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Autore: AnAngelFallenFromGrace    03/11/2008    3 recensioni
*ALTERNATIVE ENDING* "E' strano pensare a quante cose possa riservarti il futuro. Talvolta nulla. Talvolta un sogno. La seconda opzione sembra di gran lunga preferibile. Ma siamo sicuri che lo sia? Il momento di svegliarsi e aprire gli occhi, di riaffacciarci al mondo reale, arriva sempre. Presto o tardi. E fa male." Una ragazza normale, un viaggio per sfuggire alla realtà, un incontro molto particolare, l'inizio di un sogno. Ma quanto potrà durare? Dal mio lato romantico e poco sadico (XD) eccovi questa ff^^ Dedicata alla mia "Arianna", la mia mentora XD
Genere: Romantico, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Nuovo personaggio, Ville Valo
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Chapter 28

Crash

And, finally, the end

22 Maggio

 

Contrariamente ad ogni mia aspettativa, il giorno successivo sembrò assecondare ogni previsione fatta da Ville. Tanto da farmi riflettere sul fatto che, forse, il nomignolo di pessimista cronica, riferito alla mia persona, non era poi lontano dal vero.

 

Tutto cominciò quel mattino: mentre io e Arianna preparavamo i tavoli per il pranzo nel ristorante dove lavoravamo come cameriere, fui richiamata dalla direttrice di sala nell’ingresso.

Intento a sbirciare i pesci multicolori di un acquario, trovai il chitarrista degli HIM.

“Linde?” esclamai sorpresa.

Lui si voltò, posando lo sguardo prima sul mio viso e poi, subito dopo, sulle forchette che ancora impugnavo.

“Hai deciso di pugnalarmi?” ridacchiò, alzando un sopracciglio.

“Cosa?” mi accorsi che il modo in cui tenevo le posate non era proprio raccomandabile “Oh, no, che stai dicendo” borbottai imbarazzata, lasciandole cadere nella tasca del grembiule. “By the way, cosa diavolo ci fai qui?”

Lui non riuscì a trattenere un altro sorriso divertito.

“Ehm cioè, volevo dire, come mai da queste parti?” Volevo sprofondare.

 

“Ti ho portato questo” mi spiegò, porgendomi un pezzo di carta plastificata.

Lo presi, titubante, e lo osservai curiosa: si trattava di un invito. L’invito per la festa di beneficenza di quella sera.

“Come lo hai avuto?”

Lui alzò le spalle: “Che importanza ha?”

Mi morsi la lingua, sorridendo: “Nessuna, immagino”

“Vuoi venire?” mi interrogò, facendo una faccia buffa.

 

Ci pensai qualche istante: non ero sicura di voler affrontare tutte quelle persone. Non sarebbe stata più la stessa cosa, adesso che si sapeva tutto di me e Ville. D’altra parte era forse egoistico lasciarlo far fronte a tutto, ancora una volta, da solo.

“Sì” assicurai infine, stringendo più forte il biglietto “Grazie”

Lui si sfiorò la visiera del cappello, in atto di saluto: “A stasera”.

 

***

 

La festa era stata organizzata in un antico palazzo dell’inizio del secolo. Attraversai lentamente l’ingresso, seguendo alcuni invitati che si dirigevano al piano superiore. Percorsi una lunga scalinata, lasciando scivolare le dita su un liscio corrimano dipinto d’oro. All’entrata della sala principale sollevai il capo, con un sospiro: i soffitti, altissimi erano decorati con stucchi e affreschi; angeli dalle lunghe ali posavano i loro occhi stanchi su donne e uomini elegantemente vestiti.

 

Mi domandai quanti ricevimenti avessero visto quegli angeli, quali balli, quali abiti, quali intrighi, quali segreti.

Sorrisi della mia fantasia troppo fervida e passai oltre.

 

Mi confusi nella folla, incrociando curiosi sguardi, fuggendo volti sconosciuti.

Mentre giravo in tondo, guardandomi intorno senza posa, urtai accidentalmente qualcuno. E persi quella stupida borsetta che avevano insistito che portassi come accompagnamento al mio abito.

