Chapter
28
Crash
And,
finally, the end
22
Maggio
Contrariamente
ad ogni mia aspettativa, il giorno
successivo sembrò assecondare ogni previsione fatta da
Ville. Tanto da farmi
riflettere sul fatto che, forse, il nomignolo di pessimista cronica,
riferito
alla mia persona, non era poi lontano dal vero.
Tutto
cominciò quel mattino: mentre io e Arianna
preparavamo i tavoli per il pranzo nel ristorante dove lavoravamo come
cameriere, fui richiamata dalla direttrice di sala
nell’ingresso.
Intento
a sbirciare i pesci multicolori di un
acquario, trovai il chitarrista degli HIM.
“Linde?”
esclamai sorpresa.
Lui si
voltò, posando lo sguardo prima sul mio viso
e poi, subito dopo, sulle forchette che ancora impugnavo.
“Hai
deciso di pugnalarmi?” ridacchiò, alzando un
sopracciglio.
“Cosa?”
mi accorsi che il modo in cui tenevo le
posate non era proprio raccomandabile “Oh, no, che stai
dicendo” borbottai
imbarazzata, lasciandole cadere nella tasca del grembiule.
“By the way, cosa
diavolo ci fai qui?”
Lui
non riuscì a trattenere un altro sorriso
divertito.
“Ehm
cioè, volevo dire, come mai da queste parti?”
Volevo sprofondare.
“Ti
ho portato questo” mi spiegò, porgendomi un
pezzo di carta plastificata.
Lo
presi, titubante, e lo osservai curiosa: si
trattava di un invito. L’invito per la festa di beneficenza
di quella sera.
“Come
lo hai avuto?”
Lui
alzò le spalle: “Che importanza ha?”
Mi
morsi la lingua, sorridendo: “Nessuna, immagino”
“Vuoi
venire?” mi interrogò, facendo una faccia
buffa.
Ci
pensai qualche istante: non ero sicura di voler
affrontare tutte quelle persone. Non sarebbe stata più la
stessa cosa, adesso
che si sapeva tutto di me e Ville. D’altra parte era forse
egoistico lasciarlo
far fronte a tutto, ancora una volta, da solo.
“Sì”
assicurai infine, stringendo più forte il
biglietto “Grazie”
Lui si
sfiorò la visiera del cappello, in atto di
saluto: “A stasera”.
***
La
festa era stata organizzata in un antico palazzo
dell’inizio del secolo. Attraversai lentamente
l’ingresso, seguendo alcuni
invitati che si dirigevano al piano superiore. Percorsi una lunga
scalinata,
lasciando scivolare le dita su un liscio corrimano dipinto
d’oro. All’entrata
della sala principale sollevai il capo, con un sospiro: i soffitti,
altissimi
erano decorati con stucchi e affreschi; angeli dalle lunghe ali
posavano i loro
occhi stanchi su donne e uomini elegantemente vestiti.
Mi
domandai quanti ricevimenti avessero visto
quegli angeli, quali balli, quali abiti, quali intrighi, quali segreti.
Sorrisi
della mia fantasia troppo fervida e passai
oltre.
Mi
confusi nella folla, incrociando curiosi
sguardi, fuggendo volti sconosciuti.
Mentre
giravo in tondo, guardandomi intorno senza
posa, urtai accidentalmente qualcuno. E persi quella stupida borsetta
che
avevano insistito che portassi come accompagnamento al mio abito.
“Mi
dispiace” mi scusai, alzando una mano alla
fronte.
“No,
scusami tu” replicò lo sconosciuto, chinatosi
rapidamente ai miei piedi. Mi porse la borsetta con un sorriso, ed io
rimasi a
lungo a fissare i suoi lunghi e bellissimi capelli biondi.
“Ti
sei persa?” domandò, notando il mio
spaesamento.
“Ehm…in
un certo senso” biascicai, grattandomi il
collo “Non riesco a trovare delle persone”
“Beh
in questa folla è più che normale”
notò. Lo
guardai meglio in faccia, e mi accorsi che aveva un naso davvero
strano. Mi
resi anche conto che quel viso non mi era estraneo…
“Se
vuoi posso accompagnarti al tavolo del buffet.
