo.

Arrivarono all’ospedale con un breve viaggio, la maggior parte del quale lo avevano passato in silenzio, lei incazzata come una belva con sé stessa e lui in attesa di una risposta che sapeva non sarebbe arrivata. Prima di scendere, dopo essersi fermati nel parcheggio, Alex si sporse verso di lei per sciogliere il nodo della bandana che la costringeva al soffitto della macchina. Isotta poté sentire distintamente il suo profumo attraversargli le narici. Era buono, sapeva di fresco e quasi la rilassò, per un piacevole secondo dimenticò la sua rabbia.

Quando fu libera aprì la portiera con la mano sana, dopo aver agganciato la borsa ai suoi piedi, mentre lui la raggiungeva dall’altra parte per aiutarla. Isotta scansò le mani di lui protese per aiutarla e scese velocemente dalla macchina. Troppo velocemente. Barcollò paurosamente, indebolita dalla stanchezza e da parecchio sangue in meno, e per istinto cercò il suo sostegno, che non venne a mancare. Alex l’accolse tra le sue braccia tempestivamente.

«Tutto ok?» chiese quando sembrò riprendere un po’ di vigore.

Lei annuì: «C…certo, o…ra puoi andare. Pos…sso andare da sola a farmi m…medicare. Grazie del passaggio…» tentò di spingerlo lontano da lei con una spallata, senza successo.

Lui scosse la testa e con slancio la prese in braccio, in modo molto più elegante di dieci minuti prima:«Certo… » disse ironico « almeno mi svieni sul marciapiede. Sono le quattro e un quarto del mattino e non ti troveranno prima delle sei.» disse con una nota ovvia nella voce, chiuse la macchina con il telecomandino e cominciò ad avviarsi verso l’ospedale.

Lei pensò che fosse inutile ribellarsi, senza contare la debolezza che non le permetteva neanche di protestare a voce.

Non incrociarono nessuno nel breve tragitto che li separava dall’ingresso del Pronto Soccorso, come lui aveva preannunciato, ma lei era comunque rigida e ansiosa nella sua stretta e, quando arrivarono alla meta, ebbe urgenza di scendere.

La sala d’aspetto era completamente deserta, sia di pazienti che di personale, ma non dovettero attendere neanche un minuto. Un’infermiera di passaggio nel corridoio si accorse di loro e li raggiunse a passo svelto. Li salutò chiedendo che cosa li portasse lì a quell’ora e Isotta sventolò la mano, avvolta dall’asciugamano zuppo, davanti agli occhi di lei. Adriana, così diceva il cartellino pinzato al taschino del camice bianco, s’ infilò gli occhiali che fino a quel momento avevano penzolato al suo collo cavallino attaccati ad una catenella colorata, le sfilò la mano dal tessuto sporco e guardò con attenzione il palmo per esaminare la ferita con un cipiglio critico.

«E’ un brutto taglio.» disse mordicchiandosi il labbro mentre lo guardava e tastava delicatamente.«Una dozzina di punti non te li risparmieremo di sicuro, signorina.» sorrise impertinente nel tentativo di far sparire l’espressione arcigna della ragazza. « Ora venga con me che lo ripuliamo prima che arrivi il dottore.»

Alex, che se ne era stato in disparte per tutto il processo, fece un passo avanti.«Potrebbe farle usare una sedia a rotelle? Era debole prima… » azzardò.

«Non ce n’è bisogno.» lo interruppe Isotta fulminea.

Ma anche l’infermiera aveva notato il viso pallido e il suo essere malferma. «Il suo fidanzato ha ragione, se non vuole la sedia a rotelle si appoggi a me.»

Nessuno ebbe il tempo di ribattere alla deduzione sinistra della donna, o nessuno volle ribattere. La ragazza fu portata via e Alex si sedette in sala d’aspetto con un sorriso soddisfatto, aspettando che riemergesse da quel corridoio lunghissimo, medicata alla perfezione.

Odiava aspettare ma quella mattina lo fece volentieri.

Quando, un’ora dopo, lei uscì sola, e lo trovò ad aspettarla con un succo di frutta in mano, quasi si sentì sollevata. Suo malgrado le scappò un sorriso e chiese:«Che ci fai ancora qui?» rovistando nella borsa con una sola mano alla ricerca del cellulare. Non si aspettava quella cortesia, era convinta che fosse uscito da lì in gran fretta e si scoprì grata per la sua galanteria.

Lui si alzò per affiancarla:«Ti offro la mia ospitalità e un succo di frutta.» disse porgendoglielo «In tv ho visto che lo danno dopo le donazioni di sangue. Tu lo avrai anche donato all’asciugamano e alle tubature del Green Sand, ma non è comunque più nel tuo corpo.» lo spiegò facendo un mezzo sorriso per poi sistemarsi la cintura impacciato.

Lei rise e, rinunciando a trovare il cellulare nel caos della sua borsa, afferrò la bottiglietta con il liquido arancio già aperta e con una cannuccia infilata dentro:«Grazie.» gli disse arrossendo e non avendo il coraggio di guardarlo.

«E’ alla pesca… ho notato che lo hai bevuto… prima… di iniziare il turno…» disse quasi in un sussurro intermittente, ammettendo con vergogna di averla attentamente osservata senza il suo permesso.

Non le dispiacque:«Sei un buon osservatore.» constatò con piacere.

Lui sorrise soddisfatto e rincuorato. Le premure che le aveva rivolto avevano forse permesso un legame?

Se ne stavano in silenzio a scrutarsi, cercando di capire l’uno i pensieri dell’altra. La mano di lei, fasciata stretta, era abbandonata lungo il fianco e finalmente Alex la notò. L’aveva ammirata con tanta intensità, fino a quel momento, da dimenticarsi dov’erano e perché c’erano. Si avvicinò prendendole la mano ferita tra le sue, Isotta glielo lasciò fare senza aver paura di quel contatto.

«Quanti punti ti hanno messo?» chiese e senza rendersi conto accarezzò la ruvida benda bianca.

«Quindici, il taglio è in diagonale perfetta.» disse per poi prendere un lungo sorso di succo, guardando altrove.

«L’infermiera aveva parlato di dodici punti, prima.» protestò lui, in ansia, quasi si sentì tradito per quei tre punti in più non previsti.

«Avevo la mano troppo sporca di sangue perché si accorgesse di quanto fosse lungo.» spiegò stringendosi nelle spalle. «Tre punti in più non sono un problema. Il vero guaio è che non potrò lavorare finché non me li tolgono, né guidare…» si sentiva frustrata, ma non poteva dar la colpa a nessuno se non a sé stessa, aveva stretto lei in mano quel pezzo di vetro.

«Parlo io con il proprietario, credo di conoscerlo vagamente.» Scherzò.

Lei scosse la testa azzardando un sorriso:«Posso farlo da sola. Nel contratto è previsto che mi prenda dei giorni di malattia nel caso servisse.» non voleva dipendere da Alex.« E forse potrei anche lavorare, mi sono ferita la sinistra. Posso prendere le ordinazioni, le dita di questa sono libere» le mosse come a provarlo.

«Ci mancherebbe che lavori, i punti potrebbero cedere.» disse lui severo.«Lasciati aiutare.» la supplicò.

