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Autore: Stormix    06/12/2014    1 recensioni
[...] «Benvenuto al Collegio più prestigioso di tutta la contea: The Dixon's.» disse. «Qui impartiamo una rigida educazione a monelli come te, ragazzo mio.» soggiunse infine.
[...] «M-Mi chiamo Danny, signora.» le dissi con quel poco filo di voce che avevo. «Perché mi trovo qui?»
«Sappiamo benissimo chi sei, Danny.» replicò immediatamente ella, portando le mani nelle tasche del camice. «Sei qui perché i tuoi genitori ti hanno assegnato a questo Collegio. Sai, sappiamo di tutte le tue marachelle; sappiamo tutto di te.» Concluse abbozzando un sorrisetto fastidioso e un tantino beffardo.
«P-Per quanto tempo dovrò stare qui?» Domandai rassegnato.
“Fin quanto basterà, Danny.” Ribatté celermente, quasi come se avesse tutte le risposte alle domande che le stavo ponendo.
[...] «Per un po' sarai privato della possibilità di usare le mani; in questa maniera capirai che con esse non si possono combinare sempre e solo guai... come hai fatto fino ad ora.» Mi rimproverò la donna, «Mi auguro che queste orette, sole con te stesso, ti aiuteranno. A dopo.» Finì, per poi voltarsi ed andarsene dalla stanza in compagnia dei due uomini. Serrarono la porta, con due movimenti di chiave, e spensero inoltre la luce.
Genere: Commedia, Drammatico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 1.
Buio. Era tutto così dannatamente buio. Non sapevo di preciso cosa mi stesse accadendo, eppure potevo udire in lontananza rumori che riconducessero a quella cosa che odiavo in assoluto più di tutti: il collegio. Sì, mi stavano portando nuovamente in quel luogo tremendo; cosa avevo combinato questa volta? Sarà stata di sicuro mia madre che, disperata, avrà scelto una volta per tutte di farla finita con me e di portarmi via di casa... forse per sempre.
D'altronde, non ero il modello di figlio che tutti speravano di avere: data la mia stazza che me lo permetteva, mi affermavo sempre con la mia fisicità, con i miei amici e con i miei genitori compresi. Quest'ultimi, disperati, non sapevano proprio più che fare con me: lo psicologo stesso aveva consigliato loro di farmi allontanare dalla società per un po', per imparare prima le regole che mi permettessero di convivere in essa. Ma io non avevo alcuna intenzione di andarmene di casa, la mia bellissima villa nel centro di Boston, abbandonando quelle poche persone che tentavano di capirmi. E Charlie poi? Il mio fedele compagno, un meticcio trovato per strada, non poteva vivere senza di me; non lo dico per arroganza, ma insieme eravamo davvero inseparabili. Non potevo separarmene. Non volevo. 
Tuttavia, sembrava proprio essere così ormai. Davanti a me c'era solo il buio ora; molto probabilmente mi avevano bendato e portato via con la forza da casa, perché mi sentivo di essere trascinato... vi domanderete perché non ero sicuro di questo, e lascio intendere a voi.
 Sentivo le braccia scoppiare, le gambe altrettanto; coloro che mi stavano portando facevano pressione sui miei arti in una maniera assurda. Avrei tanto voluto gridare di lasciarmi stare, ma ero anche imbavagliato. Neanche i carcerati venivano trattati così. 
Inaspettatamente, sentii un rumore sordo e percepii una superficie morbida sulla quale era poggiata la mia schiena. Finalmente mi tolsero le bende dagli occhi, senza comunque togliermi il bavaglio dalla bocca. Strizzai gli occhi a contatto con la troppa luce, e compresi che il luogo che mi circondava era una stanza a tutti gli effetti, ed ero sdraiato su di un letto a castello. Difronte a me tre figure, tra cui due uomini belli grandi e barbuti, ed una donna che indossava un camice bianco perla. Aveva i capelli raccolti in una specie di benda, come un'infermiera, ed era di statura alquanto minuta. Le rughe che le contornavano il viso mi facevano pensare che avesse approssimativamente una cinquantina d'anni, se non di più. Ella si schiarì la voce e si rivolse a me con estrema professionalità.
«Benvenuto al Collegio più prestigioso di tutta la contea: The Dixon's.» disse. «Qui impartiamo una rigida educazione a monelli come te, ragazzo mio.» soggiunse infine. 
La voglia di risponderle a modo cominciava ad adornare minuziosamente la mia mente, facendomi venire i brividi sulla schiena. Ma non potevo, per due ragioni: in primo luogo ero privato della facoltà di replicare, dato il bavaglio; in secondo luogo, mi avrebbero senz'altro punito per questo. E non avevo di certo intenzione di mettermi nei guai più di quanto ci fossi finito già. Intanto la mia vista si stava abituando finalmente alla luminosità di quella stanza. La donna fece spalluce, e tornò a parlare.