Li è più facile trovare qualcuno”
ridacchiò, allungando un braccio come per
indicarmi la strada.
“Grazie”
gli sorrisi, lasciandomi guidare.
Fu in
quel momento che intravidi Manna e Luisa,
sedute ad un tavolino.
“Ho
appena visto la mia ancora di salvezza” lo
informai, fermandomi e sfiorandogli il braccio.
“Benissimo”
accolse la notizia con un altro mezzo
sorriso “Allora il mio compito si è concluso. Ora
devo fuggire, oh donzella in
difficoltà. Alla prossima” e con un profondo
inchino si dileguò tra la folla.
Raggiunsi
le due donne, che all’inizio quasi non mi
riconobbero. Il lungo abito di raso blu, lungo fino alle caviglie, che
mi era
stato prestato da Katriina, non era di certo molto da me.
Così
come quegli stupidi tacchi che non potevo
sopportare, e i capelli legati stretti in uno chignon sopra la testa.
“Olivia
ti avrebbe scambiata per una principessa”
mi rivelò Manna “Anche se non avrebbe visto di
buon occhio i tuoi capelli
imprigionati in quel modo”
Insieme
attendemmo che i diversi gruppi che erano
stati invitati si esibissero su un piccolo palco che era stato montato
per
l’occasione e che forse stonava un pochino con il resto del
palazzo.
Gli
HIM suonarono per terzi, subito dopo gli
Apocalyptica. Mi diedi mentalmente dieci mila volte della stupida,
quando
riconobbi tra i tre violoncellisti il mio salvatore.
Era
strano vedere Ville vestito in giacca e
cravatta. Uno spettacolo davvero buffo. Dopotutto, non sembravo essere
l’unica
persona non proprio a suo agio quella sera.
Mi
tenni nascosta il più possibile, sebbene fossi
sicura che Ville non avrebbe mai alzato tanto gli occhi sulla folla,
per
evitare di esserne distratto. Cantò Wicked Game, e subito
dopo The funeral of hearts.
Mi
sentii stringere il cuore quando le sue labbra
si incurvarono in un sorriso, forse mentre ripensava alla sera
precedente.
Pochi
minuti dopo la fine della loro esibizione il
gruppo ci aveva già raggiunto. Tutti gli HIM, meno un
componente.
Incrociai
lo sguardo di Linde, mordendomi la lingua
per non comportarmi come una bambina, ed essere discreta, senza
chiedere
immediatamente dove fosse finito.
“Non
sa che sei qui” mi disse il chitarrista,
leggendomi nel pensiero “Voleva essere una sorpresa,
giusto?”
“Oh”
mormorai, piuttosto confusa dalle sue parole
“Credo di sì”
“E’
in una delle stanze nel corridoio dietro il
palco” mi informò “La quarta porta a
destra, non ti puoi sbagliare. E’ la
stanza che ci hanno dato per prepararci, e per gli strumenti”
Un
sorriso affiorò immediatamente sulle mie labbra:
“Allora vado…” sussurrai, incerta, non
sapendo bene se mi fosse permesso.
Lui
annuì, ricambiando il sorriso.
Ero
troppo felice per potermi accorgere di quella
strana tempesta che invadeva i suoi occhi di solito così
calmi.
Ero
troppo lontana con la mente per potermi
accorgere di una parola che uscì leggera dalle sue labbra,
così flebile da
poter essere percepita solo da un ascoltatore davvero attento.
“Scusa”
***
Camminai
svelta, quasi dimentica del male ai piedi
e di quelle stupide macchine da tortura che indossavo.
Quando
giunsi nel corridoio deserto mi misi a
correre, proprio come una bambina.
La
porta era chiusa, ma non a chiave. Mi bastò
abbassare la maniglia, e sospingerla lentamente, perché la
stanza mi fosse
accessibile.
Ma non
misi mai piede in quella stanza.