Quell’affermazione la punse sul vivo:«Posso farcela da sola, grazie tante.» strattonò via la mano dalla sua dolce presa e gli riconsegnò il succo di frutta, si mise a rovistare con urgenza nella borsa alla ricerca del cellulare.

Lui scrollò la testa confuso da quel repentino cambio di umore. La fermò e tentò di calmarla:«No, aspetta… non volevo offenderti o insinuare che tu non ce la possa fare. Volevo solo renderti le cose più facili.» si affrettò a precisare.

«Perché? A te cosa importa se ho una vita difficile?» aveva gli occhi gonfi di lacrime d’orgoglio ferito. Non le piaceva che la aiutassero, non ne era abituata e detestava che qualcuno la considerasse vittima della sua stessa vita.

«Non voglio parlarne qui, Isotta, e non con te esausta e recentemente ferita. Ti porto nel mio appartamento così potrai stenderti e riposare. Fra qualche ora ti riaccompagnerò a casa.» tentò di rassicurarla.

«Non c’è bisogno, chiamo mio fratello per farmi venire a prendere qui. Non mi serve il tuo aiuto.» ribadì fulminandolo.

«Sono le cinque del mattino, tuo fratello dorme o è occupato con altre cose. Poi rientrando sveglierai i tuoi genitori e si preoccuperanno inutilmente…» disse nel tentativo di convincerla.

«Io non abito più con i miei genitori.» precisò laconica.

«Ah… va bene. Comunque è meglio che resti da me, abito da solo e a pochi minuti da qui. Giuro che entro mezzogiorno sarai a casa.» la guardò fisso negli occhi cercando di farla cedere.

Ad Isotta non andava di restare a dormire da quell’idiota, ma non le andava nemmeno di farsi mezz’ora di macchina fino a casa e magari assopirsi in posizioni strane. Si mordeva il labbro a sguardo basso, nel tentativo di decidere, come poco prima aveva fatto l’infermiera guardando la ferita. Dopo qualche minuto di riflessione incrociò finalmente lo sguardo di lui che non aveva smesso di fissarla trattenendo il fiato. «Oh, d’accordo!» disse scocciata, facendolo aprire in un sorriso trionfante. «Ma mi riservo il diritto di sgattaiolare via quando voglio!» gli puntò il dito contro con cipiglio severo.

«Come ogni donna che si rispetti.» disse entusiasta lui riproponendogli il succo di frutta, che lei accettò ancora.

Uscirono da lì in fretta, con l’ombra di una risata nel volto un po’ più rilassato.

Il sole aveva già illuminato il mondo tenuamente, mentre si dirigevano a passo svelto verso la macchina notarono, senza esprimerlo, che la città stava cominciando a risvegliarsi alla fresca brezza del mattino, qualche macchina viaggiava per strada, gli uccellini cinguettavano la loro gioia sulle fronde degli alberi del parco dell’ospedale e alcuni dottori si apprestavano a cominciare il proprio turno.

Alex non aveva mentito, abitava a pochi minuti dall’ospedale e furono davanti al suo condominio in un battito di ciglia. In silenzio presero l’ascensore che li accompagnò fino al terzo piano e le porte si aprirono su un lungo corridoio. La guidò fino all’ingrasso del suo appartamento e, attento a non far rumore per non disturbare gli altri condomini, aprì la porta.

Dove lui abitava non era esageratamente grande come si era aspettata. Sala e cucina erano comprese in uno spazio unico di una manciata di metri quadrati, poco più in là vi era un corto corridoio su cui davano tre porte chiuse. L’arredamento era molto modesto: c’erano un divano, un tavolinetto da caffè e una poltrona, dall’aria sobria e comoda,che se ne stavano davanti ad un mobile che ospitava una tv a schermo piatto, qualche cornice e suppellettile; un tavolo per quattro persone, provvisto di sedie di alluminio colorato, era sistemato vicino ad una modesta cucina fornita dei necessari elettrodomestici e credenze. Una grossa vetrata portava la luce nella stanza, dava su un terrazzo che ospitava uno sdraio e un tavolinetto da giardino. Ai muri, di un elegante color panna, c’erano un paio di copie di quadri famosi e una maglia da basket incorniciata.

La maglia che tanto tempo prima lei gli aveva regalato.

Una fitta al cuore la fece impallidire e poi arrossire, credeva che l’avesse buttata dato che non teneva a lei, ma evidentemente quello era un regalo troppo prezioso per finire nella spazzatura o per non essere esposto.

«Eccoci qua.» disse lui appoggiando le chiavi in una ciotola su un mobiletto vicino alla porta, non accorgendosi che gli occhi di lei erano finiti sulla maglia.

«Carino.» commentò lei continuando a guardarsi intorno, dopo aver cacciato giù il disagio per quella scoperta.

«E’ un po’ impersonale, è da poco che ci abito. » si giustificò lui sfregandosi le mani nei pantaloni.

«Avrai tutto il tempo per riempirla.» sorrise.

Lui fece un cenno di assenso e la invitò ad andare più in là della soglia. Le indicò il bagno e la camera da letto e le disse di fare come se fosse a casa sua e che per qualsiasi evenienza l’avrebbe trovato sul divano o nel terrazzo.

«Vuoi un paio di calzoncini e una maglietta? Quel vestito non sembra essere comodo per dormire.» osservò indicandola.

Isotta si guardò realizzando che portava ancora il vestito da pirata imposto dalla nottata appena vissuta. Era scomodissimo ma lei non si era resa conto di portarlo ancora, come non si era resa conto di indossare le scarpe col tacco. Arrossì pensando alla figura imbarazzante fatta in ospedale. Fu grata al dottore e all’infermiera per non aver infierito sul suo abbigliamento stravagante.

«Non ti preoccupare, avevo in programma di rimanere a dormire da Grazia per non dover guidare mezza addormentata, ho i vestiti qui in borsa.» disse scrollandola davanti agli occhi di lui e infilandoci la testa dentro, letteralmente, dopo averla appoggiata sul tavolo.

«Donne,hanno il mondo in borsetta.» rise lui. «Anche se quella non si può definire borsetta. »puntualizzò.

Anche lei si unì alla risata che risultò attutita dalla borsa in cui aveva la testa. «Non ci facciamo mai trovare impreparate…» ne riemerse tenendo in mano un fagotto scuro, un paio di Converse bianche e un cellulare a dir poco datato. Aveva i tasti. Parve tentennare ma poi chiese:«Sarebbe inopportuno se ti chiedessi di usufruire della doccia? Sarò velocissima. Non vorrei sporcarti il divano.» chiese imbarazzata indicandosi il braccio con alcune macchie di sangue incrostato e le maniche sporche della camicia arrotolate quasi fino alle spalle.

«Non dormirai sul divano. » disse come se fosse ovvio. « Comunque se è per le lenzuola non ti preoccupare, ma fai pure la doccia se vuoi, avrai bisogno di rinfrescarti dopo una notte di lavoro.» sorrise.« Il bagnosc…» non aveva ancora finito la frase che lei tirò fuori dalla borsa anche due piccole boccette da viaggio con i prodotti per farsi la doccia, e poi un altro piccolo fagotto con l’intimo di ricambio.«Come non detto…lì dentro non hai mica una doccia da montarti per non dover usare la mia?» chiese ironico facendo finta di sbirciarvi all’interno.

