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Autore: Alex Wolf    07/12/2014    2 recensioni
Storia prima denominata "La frusta dell'esorcista."
Dal capitolo 7°.
«Siete spregevole!» La mano di Thierry sfiorò la mia guancia, prima che la mia stessa Innocence gli imprigionasse il polso in una morsa ferrea. Riuscii a vedere il mio riflesso nei suoi occhi sorpresi, spaventati: una macchina assassina che non prova pietà per nessuno, neppure per coloro che combattono nella sua stessa fazione.
«Sono un diavolo, scelto da Dio ma pur sempre un diavolo, e in quanto tale è nella mia natura essere spregevole» sibilai, strattonandolo da una parte. Il corpo dell’uomo volò attraverso la foschia, tagliando la nebbia e creandovi un corridoio che si andò a riempire qualche minuto dopo il suo passaggio; dopo di che, atterrò sotto l’albero del Generale. Richiamai a me l’innocence, tornando a vedere a colori abitudinari e sistemai entrambe le braccia sui fianchi. Gli puntai un dito contro, affilando lo sguardo quasi a volerlo tagliare. «Prova a sfiorarmi ancora e la tua vita finirà in quell’istante.»
Genere: Generale, Guerra, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Allen Walker, Nuovo personaggio, Rabi/Lavi, Un po' tutti, Yu Kanda
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo 6.
 

Tyki Mikk.



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Bad Black Watchdog.
 

Il mare era un tripudio di grigi e neri, con alte onde che s’infrangevano sul porto e facevano oscillare spaventosamente le navi ormeggiate. Scrosci di pioggia cadevano a terra, schizzando ovunque e qualunque cosa si presentasse sul loro cammino, noi esorcisti compresi.
Il mantello che mi ero messa poco dopo aver salutato il Generale Yeegar adesso ballava nelle raffiche di vento secco e freddo, e mi riparava a stento la testa dalla pioggia, che di tanto in tanto cadeva di lato trascinata dal vento e s’infiltrava in esso. Le punte scure dei miei capelli gocciolavano sul mio collo, facendomi rabbrividire ogni volta. Lo stesso si poteva dire dei miei poveri pantaloni pallidi che, come al solito, si erano bagnati e perciò macchiati, nonché incollati alle mie gambe come polipi. Sembravo uno straccio ambulate, nel nero di quel pomeriggio sconsolato.
I miei stivali calpestavano terra provocando un pesante rumore, non abbastanza forte però da sovrastare quello della pioggia.
«Dovevamo ripartire ieri sera, Moyashi! Te l’avevo detto. Vedrai che oggi non partirà dal porto neppure una nave!» E quale uomo sano di mente salperebbe?
Allen si passò una mano fra i capelli, nascosti anch’essi da un cappuccio, e sorrise imbarazzato. Sicuramente si rendeva conto anche lui della situazione attuale: mare mosso, vento di bufera e pioggia non erano di certo le agevolazioni adatte per un viaggio in barca. Si vedeva a malapena la luce del faro!
«Entriamo, presto» annunciò l’albino, aprendo la porta dell’immobile adibito alla biglietteria per i traghetti.
«Di certo non resto qui fuori» borbottai contrariata da quella sua uscita tanto ovvia quanto scontata , nascondendo la voce fra i rumori circostanti.
Non che non volessi farmi sentire, però cominciavo a pensare che sprecare fiato così inutilmente per riprenderlo era stupido. Alla fine non faceva nulla di male, quella mammoletta, se non preoccuparsi per tutti e dire cose scontate.
Entrati ci accolse un’aria più calda rispetto a quella di prima. Un gruppo di persone era radunato davanti a un uomo in piedi sopra una cassa, che ricevette subito l’attenzione di Allen. Il mio compagno corse a sentire cosa diceva mentre io, lasciata sola sull’uscio, rimanevo a guardarmi attorno.
Gocce fredde colavano giù dal mio mantello e dagli stivali, i pantaloni erano talmente fradici da essersi incollati più del dovuto alle mie gambe, affaticandone i movimenti. Con un gesto mi tolsi il cappuccio, lasciando ai miei capelli corti la libertà di muoversi mentre osservavo gli oggetti intorno a me in cerca di qualcosa per scaldarmi, sedermi magari.  