“Mi dispiace” mi scusai, alzando una mano alla fronte.

“No, scusami tu” replicò lo sconosciuto, chinatosi rapidamente ai miei piedi. Mi porse la borsetta con un sorriso, ed io rimasi a lungo a fissare i suoi lunghi e bellissimi capelli biondi.

“Ti sei persa?” domandò, notando il mio spaesamento.

“Ehm…in un certo senso” biascicai, grattandomi il collo “Non riesco a trovare delle persone”

“Beh in questa folla è più che normale” notò. Lo guardai meglio in faccia, e mi accorsi che aveva un naso davvero strano. Mi resi anche conto che quel viso non mi era estraneo…

“Se vuoi posso accompagnarti al tavolo del buffet. Li è più facile trovare qualcuno” ridacchiò, allungando un braccio come per indicarmi la strada.

“Grazie” gli sorrisi, lasciandomi guidare.

 

Fu in quel momento che intravidi Manna e Luisa, sedute ad un tavolino.

“Ho appena visto la mia ancora di salvezza” lo informai, fermandomi e sfiorandogli il braccio.

“Benissimo” accolse la notizia con un altro mezzo sorriso “Allora il mio compito si è concluso. Ora devo fuggire, oh donzella in difficoltà. Alla prossima” e con un profondo inchino si dileguò tra la folla.

 

Raggiunsi le due donne, che all’inizio quasi non mi riconobbero. Il lungo abito di raso blu, lungo fino alle caviglie, che mi era stato prestato da Katriina, non era di certo molto da me.

Così come quegli stupidi tacchi che non potevo sopportare, e i capelli legati stretti in uno chignon sopra la testa.

“Olivia ti avrebbe scambiata per una principessa” mi rivelò Manna “Anche se non avrebbe visto di buon occhio i tuoi capelli imprigionati in quel modo”

Insieme attendemmo che i diversi gruppi che erano stati invitati si esibissero su un piccolo palco che era stato montato per l’occasione e che forse stonava un pochino con il resto del palazzo.

 

Gli HIM suonarono per terzi, subito dopo gli Apocalyptica. Mi diedi mentalmente dieci mila volte della stupida, quando riconobbi tra i tre violoncellisti il mio salvatore.

Era strano vedere Ville vestito in giacca e cravatta. Uno spettacolo davvero buffo. Dopotutto, non sembravo essere l’unica persona non proprio a suo agio quella sera.

Mi tenni nascosta il più possibile, sebbene fossi sicura che Ville non avrebbe mai alzato tanto gli occhi sulla folla, per evitare di esserne distratto. Cantò Wicked Game, e subito dopo The funeral of hearts.

 

Mi sentii stringere il cuore quando le sue labbra si incurvarono in un sorriso, forse mentre ripensava alla sera precedente.

 

Pochi minuti dopo la fine della loro esibizione il gruppo ci aveva già raggiunto. Tutti gli HIM, meno un componente.

Incrociai lo sguardo di Linde, mordendomi la lingua per non comportarmi come una bambina, ed essere discreta, senza chiedere immediatamente dove fosse finito.

“Non sa che sei qui” mi disse il chitarrista, leggendomi nel pensiero “Voleva essere una sorpresa, giusto?”

“Oh” mormorai, piuttosto confusa dalle sue parole “Credo di sì”

“E’ in una delle stanze nel corridoio dietro il palco” mi informò “La quarta porta a destra, non ti puoi sbagliare. E’ la stanza che ci hanno dato per prepararci, e per gli strumenti”

Un sorriso affiorò immediatamente sulle mie labbra: “Allora vado…” sussurrai, incerta, non sapendo bene se mi fosse permesso.

Lui annuì, ricambiando il sorriso.

 

Ero troppo felice per potermi accorgere di quella strana tempesta che invadeva i suoi occhi di solito così calmi.

Ero troppo lontana con la mente per potermi accorgere di una parola che uscì leggera dalle sue labbra, così flebile da poter essere percepita solo da un ascoltatore davvero attento.