«Ho una bottiglietta d’acqua. Potrebbe funzionare lo stesso se vado sul terrazzo.» stette al gioco volentieri.

«Dubito che sia la stessa cosa… ti offro la mia per questa volta, ma la prossima ti vorrei più preparata.» fintamente deluso la guidò alla porta del bagno.

«Dubito che ci sarà una prossima volta, ma provvederò a cercarmi un box doccia pieghevole e portatile, insieme a qualche litrata d’acqua, ovviamente.» gli promise aprendo la porta e sparendo all’interno del bagno con una piroetta e una risata.

Alex rise di gusto a sua volta e si diresse in camera per cambiarsi, salvo però ricordarsi una cosa. Corse al suo armadio, ne sottrasse un paio di asciugamani puliti e bussò cauto alla porta dietro la quale vie era lei già mezza nuda. «Isotta, gli asciugamani.» notificò prima che lei avesse il tempo di rispondere o insultarlo.

Il pannello di legno si mosse per aprire uno spiraglio da cui uscì la mano sana di lei:«Grazie» disse la sua voce attutita.

«Ti prendo anche qualcosa per proteggere la benda, un sacchetto di plastica e lo scotch.» Lei lo sentì allontanarsi e ritornare in un batter d’occhio.

Gli riaprì e prese dalla fessura ciò che lui le aveva passato.«Sarà un’impresa metterlo. Maledetto taglio.» disse tra sé ma perfettamente udibile.

«Ti aiuto io» si offrì.«Mettiti qualcosa addosso almeno posso entrare.» gli costò dire quelle parole. Una visione di lei quasi del tutto nuda non lo avrebbe di certo trovato indifferente.

Si aspettò un rifiuto ma, dopo qualche secondo di esitazione, lei acconsentì:«Ok. Dammi un attimo e ti apro.» la sentì fare qualcosa velocemente e poi la porta si riaprì.

Aveva le maniche della camicia completamente srotolate e macchiate di rosso, il resto della camicia candida le copriva le grazie scivolando sul suo busto, aveva indossato anche i leggings con la gonna cucita ad essi; avrebbe potuto benissimo far parte di un film horror vestita a quel modo, aveva anche un bel paio di occhiaie scure, il trucco colato, i capelli ancora arruffati e il pallore della stanchezza che le deturpavano il viso. Quasi gli venne da ridere mentre si impegnava ad avvolgere la plastica attorno alla mano bendata.

Non gli ci volle molto e questo la stupì.

«Mi sono rotto la mano una volta e una gamba cinque o sei volte, sono diventato un esperto.» spiegò lui notando il suo sguardo.

«E’ una fortuna allora…» deglutì lei, a disagio.

Poco dopo furono divisi ancora dalla porta e in cinque minuti si sentì lo scrosciare dell’acqua all’interno del box.

Alex ne approfittò per mettersi in abiti comodi e fare zapping in tv, alla ricerca di qualcosa di interessante da guardare; non c’era nulla che valesse la pena di seguire alle sei del mattino incombenti, intercettò una replica di un telefilm che non riuscì a decifrare e un talk show inutile, ben presto si decise a spegnere per cercare qualcosa da fare in alternativa.

Quando Isotta uscì dal bagno lo trovò comodamente seduto a leggere un libro. Sorridendo lo raggiunse e si appollaiò sul bracciolo del divano. Portava una maglietta sbrindellata e un paio di calzoncini maschili, larghi e comodi, aveva indossato le Converse ma non le aveva allacciate, non aveva più trucco in viso ed era un po’ più colorita, i suoi capelli appesantiti e scuriti dall’acqua, molto più che umidi, erano raccolti su una spalla.

«Che cosa leggi?» gli chiese sorridendo e sbirciando la copertina per capirne il titolo, senza riuscirci.

Lui si riscosse dalla sua ammirazione e le rese facile l’impresa chiudendo il libro e porgendoglielo:«E’ di mia sorella…» si giustificò in imbarazzo.

Lei era a bocca aperta con il volume in mano.«Harry Potter e la Pietra Filosofale?» chiese sconvolta. Di lui sapeva che non era un amante della lettura, ai tempi delle superiori odiava leggere, non credeva di trovarlo con in mano uno dei libri della sua saga preferita.

Alex si mise a ridere interpretando male la sua espressione:«Cos’è quella faccia sconvolta? Lo leggono anche gli adulti!» mise le mani avanti. «So che ti piace leggere e che probabilmente da intellettuale snobbi questo tipo di saghe per ragazzi, ma dovresti dargli una possibilità, ti prende man mano che vai avanti.» era assurdo che lui facesse pubblicità a lei di quel libro.

Lo guardò incuriosita:«Come sai che mi piace leggere?» chiese sorridendo senza cattiveria e paranoia.

Lui alzò le spalle«Alle superiori prima arrivava il tuo libro e poi tu. Ti vedevo prendere l’uscita con il naso su uno dei mattoni che ti portavi sempre dietro. Ancora non mi spiego come facessi a non finire sotto una macchina.»

Guardò in basso e si portò un ciuffo umido dietro l’orecchio, arrossendo. L’aveva notata quando lei non si accorgeva di lui. Gli restituì il libro dicendo: «Il signore e la signora Dursley, di Privet Drive numero 4, erano orgogliosi di poter affermare che erano perfettamente normali, e grazie tante. Erano le ultime persone al mondo da cui aspettarsi che avessero a che fare con cose strane o misteriose, perché sciocchezze del genere proprio non le approvavano.» alzò lo sguardo verso di lui dopo aver recitato a memoria l’incipit del libro, sorrise a trentadue denti, come se avesse vinto il primo premio ad un quiz televisivo.

Lui la guardò attonito:«Mi stai spaventando.» disse a bocca aperta. Poi risero entrambi.

«E’ una parte facile da ricordarsi. » alzò le spalle come se fosse una cosa del tutto normale.

«In effetti è sciocco da parte mia credere che tu non conosca un libro così famoso… ma il fatto che tu lo sappia a memoria… sì, mi spaventa. » incalzò ridendo.

C’era una bella connessione in quel momento, una porta si era spalancata sul loro rapporto.

Lei abbassò lo sguardo sulle sue mani che giocherellavano con un lembo dei calzoncini:«La Rowling ha creato colui che è stato il mio unico amico per parecchi anni.» disse semplicemente, quasi vergognandosene. Ma era stata lei a preferire la compagnia di personaggi che non l’avrebbero mai delusa, mai insultata, mai ferita. Indicò il libro che lui aveva posato sul tavolinetto da caffè e ammise:«Nessuno, in quei dialoghi, ha mai detto niente di male sul mio conto, ed era un sollievo. Si limitavano a parlarmi di cose importanti ed io li ascoltavo. Li ascolto ancora, qualche volta, per non sentirmi sola.»si strinse nelle spalle «Anche se sono troppo cresciuta per amare una saga per ragazzi, considero Hogwarts la mia casa, il mio posto felice.» lo guardò cauta, per assicurarsi che non fosse scappato a gambe levate saputo della sua pazzia.