Tremavo, tremavo come se mi avesse appena ferito qualche akuma e non riuscissi ad incassare il colpo. Sentivo le labbra pesanti e la gola secca, il viso congelato e le mani non più in grado di muoversi. Se avessi fatto un altro passo avrei rischiato sicuramente di finire crepata come la porcellana, per poi crollare a terra in mille pezzi. Era vero che mi piaceva la pioggia, ma essere bagnata fino a questo punto era tutt’altro discorso. Con disinvoltura strizzai la maglia. Un getto d’acqua si riversò impertinente sul pavimento.
I miei occhi scuri esaminarono bene la stanza, una costruzione comune di legno, con appese alle pareti immagini del mare e di barche, gli orari delle partenze delle navi e i luoghi dov’era possibile dirigersi. In poche parole c’era di tutto, tranne una dannata stufa su cui fare affidamento per riscaldarsi.
Roba da pazzi, borbottai a me stessa mentre stringevo i denti e tentavo di fermare il mio corpo dal tremolio causato dal freddo.
Inutile, ero così bagnata che ormai avevo già preso sicuramente il raffreddore.
«Pare che per oggi dovremmo restare qui» m’informò l’albino, di ritorno dal piccolo plotone di gente. Io, che mi ero stretta le braccia al corpo per fermare le sommosse involontarie causate dai miei muscoli infreddoliti, annuii e voltai la testa nella sua direzione. Alcune gocce mi colarono sulla schiena, portandomi a inarcarla.
Allen socchiuse le labbra, interdetto dai miei gesti. Le pagliuzze grigie dei suoi occhi esaminarono ogni centimetro del mio corpo. Probabilmente dovevo sembragli uno di quei cani randagi infreddoliti, bisognoso d’aiuto.  Non distolsi lo sguardo dal suo viso finché i suoi occhi non tornarono ai miei.
«Beh?» chiesi, stringendo un pochino più saldamente le mie stesse braccia. «Perché mi fissi così?»
«Sei fradicia, Evangeline-chan. Andiamo a trovare un riparo per la notte, oppure ti prenderai un raffreddore.» La voce di Allen era preoccupata, ma sul suo viso restava lo stesso un sorriso sincero che mi portava a chiedermi cosa realmente stesse pensando. Non era possibile che fosse sempre così sorridente. Che cosa nascondeva in realtà quell’involucro pallido e maledetto?
«Sciocchezze, sto benissimo» sminuii l’ovvio. Era inutile pensarci, il raffreddore l’avevo già. «Mi siederò da qualche parte e riposerò un poco. Il mattino non è poi così lontano Allen-kun.»
Lui sospirò, accarezzandosi i capelli corti con la mano sana. Lo faceva spesso, avevo notato, e specialmente in mia presenza. Probabilmente era un gesto meccanico guidato dall’imbarazzo.
Con il mio piccolo bagaglio stretto fra le dita mi diressi verso una panca semioccupata. Tim che svolazzava allegramente fra me e Allen, felicemente asciutto.
 
Quando ci aveva chiamati non avevo voluto crederci. Mi ero convinta che fosse un miraggio causato da un’apparente febbre dovuta al mio totale fradiciume, che Lenalee non fosse reale. Che mai ci doveva fare in un luogo come quello?, mi ero chiesta stropicciandomi gli occhi.  Eppure lei c’era, ferma in mezzo alla folla di persone borbottanti a causa del rinvio delle partenze. Era li, la giovane esorcista cinese,  con il lungo soprabito scintillante di gocce di pioggia, la propria valigetta stretta in entrambe le mani e i capelli perfettamente in ordine. Gli occhi color malva sorridenti.
Ora, in piedi sulla soglia un Caffee, con il caldo che cominciava a lambirmi la pelle in un abbraccio tutto mi sembrava aver preso una piega leggermente migliore. Con Lenalee al mio fianco, poi, e Allen –con il suo costante buon umore- muto accanto me ogni cosa andava meglio. Mi sentivo persino meno raffreddata. Cosa poco probabile, ma possibile.
«Ho voglia di cotolette» borbottai, toccandomi lo stomaco che aveva iniziato a brontolare. Ora che ci pensavo, non mangiavo nulla da quella mattina. Ci eravamo messi subito in viaggio per riuscire ad arrivare al molo e non avevamo fatto neppure una sosta. Non ci eravamo seduti e neppure riposati. Ora invece si preannunciava il momento esatto per rilassarsi.