Ricordo
bene la sensazione che provai quella sera,
ricordo tutto come se fosse ora. Fu come se d’un tratto il
grande gigante
Atlante avesse deciso che la sua pena fosse finalmente finita e, senza
avvertirmi, avesse abbandonato il fardello del cielo, lasciando che
questo
crollasse sopra di me, con tutto il suo peso, con tutto il suo dolore.
Quando
posai i miei occhi sul volto di Ville, non
fu la gelosia a trafiggermi, a farmi ribollire il sangue nelle vene per
la
rabbia. Fu la consapevolezza di averlo perduto per sempre a congelare
ogni mio
impulso.
Un’unica
voce gridava nella mia testa, riempiendo
la scatola cranica, risuonando in ogni fibra del mio corpo:
‘Ecco, è arrivato
il momento. Svegliati. Il sogno è finito’
Ci
sono cose che sappiamo di sapere, ma non
sappiamo spiegare il perché.
Io
sapevo che quella donna dai lunghi capelli
castani, accesi di fuoco dalla luce artificiale di una lampadario
troppo forte,
che premeva la sua bocca su quella di Ville, stringendo il suo volto
tra le
mani tremanti, non era una donna qualunque.
Fu per
questo che non mi misi ad urlare, non entrai
scalciando nella stanza, magari scagliando contro il muro il primo
oggetto
capitato a tiro. Fu per questo che non corsi da lui, gridandogli in
faccia la
mia ira per le promesse infrante, per le bugie sussurrate in un
abbraccio.
Sapevo
che era lei. Lo sentivo, sebbene non
l’avessi mai incontrata, sebbene non l’avessi mai
vista.
Lei.
Il mio più grande timore. L’unica, contro cui
non avrei mai potuto competere. Era tornata.
Come
un flash, ripassò davanti ai miei occhi il
ricordo dello sguardo del cantante, perso oltre l’orizzonte.
“E’
una
questione chiusa comunque. L’oceano ha infisso
l’ultima barriera”
“L’oceano
non
è un ostacolo invalicabile”
Come
al solito, il destino aveva scelto il momento
più appropriato per darmi ragione.
Volevo
andarmene, sapevo che dovevo andarmene.
Ma non
riuscivo a staccare gli occhi dal suo volto,
quasi avessi voluto ricordarne ogni tratto. Conservare
un’ultima memoria, prima
che il sogno sfuggisse via, per sempre.
Stetti
troppo a lungo.
La
borsetta, quella dannata borsetta, mi scivolò
tra le dita sudate, cadendo sul pavimento.
Rimasi
impietrita sul posto. Ville voltò il capo,
all’istante, interrompendo il bacio.
Il mio
sguardo, non volendo, incrociò il suo.
Fu un
secondo, o forse meno. Ma lasciò un marchio
indelebile nel mio cuore.
Raccolsi
da terra la borsetta e corsi via.
Corsi
veloce, più veloce che potevo, noncurante di
tutti quegli occhi che osservavano curiosi e straniti la mia folle fuga.
Prima
di scendere la lunga scalinata di marmo
scalzai le scarpe e, senza quasi vedere, volai sui gradini, spaventata,
terrorizzata che potesse raggiungermi.
Mentre
scendevo, sentii le forcine che tenevano
insieme la mia elaborata acconciatura sfilarsi via, una ad una.
Ero
giunta ormai quasi fuori dall’edificio, quando
una mano afferrò il mio polso. Trasalii, trattenendo il
fiato.
“Hai
perso la scarpetta Cinderella” osservò una
voce. Per mia fortuna, non la voce che mi sarei aspettata.
Mi
voltai, incontrando ancora gli occhi chiari e
questa volta preoccupati di Eicca.
“Ti
prego, lasciami andare” sussurrai, mentre
sentivo già le lacrime combattere contro la mia
volontà per sgorgare libere sul
mio volto.
“Cosa
ti è successo?” domandò, continuando a
tenere
ben salda la presa sul mio braccio, quasi avesse temuto che potessi di
nuovo
perdermi in quella realtà troppo caotica.
“Devo
andare via di qui. Subito” dichiarai con voce
strozzata, implorandolo con lo sguardo di esaudire il mio desiderio.