“Scusa”

 

***

 

Camminai svelta, quasi dimentica del male ai piedi e di quelle stupide macchine da tortura che indossavo.

Quando giunsi nel corridoio deserto mi misi a correre, proprio come una bambina.

La porta era chiusa, ma non a chiave. Mi bastò abbassare la maniglia, e sospingerla lentamente, perché la stanza mi fosse accessibile.

 

Ma non misi mai piede in quella stanza.

 

Ricordo bene la sensazione che provai quella sera, ricordo tutto come se fosse ora. Fu come se d’un tratto il grande gigante Atlante avesse deciso che la sua pena fosse finalmente finita e, senza avvertirmi, avesse abbandonato il fardello del cielo, lasciando che questo crollasse sopra di me, con tutto il suo peso, con tutto il suo dolore.

 

Quando posai i miei occhi sul volto di Ville, non fu la gelosia a trafiggermi, a farmi ribollire il sangue nelle vene per la rabbia. Fu la consapevolezza di averlo perduto per sempre a congelare ogni mio impulso.

 

Un’unica voce gridava nella mia testa, riempiendo la scatola cranica, risuonando in ogni fibra del mio corpo: ‘Ecco, è arrivato il momento. Svegliati. Il sogno è finito’

 

Ci sono cose che sappiamo di sapere, ma non sappiamo spiegare il perché.

Io sapevo che quella donna dai lunghi capelli castani, accesi di fuoco dalla luce artificiale di una lampadario troppo forte, che premeva la sua bocca su quella di Ville, stringendo il suo volto tra le mani tremanti, non era una donna qualunque.

 

Fu per questo che non mi misi ad urlare, non entrai scalciando nella stanza, magari scagliando contro il muro il primo oggetto capitato a tiro. Fu per questo che non corsi da lui, gridandogli in faccia la mia ira per le promesse infrante, per le bugie sussurrate in un abbraccio.

Sapevo che era lei. Lo sentivo, sebbene non l’avessi mai incontrata, sebbene non l’avessi mai vista.

 

Lei. Il mio più grande timore. L’unica, contro cui non avrei mai potuto competere. Era tornata.

 

Come un flash, ripassò davanti ai miei occhi il ricordo dello sguardo del cantante, perso oltre l’orizzonte.

“E’ una questione chiusa comunque. L’oceano ha infisso l’ultima barriera”

“L’oceano non è un ostacolo invalicabile”

Come al solito, il destino aveva scelto il momento più appropriato per darmi ragione.

 

Volevo andarmene, sapevo che dovevo andarmene.

Ma non riuscivo a staccare gli occhi dal suo volto, quasi avessi voluto ricordarne ogni tratto. Conservare un’ultima memoria, prima che il sogno sfuggisse via, per sempre.

 

Stetti troppo a lungo.

 

La borsetta, quella dannata borsetta, mi scivolò tra le dita sudate, cadendo sul pavimento.

Rimasi impietrita sul posto. Ville voltò il capo, all’istante, interrompendo il bacio.

Il mio sguardo, non volendo, incrociò il suo.

 

Fu un secondo, o forse meno. Ma lasciò un marchio indelebile nel mio cuore.

 

Raccolsi da terra la borsetta e corsi via.

Corsi veloce, più veloce che potevo, noncurante di tutti quegli occhi che osservavano curiosi e straniti la mia folle fuga.

Prima di scendere la lunga scalinata di marmo scalzai le scarpe e, senza quasi vedere, volai sui gradini, spaventata, terrorizzata che potesse raggiungermi.

Mentre scendevo, sentii le forcine che tenevano insieme la mia elaborata acconciatura sfilarsi via, una ad una.

 

Ero giunta ormai quasi fuori dall’edificio, quando una mano afferrò il mio polso. Trasalii, trattenendo il fiato.

“Hai perso la scarpetta Cinderella” osservò una voce. Per mia fortuna, non la voce che mi sarei aspettata.

Mi voltai, incontrando ancora gli occhi chiari e questa volta preoccupati di Eicca.

“Ti prego, lasciami andare” sussurrai, mentre sentivo già le lacrime combattere contro la mia volontà per sgorgare libere sul mio volto.