Lenalee rise alla mia affermazione. Si accarezzò i capelli liberi dal cappuccio e mi guardò, consegnandomi la propria valigetta. Inarcai le sopracciglia, stringendola fra le dita.
«Prima però cambiati; non credo ti lasceranno sedere ridotta così.» Abbassò lo sguardo scannerizzando ogni centimetro di stoffa, ogni minima goccia che scivolava fino a schiantarsi a terra in un piccolo lago in miniatura.
Annuii lievemente, distogliendo lo sguardo dal suo. Con una mano mi ravvivai i capelli bagnati, che iniziavano ad asciugarsi. «Probabilmente hai ragione, sarà meglio che vada in bagno.» Leva il probabilmente, Evangeline. Mi avviai verso la porta posta a pochi passi dl bancone principale, richiudendomi poi dentro la piccola stanza.
Il bagno era una stanza stretta, dove tutta via si riusciva a muoversi liberamente. All’interno vi era persino una specchio. Quando mi avvicinai alla superfice riflettente sobbalzai: i capelli erano incollati alle tempie, cadevano sulla mascella simili a serpenti neri; il trucco era colato e mi aveva reso il viso simile a un panda, con la differenza che io non sembravo adorabile come uno di loro. Tirandomi le guance verso il basso, cominciai a scuotere il capo.
Ok. Potevo riuscire a rendermi nuovamente presentabile. Ce l’avrei fatta.
Con velocità mi sciacquai la faccia: desso ero almeno presentabile. Mi voltai, curiosa di sapere quali tipo di vestiti si nascondessero nella valigetta prestatami da Lenalee. Quando l’aprii, dopo un sussurrato clic, il contenuto esplose. Probabilmente vi era stato rinchiuso a forza. In effetti in quelle dannate valigette non entrava nulla.
Nota per me: domandare a Johnny di procurarci valige più grandi.
 
Quando poggiai le braccia sul bancone, Lenalee ed Allen alle mie spalle intenti a chiacchierare, gli occhi di un uomo seduto da solo si posarono sul mio braccio sinistro. Involontariamente avevo dimenticato i guanti e così la pelle arrossata che mi ero procurata nella missione con Yuu era ben visibile. Lo ignorai, e facendo appello a tutta la mia forza di volontà - che gridava “spiattellalo contro il bancone!” – mi concentrai sulla cameriera in servizio. Era piccola e carina, con due occhi azzurri svegli e sorridenti.
Alzò lo sguardo dal taccuino che teneva fra le dita e mi fece un cenno con la testa: era il mio turno di ordinare. «Una tazza di caffè, per favore.»
«Te la porto al tavolo o l’aspetti qui?» chiese, scribacchiando sul suo bloc-notes - credo che lo facesse più per noia che per obbligo. Con un gesto svelto della mano, si portò dietro l’orecchio un ciuffo biondo.
«Aspetterò qui.» Mentre lei mi dava le spalle, mi poggiai distrattamente sul bancone e sostenni la testa con il palmo della mano.
Lo sguardo mi scivolò sui miei due compagni: sembravano tranquilli. Allen si ingozzava assieme a Tim –ancora mi chiedevo come potesse mangiare, lui che era un robot- mentre Lenalee sorseggiava la sua tazza di caffè. Stavano scambiando due chiacchiere, ogni tanto si sorridevano e l’esorcista cinese piegava la testa di lato com’era solita fare quando discuteva di cose che le piacevano. Allen invece parlava a bocca piena, sorridendo costantemente fra un boccone e l’altro. Erano un bel quadretto, alla fine. Chissà se avrei mai più avuto l’occasione di assistervi.
Nascondendo l’ombra di un sorriso mi voltai in attesa della cameriera. I pantaloni che indossavo scricchiolarono un poco, colpa del lattice con cui erano fatti.  Il tumore attirò nuovamente l’attenzione dell’uomo su di me.
Non avevo mai criticato i gusti di Johnny o Lenalee in fatto di tessuti, ma creare pantaloni come quelli sembrava più una specie di trappola per esorcisti che un semplice indumento. Ogni movimento era simile a una tortura, tanto stringevano le cosce. Avremmo potuto proporli come arma anti-akuma. Sarebbe stato esilarante vedere quei cosi enormi finire dentro un paio di questi e scoppiare come palloncini. Puf.
«Raccontatelo anche a me» una voce s’insinuò fra i miei pensieri felici, riportandomi nella taverna.