Alex, però, non sembrava spaventato ma terribilmente a disagio…

No, pentito:«Ti sei dovuta rifugiare lì anche per colpa mia?» chiese con contrizione.

Questa volta lo guardò apertamente, per decifrare le sue espressioni e la sua richiesta. Decise di rispondere senza fare altre domande, era arrivato il momento dei chiarimenti e poi un po’ di senso di colpa non fa mai male:«Qualche volta, nei momenti più brutti.» disse sinceramente annuendo per poi succhiarsi il labbro inferiore, -era un tic che la coglieva quando si esponeva con qualcuno che non era ancora riuscita a conoscere completamente, come se volesse impedire alle sue labbra di pronunciare quelle cose, come se temesse ti mettere a disagio il suo interlocutore.

Alex incassò e si grattò la testa pensando che fosse il momento giusto per scoprire i danni che aveva compiuto:«E quali sono stati i momenti più brutti?» chiese allungando una mano, discretamente, verso di lei.

Deglutì tornando con lo sguardo altrove:«In realtà, ora come ora, non riesco a ricordare una sola cosa bella che sia successa in quel periodo e che ti coinvolgesse.» parve rifletterci «Credo che il momento che mi abbia ferito in modo peggiore sia stato quando scappasti non appena ti accorgesti di me in fila alle macchinette per la merenda, due persone dietro di te. Era l’ultimo giorno prima delle vacanze di Natale del mio terzo anno. L’ultimo giorno in cui ti vidi, fino a ieri l’altro.» sospirò «Per qualche mese fui convinta che non fossi tornato a scuola per colpa mia. Mi sono odiata.» confessò spietata.
«Mi dispiace.» le disse lui senza avere il coraggio di toccarla o di dire altro. Gli dispiaceva sul serio e comprendeva cosa l’avesse spinta a fargli quello scherzo il giorno prima.

Isotta si passò una mano sulla guancia e rise in modo un po’ isterico, lasciando che una cortina di capelli le nascondessero la faccia:«Figurati, è passato parecchio tempo.» continuava a non guardarlo cercando di nascondere qualcosa sul suo viso.

«Ma ti fa ancora male.» constatò lui, dando voce alla parte di frase che lei, per orgoglio, non aveva pronunciato. Vide qualcosa gocciolare sui suoi pantaloni e la sentì tirar su con il naso. Stava piangendo.

«E’ ridicolo, probabilmente…» sospirò « Ho ventiquattro anni, vivo da sola e ho avuto altre storie, molto importanti per giunta. Sono passati più di otto lunghi anni.» si pulì ancora la guancia«Solo che… quando ti ho rivisto, ho capito chi fossi ed hai detto di me quelle cose… è stato come se tutto quello che provavo fosse ripartito da dove lo avevo lasciato, è stato come se fossi tornata indietro nel tempo e mi ritrovassi nella stessa situazione.»confessò frugando nella borsa che aveva afferrato appena uscita dal bagno, tirò fuori un pacchetto di fazzoletti e, prima di prenderne uno, ammise « … ha ripreso a farmi male, tanto quanto allora. Era come se la mancanza di una conclusione valida abbia fermato il processo di cicatrizzazione.» lo disse triste come se non accettasse quell’imposizione dal suo cuore. «La cosa assurda è che mentre ci parlavamo, prima che tu scoprissi tutto, non avevo idea di ciò che stavo facendo a me stessa, ancora una volta. »

Lui aveva ascoltato non capacitandosi del perché non avesse reagito alle cattiverie, perché non l’avesse subito mandato al diavolo:«Perché non mi hai preso a schiaffi fin dall’inizio? Perché ieri non mi hai fermato? Insomma, stavo flirtando con te parlando male di te.» chiese incredulo mentre lei si soffiava il naso.

Con la voce debole si giustificò:«Volevo prendermi la rivincita morale… o forse dovrei dire che volevo vendicarmi. Credevo che dopo mi sarei sentita meglio facendoti uno scherzo del genere. Facendoti perdere la faccia. Ma avrei dovuto saperlo che la vendetta non ferisce solo chi la subisce ma anche chi la provoca. » fece una mezza risata e poi rispose anche alle altre sue domande:« Non ti ho mai fermato, alle superiori, perché avevo capito che la solitudine pesava più a te che a me. Tu risolvevi il problema facendo di me un trampolino per la fama, io risolvevo tuffandomi tra le pagine dei miei libri. Avevamo due modi diversi per reagire. Forse mi stava bene così… non saprei. Credo che una parte di me pensasse che prendermi in giro ti facesse star bene e ribellarmi avrebbe significato farti star male. E non volevo farti star male. » disse come se fosse ovvio. « Poi, quando prima mi hai teso l’imboscata, mi sono resa conto dell’entità dei danni, ho capito che mi hai ferito in modo più profondo di quanto credessi allora o volessi ammettere …» fece una mezza risata. «Quando mi sono resa conto di avere una cicatrice ancora sanguinante era troppo tardi, ero in macchina con te diretta all’ospedale.» si fermò e poi continuò «Comunque per un momento è stata una bella sensazione avere il coltello dalla parte del manico finalmente, poter esagerare. Solo che… quando mi hai chiesto di uscire, dopo la soddisfazione iniziale data l’ironia della situazione, ho pensato che lo facessi solo perché odio me stessa. » lo guardò « Mi ha fatto male credere che solo così potevo piacerti.» non aveva mai ammesso con sé stessa la realtà delle cose. Credeva che non provare rancore significasse essere cresciuta, significasse essere una persona migliore. Ma in realtà il rancore era riuscita a provarlo solo un decennio dopo. Non aveva avuto modo di conoscere la rabbia verso di lui per quello che le aveva fatto, al contrario, la rabbia che aveva verso sé stessa la conosceva molto bene, aveva camminato a braccetto con lei per molti anni.

Alex si spostò fino ad arrivare nel posto del divano attaccato al bracciolo dove lei era seduta. Finalmente capiva perché si fosse opposta alla sua offerta di aiuto, finalmente vedeva quanto stronzo fosse stato. «Non mi piaci perché mi hai fatto credere che odi te stessa, ho visto un’altra Isotta sotto gli auto-insulti. Ti ho chiesto di uscire perché sei una persona che mi piace, indipendentemente da come credevo che fossi.»

«Dubito…» disse lei quasi schernendolo.

Prese la sua mano e cercò il suo sguardo:«Solo quando ho capito di non averti riconosciuto mi sono reso conto del fatto che non ti avessi mai guardato in faccia, che non mi fossi mai preoccupato di conoscerti veramente prima di disprezzarti. Isomma… come ci si potrebbe dimenticare di occhi come i tuoi o del tuo sorriso? Invece io ci sono riuscito. Bisogna essere ciechi e idioti per scordarsi di te, precisamente come lo sono stato io! » cercò di contagiarla con un sorriso e ci riuscì «Non fingevi di essere una persona diversa con me e con gli altri clienti, è la tua personalità che mi ha colpito. Al di là dello scherzo, non hai mai mentito su nulla dal primo momento che ti ho rivisto. Isotta…»la chiamò per cercare il contatto visivo che lei aveva reciso guardando i suoi stessi piedi «Sono rimasto sconvolto dai danni che ho fatto nove anni fa, sono rimasto sconvolto dalla cattiveria che ho riversato su di te senza avere la minima idea di chi tu fossi. Ti chiedo scusa…» e sembrava così sincero.