“Cosa ti è successo?” domandò, continuando a tenere ben salda la presa sul mio braccio, quasi avesse temuto che potessi di nuovo perdermi in quella realtà troppo caotica.

“Devo andare via di qui. Subito” dichiarai con voce strozzata, implorandolo con lo sguardo di esaudire il mio desiderio.

Lui lasciò la mia mano, annuendo. Ma prima di lasciarmi fuggire aggiunse: “C’è un taxi qui fuori. Puoi usarlo se vuoi”

 

Senza riuscire ad esprimere quanto gli fossi grata, uscii all’aperto, scoprendo che le nuvole di quel pomeriggio avevano dato vita ad un tremendo acquazzone.

Appena salita sulla macchina, intimai al conducente di partire.

“Ma dove vuole che la porti?” domandò sconcertato l’uomo.

Dissi il primo posto che mi venne in mente, senza pensarci. Poi chiusi gli occhi, lasciandomi cadere sul sedile, esausta.

 

***

 

La terra era soffice sotto i miei piedi nudi, che sprofondavano ad ogni passo nel prato bagnato.

Il cadere incessante della pioggia ovattava ogni suono, rendeva tutto irreale, come sospeso nel tempo.

Camminavo lentamente, ascoltando i battiti irregolari del mio cuore, unico rumore distinto. Unico appiglio alla realtà.

Una folata di vento più forte spinse i miei capelli, sciolti e bagnati, contro il mio volto. Non mi preoccupai di spostarli. Continuai a procedere senza meta.

Sorpassai la piccola costruzione sulla collina. Scivolai sull’erba. Caddi. Mi rialzai.

 

Una vecchia altalena, dalle lunghe corde corrose dal tempo, apparve dal nulla, davanti ai miei occhi appannati.

Dondolai a lungo, il capo abbandonato contro il pugno stretto intorno alle corde.

Piangevo, e i cardini cigolavano. I cardini cigolavano, ed io piangevo. Fin quando il lamento diventò uno, mentre la pioggia intorno a me piano piano cessava, lasciando dietro sé un intenso profumo di fango e di muschio.

 

“Avresti dovuto scegliere un altro posto, se volevi davvero fuggirmi”

La sua voce giunse da così lontano. Da un altro mondo forse. Per molto tempo credetti di averla solo immaginata.

Ma mi costrinsi ad aprire gli occhi e lui era lì, davanti a me. I capelli fradici di pioggia, la cravatta perduta chissà dove, la camicia attaccata al petto che si alzava e abbassava veloce.

 

Era bellissimo. Come la prima volta che lo avevo visto.

Tuttavia adesso sapevo che non sarebbe stato mio.

 

Mi alzai in piedi, asciugandomi il viso con le dita. L’odore del ferro si insinuò nelle mie radici, stordendomi.

Traballai qualche istante, ma recuperai presto l’equilibrio, incamminandomi nella direzione opposta a quella dalla quale era arrivato.

“Lasciami stare” sussurrai fievolmente.

“Aspetta” mi gridò, parando misi davanti “Lasciami spiegare…”

 

Abbassai il capo, non potendo sopportare la vista di quegli occhi pieni di sofferenza.

“Lasciami stare” ripetei, tremando.

“No, non posso” esalò in un lamento “Ti prego ascoltami, devo spiegarti…”

Appoggiò entrambe le sue mani sulle mie braccia e un alito di vento gelido mi accarezzò la faccia, mentre mi sentivo mancare. Non potevo, dovevo essere forte. Almeno per quella volta.

 

“Lasciami stare!” questa volta gridai, scoppiando in un singhiozzo, allontanandomi da lui “Non c’è nulla che puoi spiegarmi. Quel che ho visto mi è bastato”

Ville non demorse. Ad ogni passo che ritraevo, lui si riavvicinava: “No, devo spiegarti” continuava a ripetere: ormai era diventata una cantilena senza senso, il gemito convulso di un folle.