Lui
lasciò la mia mano, annuendo. Ma prima di
lasciarmi fuggire aggiunse: “C’è un taxi
qui fuori. Puoi usarlo se vuoi”
Senza
riuscire ad esprimere quanto gli fossi grata,
uscii all’aperto, scoprendo che le nuvole di quel pomeriggio
avevano dato vita
ad un tremendo acquazzone.
Appena
salita sulla macchina, intimai al conducente
di partire.
“Ma
dove vuole che la porti?” domandò sconcertato
l’uomo.
Dissi
il primo posto che mi venne in mente, senza
pensarci. Poi chiusi gli occhi, lasciandomi cadere sul sedile, esausta.
***
La
terra era soffice sotto i miei piedi nudi, che
sprofondavano ad ogni passo nel prato bagnato.
Il
cadere incessante della pioggia ovattava ogni
suono, rendeva tutto irreale, come sospeso nel tempo.
Camminavo
lentamente, ascoltando i battiti
irregolari del mio cuore, unico rumore distinto. Unico appiglio alla
realtà.
Una
folata di vento più forte spinse i miei
capelli, sciolti e bagnati, contro il mio volto. Non mi preoccupai di
spostarli. Continuai a procedere senza meta.
Sorpassai
la piccola costruzione sulla collina.
Scivolai sull’erba. Caddi. Mi rialzai.
Una
vecchia altalena, dalle lunghe corde corrose
dal tempo, apparve dal nulla, davanti ai miei occhi appannati.
Dondolai
a lungo, il capo abbandonato contro il
pugno stretto intorno alle corde.
Piangevo,
e i cardini cigolavano. I cardini
cigolavano, ed io piangevo. Fin quando il lamento diventò
uno, mentre la
pioggia intorno a me piano piano cessava, lasciando dietro
sé un intenso
profumo di fango e di muschio.
“Avresti
dovuto scegliere un altro posto, se volevi
davvero fuggirmi”
La sua
voce giunse da così lontano. Da un altro
mondo forse. Per molto tempo credetti di averla solo immaginata.
Ma mi
costrinsi ad aprire gli occhi e lui era lì,
davanti a me. I capelli fradici di pioggia, la cravatta perduta
chissà dove, la
camicia attaccata al petto che si alzava e abbassava veloce.
Era
bellissimo. Come la prima volta che lo avevo
visto.
Tuttavia
adesso sapevo che non sarebbe stato mio.
Mi
alzai in piedi, asciugandomi il viso con le
dita. L’odore del ferro si insinuò nelle mie
radici, stordendomi.
Traballai
qualche istante, ma recuperai presto
l’equilibrio, incamminandomi nella direzione opposta a quella
dalla quale era
arrivato.
“Lasciami
stare” sussurrai fievolmente.
“Aspetta”
mi gridò, parando misi davanti “Lasciami
spiegare…”
Abbassai
il capo, non potendo sopportare la vista
di quegli occhi pieni di sofferenza.
“Lasciami
stare” ripetei, tremando.
“No,
non posso” esalò in un lamento “Ti prego
ascoltami, devo spiegarti…”
Appoggiò
entrambe le sue mani sulle mie braccia e
un alito di vento gelido mi accarezzò la faccia, mentre mi
sentivo mancare. Non
potevo, dovevo essere forte. Almeno per quella volta.
“Lasciami
stare!” questa volta gridai, scoppiando
in un singhiozzo, allontanandomi da lui “Non
c’è nulla che puoi spiegarmi. Quel
che ho visto mi è bastato”
Ville
non demorse. Ad ogni passo che ritraevo, lui
si riavvicinava: “No, devo spiegarti” continuava a
ripetere: ormai era
diventata una cantilena senza senso, il gemito convulso di un folle.
Quando
sentii che il dolore era diventato
insopportabile, allungai le braccia e lo spinsi con forza, obbligandolo
a
fermarsi: “Basta!” gli intimai “Smettila,
ti prego”
Osai
guardare la sua bocca: era muta ora, ma
tremava, incessantemente. Una lacrima scivolò sul suo viso,
troncandomi il
respiro.