«Penso sia superficiale citarti il Regolamento, dato che potrai e dovrai leggerlo tu stesso fra qualche minuto,» disse sorridendo in maniera beffarda, quasi come se mi stesse schernendo. «Così perlomeno incomincerai a prenderti le tue prime responsabilità. Toglietegli la benda, voglio sentire la sua voce ora.» concluse infine, incitando l'uomo alla sua destra a congedare la benda fastidiosa posta sulla mia bocca, gesticolando con le mani.
Stavo provando ad ascoltare con attenzione tutto ciò che mi stava dicendo quella donna, tuttavia non appena sentii l'ultima frase, mi riempii di ilarità; finalmente mi avrebbero tolto quella fastidiosa benda, e finalmente avrei potuto rispondere a modo. L'uomo si avvicinò con pigrizia, e mi tolse quell'affare con altrettanta pacatezza e noncuranza. Colpo di scena: non dissi nulla. Mi tremavano le gambe e le mani, compresi tutti i muscoli del mio corpo, anche quelli di cui non ero a conoscenza. La fronte si bagnò, e subito percepii un forte calore provenire da essa. Ero furioso, ma allo stesso tempo non volevo urlare, intimando di portarmi via da quel luogo, poiché ormai era una realtà che dovevo accettare. Sospirai rumorosamente, chinando il capo. Non sapevo cosa dire. Al di là del fatto che non ero mai stato molto bravo con le parole, in quel momento avrei voluto far tutto tranne che parlare. Mi feci coraggio, d'altronde avrei dovuto quantomeno precisare il mio nome, anche se ero certo che già ne fossero pienamente a conoscenza. Eppure, dimostrarmi educato, non sarebbe stata una cosa malvagia. «M-Mi chiamo Danny, signora.» le dissi con quel poco filo di voce che avevo. «Perché mi trovo qui?»
«Sappiamo benissimo chi sei, Danny.» replicò immediatamente ella, portando le mani nelle tasche del camice. «Sei qui perché i tuoi genitori ti hanno assegnato a questo Collegio. Sai, sappiamo di tutte le tue marachelle; sappiamo tutto di te.» Concluse abbozzando un sorrisetto fastidioso e un tantino beffardo.
«P-Per quanto tempo dovrò stare qui?» Domandai rassegnato.
“Fin quanto basterà, Danny.” Ribatté celermente, quasi come se avesse tutte le risposte alle domande che le stavo ponendo.
«Rimarrai qui per ora. Fra qualche minuto è ora di cena, pertanto ti verremo a chiamare noi stessi. Indossa questa divisa, e non fare altre domande.» Concluse con tono seccato.
Uno dei due uomini, anche questa volta, si avvicinò a me e buttò a terra quella divisa che avrei dovuto indossare. Mi slegò e mi invitò a togliermi i vestiti subito. Provai vergogna, lo ammetto, d'altronde mi sarei dovuto privare dei vestiti difronte a tre persone che non conoscevo, tra le quali fra l'altro c'era anche una donna.  Dopo qualche minuto di esitazione, notai la tensione che stava mano a mano salendo, e quindi decisi di cambirmi subito. Indossata la divisa, che profumava ancora d'ammoniaca, la donna sussurrò qualcosa all'uomo che mi aveva appena slegato. Egli accorse verso di me, e mi strinse nuovamente le corde ai polsi, immobilizzandoli fra di loro. Stavolta con maggiore forza.
«Per un po' sarai privato della possibilità di usare le mani; in questa maniera capirai che con esse non si possono combinare sempre e solo guai... come hai fatto fino ad ora.» Mi rimproverò la donna, «Mi auguro che queste orette, sole con te stesso, ti aiuteranno. A dopo.» Finì, per poi voltarsi ed andarsene dalla stanza in compagnia dei due uomini. Serrarono la porta, con due movimenti di chiave, e spensero inoltre la luce. Ora ero solo, con me stesso, per davvero. 
Mi assalì subito lo sconforto e l'angoscia: non sapevo cosa aspettarmi, cosa mi sarebbe successo, per quanto tempo sarei dovuto rimanere qui in questo orribile posto... le domande erano fin troppe e le risposte, purtroppo, indirettamente proporzionali. Avevo paura, e non poca.
Lo stomaco incominciò a brontolare, che fame allucinante... ma avrei dovuto aspettare l'ora di cena. I pensieri mi stavano assalendo letteralmente; privato della mia casa, dei miei "affetti familiari" -sebbene non ne percepissi molti- e portato con la forza in un posto simile. Per quante ne avessi combinate in passato, stavano giocando con la mia persona. E non è affatto bene. Le sensazioni che provavo non potevano essere descritte: ero in bilico fra la disperazione e l'ignoto. Il filo che mi reggeva fra queste due, rappresentava la mia persona: ed infatti era sottile ed estremamente esile.
Sentii le gambe abbandonarmi, i muscoli rilassarsi, gli occhi socchiudersi... che fosse solo un incubo?


>Spazio autore:
Questa è la mia prima storia in assoluto, ho scoperto efp tramite un'amica e mi piace moltissimo. Sono un ragazzo, non sono eccellente però ho la grande passione della scrittura, quindi mi auguro davvero di poter trovare qualcuno interessato a quel che butto giù. Grazie per aver letto, o grazie comunque dell'attenzione, buona serata a tutti.
   
 
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