Voltando gli occhi verso l’uomo seduto alla mia sinistra lo trovai intento a sorridermi, con un boccale di birra in mano. Le labbra sottili sorridevano, gli occhi nascosti dietro i grandi occhiali rotondi brillavano di una strana luce.
Smisi di pensare e mi feci seria. Inarcando le sopracciglia dissi: «Prego?»
«Ma si, raccontatemi quello che vi stava facendo sorridere. Andiamo.» richiese lui, bevendo un sorso. Si passò una mano fra i corti capelli ricci, dopo di che s’infilò in bocca una sigaretta.
«Tzk.» Scossi il capo, ignorandolo. Non sapevo bene cosa quel tipo stesse tentando di fare: se un abbordaggio, oppure solo quattro chiacchiere ma probabilmente non si era accorto di aver sbagliato persona. Detestavo gli sconosciuti. Specialmente quelli che si credevano furbi.
«Che fai ora, m’ignori? Oh, suvvia.» Una sua mano si poggiò sulla mia, stringendola un poco.
Sussultai colta dalla sorpresa di quel gesto e, sebbene in minima parte, dal dolore che mi provocava ancora l’ustione. In quei punti la pelle era ancora troppo delicata, e lo sarebbe rimasta per lungo tempo.
«Il tuo caffè» la cameriera mi sorrise, mentre poggiava la tazza sul bancone. Annuii, facendole segno di aspettare un minuto.
 «Dimmi, come ti sei fatta questa? Ti va di racco…»
Prima che l’uomo finisse la frase, ero girata su me stessa liberandomi dalla presa –in modo da non causarmi troppo dolore alla pelle tirando con forza, giocando sul fattore sorpresa-, avevo poggiato il piede destro contro una delle gambe del suo sgabello e poi l’avevo spinto via. L’uomo cadde a terra con un tonfo sonoro, assieme alla sedia, rovesciandosi in testa birra e cibo.  Non potei fare a meno di guardarlo dall’alto in basso con sguardo feroce, prima di far come se nulla fosse successo.
«Grazie.» Strinsi la tazza fra le mani, scavalcai l’ospite e andai a sedermi.
Quando mi accomodai accanto a Lenalee, lei mi fissò di sbieco. Sapevo bene quali erano i pensieri che le vorticavano in testa, in quanti modi la sua lingua avrebbe voluto riprendermi per il mio cattivo comportamento. Ma la conoscevo tanto bene da sapere che non mi avrebbe detto nulla. Sopportare questi miei attacchi verso chi mi sfiorava, chi tentava di toccarmi e prendere confidenza con tanta velocità era una cosa che con cui nel tempo era riuscita a convivere. Penso che l’avesse fatto più per vivere tranquillamente, collaborare con l’anima in pace. Se non l’aveva fatto per quello, allora, non sapevo per cosa potesse essere.
Mi morsi una guancia: l’avevo delusa, e questo mi dava davvero fastidio. Ma perché non riuscivo a farne una giusta?
Prendendo un profondo respiro accarezzai Tim, per poi accoglierlo sul palmo della mia mano. Allen mi riservò un’occhiata incuriosita, prima di pulirsi la bocca con un tovagliolo e piegare leggermente la testa da una parte. I suoi occhi cangianti erano incuriositi dal mio comportamento, dal modo in cui studiavo il piccolo Golem dorato. Era strano sentire le piccole zampette del boccino solleticarmi la pelle arrossata, il calore del suo piccolo corpo prodotto riscaldarmi lievemente. Con la larga bocca Tim sorrise, per poi leccarmi la faccia improvvisamente. Sputacchiai, lasciandolo cadere sopra un’arrosto.
Allen e Lenalee risero.
«Se lo fai un’altra volta, ti strappo le ali piccoletto» lo minacciai, pulendomi le guance. Tim sorrise, prima di addentare la carne. Corrugai le sopracciglia, stupita da quella mossa.
«Tim è fatto a modo suo» mi spiegò Allen, accarezzando il golem. «E’ stato creato dal Generale Cross, perciò è diverso dagli altri golem: ha un comportamento quasi umano. Credo che sia più simile a un cane, a dire a verità.» Gli occhi grigi del ragazzino sorrisero al piccolo oggetto rotondo, senza risparmiare affetto. «Sono contento che almeno per una volta il generale abbia fatto qualcosa di buono.»