No,
non doveva piangere. Non doveva.
Allungai
una mano, incapace di trattenermi, e
asciugai il suo viso: “No, non devi piangere”
mormorai, scuotendo il capo.
Lui
sollevò la sua mano, posandola sulla mia,
aggrappandocisi, spingendola più vicina a sé,
alle sue labbra.
Sapevo
che tutto questo era sbagliato. Ci avrebbe
fatto soltanto più male.
“Io
non volevo ferirti…” singhiozzò,
cercando i
miei occhi.
Ritrassi
le mani, ma con dolcezza: “Lo so”
“Allora
ascoltami”
“Non
è necessario.” Feci una pausa “Non
voglio”
“Perché?”
Avrei
voluto coprirmi le orecchie, fuggire da tutto
quel dolore.
“Perché
sarebbe un’altra bugia” sospirai,
trattenendo a mia volta le lacrime.
Lo
fermai, prima che potesse replicare: “Forse tu
non te ne renderesti nemmeno conto. Ma sarebbero bugie. So che mi vuoi
bene, ma
è giusto che io me ne vada adesso…”
“No”
ribadì testardo.
“Sì
invece!” asserii, con tutta la fermezza di cui
ero capace “Tu non sei per me. E lo sai anche tu”
Mi
girai, biascicando il mio ultimo addio.
“Ti
amo” gridò, quando mi ero allontanata di forse
pochi passi.
Sebbene
la ragione mi ordinasse di proseguire, di
non voltarmi più indietro, non potei ascoltarla.
Mi
fermai, stringendo le dita intorno al mio
vestito, fin quasi a farmi male.
Mi
pugnalò alle spalle, penetrando fino al cuore.
Perché le sue parole, per quell’unica volta, non
furono in inglese.
Sapeva
che un ‘I love you’ non avrebbe significato
nulla. Un ‘I love you’ non avrebbe mai potuto
definire un sentimento. Qual è il
filo sottile che divide affetto e amore? Quel verbo non riusciva a
designarlo.
Pronunciò
quell’unica frase nella mia lingua,
lasciandomi senza parole.
Forse,
se quello fosse stato veramente un sogno, o
una bella favola, mi sarei gettata tra le sue braccia, urlando
‘Anch’io. Per
sempre’. E avrei cercato la sua bocca, ancora e ancora,
godendo del suo abbraccio,
delle sue mani sul mio corpo.
Ma
quella non era una favola. Era la vita reale ed
io non potevo più permettermi di sognare.
Di
credere ad una bugia, che pur dolce, innocente e
inconsapevole, restava sempre una bugia.
“Ti
amo” ripetè, facendosi sempre più
vicino.
Serrai
le palpebre e strinsi i denti per un ultima
volta.
Poi mi
voltai e trovai la forza per guardarlo negli
occhi, con tanta intensità che ne fu quasi sorpreso, tanto
che le parole gli
morirono sulle labbra.
“No.
Non è così. Per quanto mi piacerebbe crederlo,
per quanto lo desideri con tutta me stessa” sorrisi con
malinconia e forse un
po’ di rancore “questa non è la
verità. Ciò che c’è stato
fra noi è finito”
Presi
nel pugno l’heartagram che pendeva dal mio
collo e strappai la catenella con violenza.
“Finito,
Ville, capisci? Per sempre”
Lasciai
cadere la collana ai suoi piedi.
“Esprimi
un
desiderio”
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No
beh, giusto per dire
quanto sono normale…solo io posso smettere di postare una
storia a due capitoli
dalla fine…
Vabbè
ma tanto avete capito
che non sono normale…
Comunque
eccoci arrivati al
finalone strappalacrime…
Ve
lo aspettavate??’ Volete
uccidermi? Volete riuccidermi (per chi già lo conosce xD)?
Se qualcuno ancora
legge mi faccia sapere ^^
Comunque
manca ancora l’epilogo
xD
Grazie
millissime ai miei
lettori e in particolare a Crist <3
Tornerò
presto! I promise
Baciniiii
FAllenAngel