« Non negherò che ti eri messo d’impegno nel farmi capire che non sono alla tua altezza.» disse sferzante ma con un sorriso di tregua.

«Ero io a non meritarti. » sentenziò sinceramente. «Non cercherò giustificazioni per il mio comportamento… sono solo un coglione, ma questo coglione sta provando a cambiare. Vorrei dimostrartelo. » disse con enfasi.

«Non ho mentito quando ho detto che accetto le tue scuse. » lo rassicurò. «Mi ci vorrà solo un po’ per superare ciò che in passato ho solo messo sotto un tappeto, ma finalmente la questione è stata chiarita e abbiamo avuto la nostra degna conclusione.» sorrise fiduciosa.
Non aspettò che replicasse, tanto più che non sembrava intenzionato a farlo. Dopo qualche secondo di silenzio e un poderoso sbadiglio, chiese titubante: «Senti… non è che potrei…?» indicando eloquentemente la porta della camera.

Lui annuì senza rendersene conto. Aveva gli occhi persi in chissà quale ragionamento.

«Grazie… ci vediamo dopo.»disse alzandosi e staccando la sua mano da quella di Alex.

Quel contatto venuto a mancare parve riscuoterlo: «Non mi ringraziare, te lo devo.»

Quell’affermazione parve risvegliare qualcosa anche a lei: il suo lato combattivo. Si voltò con i tratti distorti dalla stizza e dalla rabbia, puntò le mani ai fianchi e con un movimento del capo riuscì a portarsi i capelli dietro la schiena.

Alex vide il volto della collera ed ebbe quasi paura, seppure fosse più bassa e molto più mingherlina di lui, riuscì ad intimidirlo, il suo sguardo spietato e infuocato avrebbe fatto indietreggiare un esercito di marines.

Lo guardò in cagnesco e sputò:«Tu non devi compatirmi!» quasi lo urlò. «Se stai facendo tutto questo per riparare ai torti che mi hai fatto quando avevo quattordici anni, me ne vado immediatamente.» Con quattro falcate lo raggiunse sotto il suo sguardo attonito.

«Io…» tentò lui completamente impreparato a quella reazione.

Era un toro in carica:«Ce l’ho fatta benissimo senza di te tutto questo tempo, avrei potuto farcela anche questa volta senza di te. Ho accettato il tuo aiuto perché pensavo che lo stessi facendo per rendermi le cose un po’ più facili e non perché ti faccio pena.» sbottò indignata.

«Non mi fai pena…»cercò di farle sentir ragione, non capiva il motivo della sua rabbia.

«Bene! Allora non dire “non mi devi ringraziare” con quel tono da ‘io sono il pentito che chiede scusa alla disgraziata di turno a cui ho fatto del male.’ E’ una cosa che non posso tollerare. Hai preso una decisione tanto tempo fa, ti sei preso uno scherzetto come conseguenza, ora ne hai presa una diversa, abbi una dignità. Ho accettato le tue scuse. Fine della questione. The End. Voltare pagina.» i suoi occhi stupefacenti mandavano saette « La tua ospitalità non dovrebbe essere dettata dal nostro passato, ma dal nostro presente: sono una delle cameriere di tuo padre che si è squarciata una mano con un bicchiere, per farmi un gran favore mi hai accompagnata in ospedale, accolto in casa tua, mi hai fatto usare la tua doccia e il tuo letto perché sei una brava persona, non perché ti senti in colpa.» aveva il fiatone.«Non voglio credere che tu non sia cambiato, non voglio sentirmi ancora un gradino sotto di te… mi distrugge.» tentennò sull’ultima parola.

Era un uomo, doveva ribattere a quelle assurdità, anche se lo spaventava:«E anche se fosse? Fare tutto questo non sarebbe elevare te ad un gradino sopra di me? » reagì.
Isotta afferrò la borsa, pronta a lasciare quell’appartamento.«Non hai proprio capito nulla.» prese dal portafogli cento euro e glieli buttò sopra il ventre:«Per il disturbo,benzina, succo di frutta, acqua e tintoria per gli asciugamani e il vestito che dovrebbe tornare a tuo padre. Ci si vede.»

Si fiondò verso la porta ma lui le tagliò la strada bloccando l’uscita.

«Togliti di mezzo.» disse con la voce glaciale.

Non pensava che i suoi occhi potessero diventare più spietati, ma così fu. Trattenne il respiro quando disse:«Non te ne andare.» la pregò «Anche io voglio che tra noi riparta tutto, ma non posso cancellare il passato, non posso impedirmi di dispiacermi guardandoti e capendo il male che ti ho fatto. Ti ho osservato e ascoltato con attenzione, ci sono dettagli di te che mi hanno toccato in punti che nemmeno sapevo di avere.» era concitato e umettò le labbra per poi continuare«Il tuo sorriso luminoso, il modo in cui pieghi la testa quando lasci che un sentimento positivo ti pervada, i tuoi occhi che si spengono quando provi tristezza, i tuoi occhi che si accendono quando vedi qualcosa che ti piace, il tono della tua voce che suggerisce sempre ciò che ti passa per la testa, anche se cerchi di nasconderlo. So che sei una persona forte e che con difficoltà accetti una mano, so che fai fatica ad ammettere che sei vulnerabile anche tu, so che la rabbia e l’indignazione sono il tuo modo diretto per cercare di far credere alla gente di non essere fragile anche quando vorresti esserlo. Probabilmente fai fatica a mostrarti perché sei stata ferita tante volte, anche da me. Sono qui davanti a te e ti chiedo di parlare apertamente del mostro che sono stato e di chiedermi qualcosa che rimedi al male che ancora senti quando mi guardi. Sono qui che cerco di darti tutto quello che posso per farti capire che sono una persona diversa, sono qui che mi sto trattenendo dal saltarti addosso perché non voglio che tu creda che stia facendo tutto questo perché, come hai detto tu, “mi sono accorto che hai due tette e un culo che mi aggradano”. » fece un mezzo sorriso imbarazzato.«Lasciami dimostrare che ho capito chi sei, cosa mi sono perso in questo decennio. Lascia che provi a conoscerti. Ti assicuro che non provo pena per te ma solo ammirazione. Sei bella! Mi piaci in tutti i sensi, Isotta. Resta, ti prego.»

Lei lo guardava ad occhi spalancati, uno stupore inspiegabile a farle battere il cuore a mille allora. Si era dimenticata della rabbia e dell’indignazione. Non poteva capacitarsi che quelle parole fossero uscite dalla stessa persona che aveva conosciuto a quattordici anni, non poteva credere che l’Alex che le stava davanti in quel momento fosse lo stesso Alex che l’aveva tormentata per due anni e mezzo. «D’… d’accordo, resto.» non poteva fare altro, le aveva confuso il cervello con quell’arringa.

Lui sorrise felice: «Sono contento.» le accarezzò il volto con la punta delle dita in un gesto carico di dolcezza e gratitudine. «Ora a letto, o fra poco mi svieni dal sonno.» la ammonì bonario e poi la voltò afferrandola per le spalle, come se non sapesse camminare da sola la condusse alla porta della camera.