Stavo già per ribattere quando Lenalee mi batté sul tempo. Poggiando sulla tavola la propria tazza, la giovane cinese rizzò elegantemente la schiena e si schiarì la voce. «A dire la verità, non fu solo Cross a costruire Tim. O almeno, a farne il progetto.»
Allen sbatté le palpebre, sorpreso. Lo imitai. Avevo sentito varie volte, da molte voci diverse la storia di Tim: il golem d’oro creato dal Generale “Nullafacente”, che aveva la tendenza ad azzannare ogni cosa gli capitasse a tiro. Però non avrei mai pensato che per costruirlo Cross avesse chiesto aiuto a qualcuno.
Un lampo di inquietudine passò negli occhi viola di Lenalee; probabilmente si stava stupendo della nostra ignoranza.
«Lo aiutò Anita.»
«Anita?» Non era un nome nuovo per me, eppure non riuscivo a collegarlo a nessuna faccia in quel momento. Anita.
«La ragazza australiana arrivata qualche anno dopo Reever» lo spiegò come se dovesse essere una cosa ovvia, da tutti i giorni.
Un flash balenò nella mia mente, due occhi azzurri come l’acqua caraibica. La figura della scienziata cominciava a diventare nitida nella mia mente.
Anita. Anita… ANITA! 
Anita, un’australiana di ventiquattro anni che si ritrovava sempre Lavi fra i piedi per ogni minima cosa. Ricordai i suoi capelli tinti di rosso, che le sfioravano le spalle come una morbida coperta ondulata, e la pelle pallida. La rammentai con un camice bianco che le copriva il corpo basso, il seno prosperoso e Lavi che vi lanciava occhiate di soppiatto.
Mi ritrovai  scuotere la testa, sospirando un “ah” mentre mi accarezzavo la fronte.
«Quella Anita» annuii, ricevendo un sorriso da parte di Lenalee.
«Io… non la conosco» sussurrò Allen, arrossendo a disagio. La cinese gli sorrise, ammiccandogli.
Non era così grave il fatto di non conoscere tutta la sezione scientifica, quei cervelloni erano come i criceti: si moltiplicavano a vista d’occhio. Tutta via era davvero difficile non riconoscere Anita: era l’unica, oltre Lavi, ad avere i capelli rossi –con la differenza che i suoi tendevano più al prugna che all’arancio, come invece facevano quelli del ragazzo.
«Quando rientreremo alla Home te la presenterò. E’ simpatica, un bel personaggio» affermò Lenalee.
«Autoritaria, calcolatrice e un po’ stravagante, almeno in fatto di ragazzi» mi lasciai scappare dalle labbra. Poggiai, poi, la guancia su un palmo e afferrai la zuccheriera, cominciando a versare lo zucchero nel caffè. I granelli scendevano nel liquido scuro con impazienza, scomparendovi all’interno e incantandomi con il loro movimento continuo. Era sempre lo stesso movimento. Noioso. Incantatore. Qualche minuto dopo dovevo essere caduta in trans, perché il mio cervello iniziò ad elaborare il ricordo di una giornata avvenuta pochi mesi prima senza che me ne rendessi conto.
 
La Home era semi-deserta. Il guardiano fuori dalla porta dormiva, la cucina era silenziosa perché Jerry stava male e i soldati posti all’entrata di alcuni uffici si erano appisolati sulle aste delle proprie lance. All’interno dei corridoi l’aria era fredda, pungente sulla pelle come gli aghi di Bookman. Di tanto in tanto quei lunghi in cunicoli bui, impreziositi da dipinti inquietanti e finestre che si affacciavano sullo strapiombo, si udivano gli echi delle grida rivolte al Supervisore dal resto della Sezione scientifica.
Spazientita, chiusi in malo modo il libro che ero intenta a leggere e mi precipitai fuori dalla stanza dirigendomi in laboratorio. Le mie gambe scattavano veloci, quasi si  trattasse della mia stessa vita, e il freddo mi tagliava via dalla pelle quel poco calore che ero riuscita a accumulare sotto le coperte.
Con rabbia spalancai la porta che conduceva ai laboratori e ringhiai imponendomi su tutti gli scienziati, oscurando loro la vista della luce. Un’ombra scura mi calò sul volto, i miei occhi brillarono sinistri quando due di questi si voltarono. Gli unici.