Quando sentii che il dolore era diventato insopportabile, allungai le braccia e lo spinsi con forza, obbligandolo a fermarsi: “Basta!” gli intimai “Smettila, ti prego”

Osai guardare la sua bocca: era muta ora, ma tremava, incessantemente. Una lacrima scivolò sul suo viso, troncandomi il respiro.

No, non doveva piangere. Non doveva.

 

Allungai una mano, incapace di trattenermi, e asciugai il suo viso: “No, non devi piangere” mormorai, scuotendo il capo.

Lui sollevò la sua mano, posandola sulla mia, aggrappandocisi, spingendola più vicina a sé, alle sue labbra.

Sapevo che tutto questo era sbagliato. Ci avrebbe fatto soltanto più male.

“Io non volevo ferirti…” singhiozzò, cercando i miei occhi.

Ritrassi le mani, ma con dolcezza: “Lo so”

“Allora ascoltami”

“Non è necessario.” Feci una pausa “Non voglio”

“Perché?”

 

Avrei voluto coprirmi le orecchie, fuggire da tutto quel dolore.

“Perché sarebbe un’altra bugia” sospirai, trattenendo a mia volta le lacrime.

Lo fermai, prima che potesse replicare: “Forse tu non te ne renderesti nemmeno conto. Ma sarebbero bugie. So che mi vuoi bene, ma è giusto che io me ne vada adesso…”

“No” ribadì testardo.

“Sì invece!” asserii, con tutta la fermezza di cui ero capace “Tu non sei per me. E lo sai anche tu”

 

Mi girai, biascicando il mio ultimo addio.

“Ti amo” gridò, quando mi ero allontanata di forse pochi passi.

Sebbene la ragione mi ordinasse di proseguire, di non voltarmi più indietro, non potei ascoltarla.

Mi fermai, stringendo le dita intorno al mio vestito, fin quasi a farmi male.

Mi pugnalò alle spalle, penetrando fino al cuore. Perché le sue parole, per quell’unica volta, non furono in inglese.

 

Sapeva che un ‘I love you’ non avrebbe significato nulla. Un ‘I love you’ non avrebbe mai potuto definire un sentimento. Qual è il filo sottile che divide affetto e amore? Quel verbo non riusciva a designarlo.

Pronunciò quell’unica frase nella mia lingua, lasciandomi senza parole.

 

Forse, se quello fosse stato veramente un sogno, o una bella favola, mi sarei gettata tra le sue braccia, urlando ‘Anch’io. Per sempre’. E avrei cercato la sua bocca, ancora e ancora, godendo del suo abbraccio, delle sue mani sul mio corpo.

 

Ma quella non era una favola. Era la vita reale ed io non potevo più permettermi di sognare.

Di credere ad una bugia, che pur dolce, innocente e inconsapevole, restava sempre una bugia.

 

“Ti amo” ripetè, facendosi sempre più vicino.

Serrai le palpebre e strinsi i denti per un ultima volta.

Poi mi voltai e trovai la forza per guardarlo negli occhi, con tanta intensità che ne fu quasi sorpreso, tanto che le parole gli morirono sulle labbra.

“No. Non è così. Per quanto mi piacerebbe crederlo, per quanto lo desideri con tutta me stessa” sorrisi con malinconia e forse un po’ di rancore “questa non è la verità. Ciò che c’è stato fra noi è finito”

 

Presi nel pugno l’heartagram che pendeva dal mio collo e strappai la catenella con violenza.

“Finito, Ville, capisci? Per sempre”

Lasciai cadere la collana ai suoi piedi.

 

“Esprimi un desiderio”

 

 

 

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No beh, giusto per dire quanto sono normale…solo io posso smettere di postare una storia a due capitoli dalla fine…

Vabbè ma tanto avete capito che non sono normale…

Comunque eccoci arrivati al finalone strappalacrime…

Ve lo aspettavate??’ Volete uccidermi? Volete riuccidermi (per chi già lo conosce xD)? Se qualcuno ancora legge mi faccia sapere ^^

Comunque manca ancora l’epilogo xD

 

Grazie millissime ai miei lettori e in particolare a Crist <3

 

Tornerò presto! I promise

Baciniiii

FAllenAngel

  
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