Isotta era ancora estremamente sotto shock, si mosse meccanicamente quando abbassò la maniglia ed entrò.

«Buon riposo.» le augurò lui ancora sorridente, il volto rilassato di uno che si era tolto un’enorme peso dall’anima. Se ne stava appoggiato allo stipite, ammirandola.

«Grazie. » esalò lei in un sussurro. Entrò e si chiuse la porta alle spalle. La camera era ampia, anche quella dotata di un balcone ed una finestra a pannelli scorrevoli, un grosso letto a due piazze, dallo stile minimal, campeggiava addossato alla parete portante, davanti a questo un armadio a muro con le ante dello stesso azzurro pallido delle pareti, c’erano anche una scrivania ordinata e una modestissima libreria, addossate nell’angolo alla sinistra dell’entrata. Senza badare ai dettagli si stese sul letto e, anche se la confusione non l’aveva abbandonata del tutto, si lasciò vincere dalla stanchezza e sprofondò nell’oblio.

Sei ore dopo

Isotta aprì gli occhi alla luce intensa del sole che entrava dalla vetrata. Non riuscì subito a realizzare dove si trovasse e, non riconoscendo subito la stanza, scattò a sedere sul letto come se le lenzuola ospitassero chiodi arrugginiti in grado di pungerla. La testa le girava, si sentiva ancora un po’ rintronata dal sonno appena sfumato e, mentre i suoi occhi cercavano faticosamente di abituarsi al bagliore del sole, i pensieri ripresero un filo logico e ricordò quello che era successo prima che venisse inghiottita dalla stanchezza e da un sonno senza sogni.

Alex, Venerdì del Corsaro, Alex, taglio alla mano, Alex, ospedale, Alex, quindici punti di sutura, Alex, appartamento, Alex, Harry Potter, Alex, dichiarazione, Alex, “saltarti addosso”, Alex, “sei bella”, Alex, letto.

Doveva essere coinvolto Alex, di sicuro.

Si guardò la mano sinistra che pulsava tremendamente e le dava fitte lancinanti, ma non vi era sangue nella benda, quindi dedusse che i punti avessero retto perfettamente, pensò che quel dolore fosse una naturale conseguenza della carne viva tenuta insieme solo da qualche filo incrociato, le ci volle un po’ per ricordarsi di avere un rimedio per farlo passare. La sveglia sul comodino segnava le tre del pomeriggio, aveva dormito circa sei ore e per lei erano più che sufficienti. Si guardò intorno e vide la sua borsa abbandonata ai piedi del letto, vicino al comodino, la afferrò, vi frugò dentro con urgenza alla ricerca degli antidolorifici prescritti dal dottore per la sua condizione. Non trovò solo quelli ma anche un pacchetto di cracker che aveva messo in borsa tre giorni prima, quando era andata a far visita ai nipoti direttamente dopo il lavoro, ma che non aveva consumato perché la sorella l’aveva sfamata alla perfezione. Erano un po’ sbriciolati ma non era schizzinosa. Scese dal letto e si sedette alla sedia della scrivania munita di fazzolettini per non spargere briciole ovunque, li consumò tutti, stupita dall’enorme appetito che aveva, poi, afferrata anche la bottiglietta d’acqua, mandò giù una pastiglia di antidolorifico e attese qualche minuto che facesse effetto.

Mentre attendeva che le fitte alla mano si affievolissero curiosò con lo sguardo nella libreria. Vi erano pochissimi libri – la serie di Harry Potter era completa e quasi intonsa, segno inequivocabile che quei libri se li era comprati lui e non la sorella- vi era una foto di lui con la maglietta da basket, della squadra in cui probabilmente aveva militato in quei nove anni passati in America, aspirando segretamente al posto da titolare. C’era anche una foto con i tecnici e la squadra al completo e una che lo ritraeva insieme alla sorella minore, una ragazza bella quasi quanto lui. Perse molto più tempo a guardare quell’immagine, cercando i dettagli più nascosti. Non doveva essere molto remota, a giudicare dal volto così simile a quando l’aveva visto poche ore prima, dietro i due vi era una spiaggia dalla sabbia bianca, forse non erano nemmeno in Italia; Alex e Brigida- così si chiamava la sorella- se ne stavano abbracciati sorridenti e le loro ombre sulla sabbia erano unite. Lui aveva lo sguardo rivolto all’obbiettivo, la guardava da quell’immagine fiero ed impeccabile, come se sapesse che in quel momento Isotta stesse osservando quella foto, sembrava voler far colpo. Scrutandolo meglio si rese conto che i suoi vividi occhi castani esprimevano qualcosa che credeva non avrebbe mai potuto esistere in lui: rassegnazione. Lo guardò meglio per assicurarsi che non fosse solo un’impressione momentanea, esaminò quel volto immobile nell’istante ed ebbe la conferma che non si era sbagliata. Quelle due porte sulla sua anima erano tremule fiamme moribonde, disilluse.

Si chiese se fosse cambiato davvero in quegli anni. Poche ore prima non ci aveva creduto completamente, sapeva bene che a parole sono bravi tutti - dopo ciò che le aveva fatto e come lei era diventata, non era difficile credere che affermasse un cambiamento con il desiderio di conquistarla- però, mettendo insieme i pezzi, faticosamente, si disse che il tono della sua voce, le sue parole, i suoi gesti, dimostravano imperativamente, senza che lui lo volesse, ciò che sosteneva con ardore a parole.

Si avvicinò alla porta per poter uscire, ma non voleva ancora affrontarlo. Quindi appoggiò l’orecchio al pannello in legno e stette in ascolto. Niente rumori, nessun chiacchiericcio da televisione accesa, nessun movimento di ciabatte che strisciavano sul pavimento, nessun telefono che squillava o lui che sussurrava per non svegliarla.

Si disse che probabilmente era uscito a fare qualche faccenda. Recuperò dalla borsa una penna e un fogliaccio , scrisse un biglietto veloce da lasciar sul tavolo, per non sentirsi in colpa di essersela svignata senza una parola:

Grazie mille di tutto! E’ stato bello incontrarti dopo tanto tempo e aver avuto l’occasione di spiegarti. Chi l’avrebbe mai detto…
Sono sgattaiolata via, come era mio diritto fare, come ogni donna che si rispetti.
Ti devo un favore… ma ci si vede in giro.
Buona giornata,
Isotta

Sistemò le lenzuola, da buona ospite, aprì la porta con cautela dopo aver infilato le Converse e il suo paio di occhiali da vista, pronta a raccattare le sue cose e ad andarsene da lì il prima possibile. Avrebbe preso le scale per non rischiare d’ incontrarlo in ascensore.

Non sapeva che cosa dirgli, cosa rispondere a ciò che le aveva confessato. Quella mattina si era salvata perché lui aveva compreso il suo stupore, ma in quel momento non aveva più scuse per svicolare, aveva avuto il sonno per riflettere. Trovarsi ancora davanti quegli occhi scuri trepidanti, in una spasmodica attesa di risposta, non era ciò che voleva in quel momento.