«Evangeline-chan, ehilà.» Lavi ingoiò un fiotto di saliva, rizzando la schiena colto alla sprovvista. Qualche ciuffo ribelle gli ricadde sul viso, mentre con velocità lui continuava a rispedirli indietro.
«Junior» sibilai, mettendo un piede sul primo gradino. «Quale parola del mio recente avvertimento non ti è entrata in quel cervello magazzino? “Fai” oppure “silenzio”?»
«Oh, Evangeline-san menomale sei qui. Mi serviva giusto una mano in più» la voce del terzo individuo interruppe il nostro scambio di opinioni. Da dietro Lavi, con le mani piene di cartelle e scartoffie, apparve Anita. I brillanti capelli rosso scuro nascosti dalla semi oscurità, gli occhi azzurri come due fari.
Istintivamente tornai sulla soglia della porta, intenzionata ad andarmene prima possibile. Non che avessi paura di Anita, dopo tutto non avrebbe mai potuto farmi del male, ma ogni tanto aveva quella strana luce negli occhi che mi portava a chiedermi come mai non fosse una compatibile –oppure un’assassina professionista. Solo quando abbassai lo sguardo sulle mani di Lavi capii per che cosa le servisse l’aiuto: trasporto di documenti dal suo ufficio a quello di Komui.
«No» risposi immediatamente, voltandole le spalle. «Hai il Coniglio, accontentati di lui. Ho di meglio da fare.»
«Peccato, chissà cosa penserà Lenalee appena le dirò che non sei stata per nulla gentile in sua assenza…» Che colpo basso. «Se non sbaglio le avevi promesso che saresti stata gentile con tutti» oh, questo era davvero scorretto. «Vero?»
Strinsi le magni a pugno, prendendo un bel respiro e mi parve di sentire Lavi irrigidirsi dalla tensione. Probabilmente non si aspettava quell’astuzia da parte della scienziata. Solo quando sospirai fuori tutta l’aria, e mi voltai iniziando a scendere le scale lo vidi rilassarsi.
«Allora, da dove comincio?» Domandai acidamente, strappandole di mano i fogli.
 
«Smettila» sborbottai sotto voce, tirando una gomitata a Lavi nel costato. Lui si piegò leggermente sul fianco dolorante, pigolando frasi che non riuscii a capire.
«Eve-chan, sei crudele» sentii poi, «non dovresti ferire i tuoi alleati.» Anita mi si era affiancata e sorrideva tranquillamente. Lasciai un po’ di spazio fra me e lei, andando a sbattere contro Bookman Jr.
Il suo unico occhio verde seguì con attenzione il mio movimento, poi le sue labbra si piegarono verso il soffitto. «Anita-chan ha ragione, Evangeline. Non dovresti picchiare i tuoi alleati .»
«Specialmente se sono bei ragazzi.» affermò la donna, e il rosso andò in tilt. L’unico occhio sano del giovane parve scomparire dietro un cuore immaginario, pulsante e con tanto di “bum bum bubum” incorporato.
«St-st-st-STRIKEEEEEEEEEEEEEEEEEEEE» lo urlò così forte che, quando ebbe finite, tutto quello che rimase della sua voce non era altro che un raschio quasi inesistente. Anita l’osservò di sbieco, prima di precederci.
Scossi il capo esasperata, voltandomi verso l’esorcista. Lui ancora seguiva con lo sguardo la scienziata, sbavando leggermente.
«Riprenditi.» Gli tirai uno schiaffo sulla collottola, lasciandolo da solo in corridoio.
«Eve-channnn! Assscccccccpettami!» Riuscii a sentirlo solo grazie all’eco prodotto dalle pareti, quel suono raschiato e tirato fuori a forza dalla gola.
Chiusi gli occhi, aspettai che mi raggiungesse, lo colpii di nuovo. La mano mi pulsò per la seconda volta nel giro di pochi istanti, ma nel petto parve crescermi un senso di leggerezza che mi spingeva, tentava a farlo per l’ennesima volta. Colpire Lavi aveva un non-so-che di calmante, rinvigorente.  Ora capivo perché Bookman lo faceva di continuo.
«Idiota. Smettila di chiamarmi Eve» ringhiai, mentre lui mi si affiancava.
Alzò le sopracciglia, sbatté la palpebra e si sistemò meglio i fascicoli fra le braccia. I muscoli si gonfiarono sotto la divisa. «Ti conosco da due anni ormai, Evangeline, ma ancora non riesco a capirti. Posso sapere perché sei così… chiusa?»
«Non lo sa Lenalee, figurati se te lo vengo a dire a te» sbottai acida, voltando il viso da tutt’altra parte. Probabilmente dovevo aver accumulato molto ossigeno, perché quando rilasciai un sospiro uscì tutto con un sibilo continuo.
Al diavolo lui e la sua anima da Bookman, con quella voglia di conoscere tutto di tutto e tutti, che io non potevo sopportare. Che poteva fregargliene a lui di me, dei miei comportamenti?
La gente ha segreti, ed è meglio così. I segreti ti rendono forte, immune da tante cose. Io custodivo i miei con cura, gelosia. Li stringevo nell’angolo più recondito e buio della mia anima perché, sebbene mi provocassero costantemente fitte al cuore, mi aiutavano ad andare avanti. Che mi spingevano ad andare avanti. Un giorno, magari, sarebbero venuti a galla, ma fino ad allora nessuno ne sarebbe venuto a conoscenza, a meno che la mia morte non fosse stata vicina.
Fra me e Lavi cadde il silenzio, rotto solo dal rumore dei nostri passi e quelli di Anita poco più avanti.
«Chiudi la bocca, Coniglio, non penso che le donne delle pulizie gradiscano lavare via la tua bava» gracchiai, senza però degnarlo di un vero e proprio sguardo. Sinceramente, non ce n’era bisogno. Da quando Anita aveva affermato che era un bel ragazzo, non aveva fatto altro che sbavarle dietro.
Mi preoccupava più lei che lui, a dirla tutta. Chi mai avrebbe definito Lavi “un bel ragazzo”? Alzai gli occhi al cielo: ora capivo perché di tanto in tanto portava gli occhiali.
«Sbavo perché ho qualcuna a cui sbavare dietro. Insomma: non è perfetta? Piccola, formosa, occhi profondi e di un azzurro intenso che ti fa ricordare l’oceano e…»
«Ed è interessata a Kanda» interruppi le sue fantasie, riportandolo alla realtà. Come colpito da una stella cadente Lavi tornò al pianeta terra, con l’occhio verde più aperto che mai. Le labbra rosee socchiuse in una muta domanda (“ma che dici?!”) e le sopracciglia aggrottate. «Non dirmi che non lo sapevi?»
«Ma cosa dici?» Pareva più un’accusa che una domanda. Ehi tu, che cazzo hai detto?
«L’ovvio, idiota di un Bookman. Mi domando se quella gli occhiali non debba tenerli sempre, invece che di tanto in tanto; ha proprio degli strani gusti.» Indicai svogliatamente al rosso la scienziata, che stava amorevolmente parlando con Yuu.
Lei parlava, lui la guardava, lei arrossiva. Penso che riuscì persino a raggiungere le stessa tonalità rosso scuro dei suoi capelli; mentre Lavi arrivava a quella mezza arancione dei suoi.
Con un gesto improvviso abbandonò i suoi fogli sui miei, raddoppiando il peso che gravava sulle mie spalle e scattò verso i due. Rimasi ferma, stupita. Lavi aveva… aveva davvero fatto quella cosa? Mi morsi le guance per non gridargli dietro. Ero infuriata per quell’avventatezza, ma al tempo stesso curiosa di sapere come sarebbe andata a finire. Lasciai tutti i fascicoli a terra e vi poggiai sopra i gomiti, reggendomi il mento con il palmo della mano. Rose formicolò un poco, ma smise immediatamente.
Affilai lo sguardo, incrociando le gambe. Nel frattempo Lavi si era parato accanto ad Anita, circondandole il collo con un braccio. Lei gli aveva riservato un’occhiataccia.
«Yuuu» esclamò Lavi divertito, rifilando al giapponese una pacca sulla spalla. Inarcai le sopracciglia allibita, finché Kanda non gli puntò al collo Mugen. Ora sembrava quasi una scena normale. «Hai conosciuto la mia ragazza? Eh?» continuò il rosso, stringendo un po’ più a se la donna. Lei sobbalzò sul posto, mentre il moro rinfoderava la spada.
«Si. E ora stavo per andarmene.» Gettò un’occhiata ad Anita, che era diventata paonazza. «Ci vuole coraggio per stare con uno come lui.» Li superò, senza lasciare il tempo alla scienziata di replicare.