Scivolò fuori dalla camera. In salotto e in cucina, avvolti in un silenzio di tomba, non vide nessuno. Sgattaiolò in bagno per riprendersi le sue cose da pirata, che trovò sistemate su delle grucce appese ad un appendiabiti bianco. Se le caricò tra le braccia e si diresse alla porta. All’ultimo si ricordò del biglietto che stringeva in mano e fece dietrofront sbuffando sottovoce. Si stava muovendo come una ladra in una casa vuota. Vide il libro della Rowling appoggiato al tavolinetto da caffè e decise che l’avrebbe lasciato sopra alla copertina, come a firmarlo ulteriormente, ma in modo più profondo di ciò che aveva già tracciato con la sua calligrafia arrotondata. Fulminea s’infilò nel vano che separava il soprammobile dal sofà e lasciò lì il pezzetto di carta quadrettata.

Quando si voltò rischiò l’infarto.

Alex era rannicchiato sul divano in una posizione incredibilmente scomoda e dormiva profondamente. Dopo lo stupore iniziale e l’urlo soffocato dalla mano che si era prontamente portata alla bocca, lo guardò dall’alto addolcita dall’espressione pacifica sul bel volto. Senza averlo premeditato, contravvenendo alle sue stesse regole, Isotta si accucciò per terra al fianco del divano, come ipnotizzata, e rimase un po’ ad osservarlo. Il suo bellissimo viso era rilassato, le labbra rosee erano leggermente aperte e lasciavano passare un flebile respiro ritmico, una barba ben tenuta imbruniva le gote e gli zigomi squadrati al punto giusto. Aveva un braccio ripiegato al petto mentre l’altro penzolava fuori dal perimetro del divano, le spalle si alzavano e abbassavano seguendo i suoi sospiri.

Senza volerlo sorrise ricordando quando era iniziata la sua fissa per lui. Era un ragazzo mingherlino e basso all’epoca, il suo fisico asciutto non era scolpito, come quello che si intravedeva in quel momento grazie ad un lembo alzato della maglietta, portava i capelli leggermente più corti quando frequentava le superiori e le sue labbra disegnavano costantemente un ghigno severo quando s’ incrociavano nei corridoi. Qualche volta aveva avuto persino paura di quel volto arcigno, e un po’ lo aveva detestato quando non aveva più avuto occasione di incrociarlo, quasi quanto aveva detestato sé stessa.

Ricordò anche di come era stato semplice innamorarsi di lui e di quanto all’inizio fosse stato tutto così normale, così giusto. Aveva un sorriso ampio e sincero mentre le chiedeva della maglia che portava a ginnastica, le loro battute sotto rete quando le squadre di pallavolo delle loro classi si scontravano a ricreazione. Per un momento aveva pensato perfino che tutto fosse partito da lui, che la cotta fosse sua.

Persa nei suoi ricordi non si rese conto che gli occhi di Alex si erano aperti, forse si era sentito osservato.

«Te ne vai? » chiese con la voce impastata. La fece sobbalzare talmente violentemente che sbatté il braccio nel tavolinetto. Quello scatto lo fece ridere.

Isotta arrossì di botto e scattò in piedi. Non si sarebbe dovuta fermare, e non solo per la figura da fessa che aveva fatto facendosi beccare a rimirarlo, ma perché avrebbe dovuto spiegargli il perché di quella fuga. « S…sì. » si strinse a sé le sue cose come a proteggersi. «Ti avevo lasciato un biglietto credendo che fossi fuori di qui… poi mi sono accorta che… bé ti ringraziavo per l’ospitalità e tutto il resto...puoi andare sul letto… starai più comodo… scusa se te l’ho occupato.» parlava in modo sconnesso e piuttosto impacciato, mentre si piegava sulle ginocchia per riprendersi le sue parole oramai inutili.

Alex, anche lui senza averlo premeditato, colse l’occasione. Si tirò su a sedere fulmineo, l’arpionò per il busto trascinandola a sedere con lui sul divano. Lei non ebbe il tempo di fare o dire nulla, i vestiti che stava stringendo si separarono da lei e finirono chissà dove, mentre il viso di lui si avvicinava al suo.

La travolse con un bacio, l’avvolse in un abbraccio. Sulle sue labbra esalò: «Resta.»

«No, non posso.» rispose respirando affannosamente. Ma ciò che faceva il suo corpo collimava con le sue parole. Non solo rispondeva ai suoi baci infuocati ma le sue mani – anche quella ferita- frugavano il corpo di lui guidate da chissà quale forza.

Quanto aveva desiderato, un tempo, di assaggiare quelle labbra, di essere toccata da quelle mani. Quanto lo desiderava anche in quel momento.

In men che non si dica la sua maglietta sbrindellata raggiunse i vestiti del giorno prima, sul pavimento, subito seguita da quella di lui. Il contatto di quelle mani forti sulla sua pelle candida, il petto solido che sfregava contro il pizzo del reggiseno, i respiri affannosi vicino alle orecchie, la fecero rabbrividire di piacere più di una volta. Gli morse il labbro inferiore e lui la ripagò con un bacio. I gancetti del reggiseno vennero separati con un movimento fluido della mano di lui, Isotta non si sentì nuda come le altre volte, non era a disagio come le era capitato spesso con il suo ex.

Le labbra di Alex seguirono il collo di lei ma, prima di arrivare al seno, si fermò. I loro corpi protestarono come se fosse solo uno. Si staccò da lei quel tanto che bastava per poterla guardare negli occhi dal basso. « Continuo solo se lo vuoi.» aveva il fiatone e i suoi occhi parlavano chiaramente: non voleva fermarsi per niente al mondo dando retta a sé stesso, ma voleva far decidere a lei, anche se gli sarebbe costato un gran atto di volontà.

Quella richiesta colpì Isotta, sentì che la sua opinione contava, che la rispettava come donna e come persona. Sorrise apertamente, gioendone, una lacrima di commozione le rigò il volto, annuì, dando il suo assenso. Non per farlo contento, non perché le faceva pena, ma perché lo voleva anche lei con tutto il cuore.

Quel breve e conciso lasciapassare le fece guadagnare un bacio di felicità. Si sentì sollevare dal divano e la voce di Alex, resa roca dall’eccitazione, vicino all’orecchio destro: «Andiamo sul letto.»

Senza che si accorgesse del trasferimento fu posata con delicatezza sul materasso morbidissimo, istintivamente si portò il lenzuolo al petto quando lui si allontanò per andare a chiudere le tende. Le sembrò passata un’eternità nell’attesa che la raggiungesse nel giaciglio, ma, la penombra aranciata che ci fu poi, ottenuta facendo coincidere i bordi di quei lunghi pezzi di stoffa, la aiutò a rilassarsi. Le scarpe e i calzini le vennero sfilati e ogni lembo di pelle che le labbra di lui potevano raggiungere furono marchiati a fuoco con un bacio.

I pantaloni da uomo che Isotta portava furono solo un ricordo abbandonato tra le coltri già annodate alle loro gambe, le mutandine presto volarono via, scacciate malamente come se fino a quel momento fossero state un ospite indesiderato ad una festa tra due anime.

Si rotolavano sul materasso in una danza d’amore travolgente, conoscendosi per la prima volta interamente, stupiti dalla chimica che creavano i loro corpi a contatto . Quando furono vicino ad uno dei due comodini lei sentì che le strappava gli occhiali dal volto e che allungava una mano verso il cassetto, lo apriva e vi frugava dentro. Capì cosa stava cercando di afferrare. La sua mano scattò al braccio teso di lui e le labbra furono al suo orecchio:« Ti fidi se ti dico che non ce n’è bisogno? Che non corriamo alcun rischio senza?» ansimò ad occhi chiusi.

«Mi fido. » sussurrò lui e la sua mano ritornò ad accarezzare il corpo di Isotta. Arrivò ovunque, toccando punti che fremevano al contatto con i suoi polpastrelli, la fece percorrere da brividi di piacere intenso e sconquassante, la venerò a suon di baci.

La mano sana della ragazza scattò alle ultime due barriere tra loro, con urgenza furono sfilate insieme. Tra sorrisi e baci aspettavano entrambi il momento giusto, tra carezze e sussurri sapevano che era questione di pochi battiti di cuore.

Non ci fu più nessuna richiesta, le loro strette non lasciavano spazio ad equivoci.

E finalmente successe. Quando lui entrò in lei si lasciarono andare ad un gemito di piacere, univoco ancor prima di essere emesso. Aprirono entrambi gli occhi e si guardarono, sorridendo. Si muovevano uno sopra l’altra in un ritmo dettato dalle loro sensazioni, dai loro sentimenti tornati vivi dopo nove anni e allo stesso tempo appena sbocciati tra quelle lenzuola.

Alex portò le mani al viso di lei e le scostò dalla fronte una ciocca umida, non ruppe il legame del loro sguardo quando le disse: «Sei bellissima. Ci ho messo troppo tempo a capirlo… mi…»

Lei portò un dito sulle sue labbra e disse in un sorriso:«Sono brava ad aspettare. » intrufolò il volto tra il mento e la scapola di Alex, stava provando cose mai provate prima, lui la strinse ancora più forte a sé, nel modo in cui si stringe una persona che non vorresti mai lasciar andare. Aumentarono il ritmo dei loro movimenti mentre i loro respiri si facevano più intensi e ravvicinati, le loro labbra si scontravano ogni tanto e i loro occhi così diversi si cercavano.

E poi eccola lì la felicità! Scoppiò nelle loro teste e nei loro corpi come una bomba atomica e li unì saldamente in un abbraccio intriso di un nuovo vigoroso amore, in un abbraccio che volevano entrambi.

Tre ore dopo…

«Non m’importa di quello che pensi, non m’importa sapere che legarmi ad una delle tue cameriere abbassi il rango della famiglia, non siamo nell’800, e non m’importa che tu vuoi che riprenda la mia carriera da cestista… ne abbiamo già parlato. »

Isotta si era risvegliata al suono di quel ringhio smorzato al di là della porta. Poco prima si era assopita sul petto di Alex, nuda, dopo aver fatto l’amore con lui. Al suo risveglio non l’aveva trovato accanto a lei e ciò l’aveva confusa.

«Da quando mi manchi di rispetto in questo modo, Alex? Ti ho cresciuto. »

Si portò il lenzuolo al corpo sentendo l'altra voce, molto più nitida e alta, che proveniva dall’altra stanza. La voce del suo capo.

«Parla piano, non siamo soli in casa. » lo rimproverò lui.

«Te la sei portata qui? »disse l’uomo con un disprezzo fin troppo udibile.

«Sì, l’ho portata qui perché si è squarciata una mano al lavoro, era esausta e aveva perso sangue… che dovevo fare? »

Isotta si alzò dal letto, sforzandosi di non ascoltare, sapeva benissimo ciò che il suo capo pensava di lei. Con il cuore che batteva all’impazzata si guardò intorno alla ricerca dei suoi vestiti…

«Lasciare che se la cavasse da sola?! »

…Alex li aveva riuniti, piegati e posati sulla scrivania lì vicino. Inforcò gli occhiali, si raccolse i capelli in una crocchia un po’ arruffata e cominciò a vestirsi il più in fretta possibile per scappare via da lì.

«Ommioddio ma ti senti quando parli? Lo sai che ti potrebbe denunciare se non le concedi la malattia? Ed io potrei prenderti a pugni? » si sentì la veemenza con cui lo minacciò.

«Ripeto che ti ho cresciuto io e non mi devi mancare di rispetto. » cercò di imporsi il padre.

«Mi hai cresciuto? Tu? Sei solo stato capace di istillare in me pregiudizi e convinzioni assurde che mi hanno portato a far male a tanta gente, Isotta compresa. Io sono cresciuto davvero quando me ne sono andato altrove. » sputò indignato. «Ora mi devi dire cos’hai contro di lei… è una cameriera capace, la gente entra nel tuo bar per merito suo. Ti sta facendo guadagnare! Stanotte ha solo avuto un incidente, può capitare a tutti… ma la stagione è finita, come potrebbe cambiare qualcosa nelle entrate del Green Sand?Ma soprattutto come puoi odiarla in questo modo? Come puoi dirmi di lasciare che se la cavi da sola? Come puoi non concederle la malattia e volerla licenziare? »

Isotta si appoggiò al muro con la schiena, vicino alla porta, lasciando andare indietro la testa, sapeva cosa stava per accadere, sapeva che il suo segreto sarebbe stato svelato. Aveva paura. Molta paura... di quel genere che ti stringe la gola e a fatica ti fa respirare, di quel genere che arriva quando sai che una disgrazia inevitabile sta per abbattersi su una felicità precaria e a fatica raggiunta. Perchè si era sentita felice dentro l'abbraccio di lui, mentre se ne stavano in silenzio ad ascoltare i loro battiti. Non si sentiva in torto o colpevole, non si sentiva bugiarda. Avrebbe voluto dirgli tutto molto prima ma non ne aveva avuto la forza. Sapeva che l’avrebbe cacciata anche lui per colpa di quell’ingombrante peso che si portava dentro da due mesi, sapeva che non l'avrebbe accettato così presto.

«Tu non ti rendi conto dei guai in cui ti sei cacciato innamorandoti di lei. » disse l’uomo sospirando.

"Forza, sputa il rospo! So che muori dalla voglia di smerdarmi, pallone gonfiato!" imprecò nei suoi pensieri.

«Me la vuoi dire questa cattiveria, per Dio? Almeno la finirai di scocciarmi vedendo che qualunque cosa sia non ho intenzione di permettere che mi separi da lei. » disse esasperato.

“Digliela!” urlò Isotta dentro la testa mentre tratteneva il fiato. "Vuoi che non sappia che mi abbandonerà anche lui? Vuoi che non sappia che scapperà e mi urlerà contro? Vuoi che non sappia che è come tutti gli altri?" grosse gocce salate le rigarono il viso. "Diglielo e facciamola finita! Era tutto troppo bello per durare..."

«Alex, è incinta di un altro uomo. » implacabile quanto una scarica di mitraglia su un solo corpo.

“…mi dispiace, Alex.”

Scivolò con la schiena lungo la parete, sconfitta, schiacciata, smascherata. Gli occhi glauchi erano ormai in tempesta, mentre stringeva
le braccia, con l'amore di una mamma in attesa, su quel ventre ancora piatto abitato da qualcosa di grande solo suo.

FINE


*Air Jordan ovvero Michael Jordan, famoso cestista statunitense.
  
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