Ci osservammo mentre mi superava, intrattenendo con i nostri occhi una muta conversazione. Quando il contatto si interruppe repressi un ghigno annoiato, tornando a monitorare Lavi.
«Io sarei la tua ragazza?!» Anita alzò la voce, visibilmente alterata. Puntò un dito contro il petto del giovane e gonfiò le guance: «La tua ragazza un corno, guercio! »
«Ma ma ma ma ma» Junior socchiuse le labbra.
«Sei un idiota! Per una volta che riuscivo a intrattenere un dialogo che si può definire “umano” con Kanda tu, tu!» Era divertente vedere Anita gridare contro Lavi, tuttavia mi sentivo messa da parte. Lasciata sola, a stiracchiarmi sopra una pila di moduli e cartacce.
Scossi il capo, rizzai la schiena e scrocchiai le nocche. Meglio intervenire.
«CONIGLIOO» strillai, attirando la loro attenzione. La mia voce echeggiò per il corridoio, saltando da un muro all’altro con una potenza quasi distruttiva. «Vieni qui e riprenditi i tuoi fogli, oppure ti strangolo!» Attivai l’Innocence e la lanciai verso di lui: Rose si arrotolò attorno all’avambraccio pallido del rosso, tirandolo nella mia direzione. Lavi cadde ai miei piedi, alzando il suo occhio smeraldo a incontrare i miei ossidiana.  «Porta questa roba da Komui, e vedi di non fare altri danni» ringhiai.
Ritirai l’Innocence, superando il corpo dell’esorcista ma quando l’operazione fu completata le vene del mio polso pulsarono, si gonfiarono e diventarono più visibili del solito. Successivamente arrivò una stilettata di dolore tanto potente da costringermi a tenere la mano sana attorno all’arma, che si stava trasformando. Si bloccò a metà della mutazione.
Qualcosa non andava con il funzionamento di Rose, del mio corpo: era come se tutti i miei nervi si stessero rifiutando di muoversi. Era come se non fossi più padrona della mia stessa carne, di me.
«Evangeline, vieni come me, per favore» mi ordinò Anita, dopo avermi lanciato una lunga occhiata. Sapevo cosa aveva fatto: mi aveva studiata con gli occhi, azionando quel suo cervello malefico e strabiliante, e adesso stava per portarmi da Hebraska.
Sospirai, richiamando a me la frusta con tutta la forza di volontà che possedevo: Bloody Rose tornò normale, ma il dolore persistette. «Porta tutto nell’ufficio di Komui, e non fare danni» ripetei al Bookman, poi scomparii dalla sua vista seguendo la scienziata.
 
«Nessuno qui dentro conosce questo dannato tipo di Innocence, allora?! Neppure questo orribile serpente trasformato ne ha idea?!» chiesi alterata, indicando la mezza trasformazione di Rose e poi Habraska. La donna Innocence sbuffò. Penso che si fosse arresa e avesse capito che non avrei mai smesso di definirla così. Era un brutto vizio, certo, ma un soprannome azzeccato.
Komui alzò gli occhiali e si accarezzò il naso, per poi passare a massaggiarsi la fronte. Sembrava turbato, così come Anita che adesso aveva iniziato a fare avanti e indietro per tutto l’ascensore.
«Purtroppo, Evangeline, il tuo reale tipo di Innocence è conosciuto da pochi e nascosto a molti» spiegò la rossa, avvicinandomisi. «Le uniche persone che ne sanno realmente qualcosa sono due dei generali: il Generale Yeegar e Cross. Ma come tutti sappiamo Cross è da qualche parte, disperso, e Yegaar non è solito abbandonare la sua ricerca di compatibili per tornare alla Home.»
Digrignai i denti, stringendo i pugni. Faceva male, dannazione, ma meglio quello che tirarle un pugno dritto sul naso. «Quindi sono fottuta» sussurrai.
«Eve» Lee mi poggiò una mano sulla spalla sinistra, stringendo un poco. Penso che per lui dovesse essere un gesto di conforto, ma per me non fece altro che aumentare il livello di frustrazione che mi era salito in corpo.
Lo ignorai. Non volevo mettermi a litigare.
«C’è nulla che possiamo fare, nel frattempo? Tu cosa ne pensi Anita? Hebraska?» Chiese il Supervisore, restando alle mie spalle.
La scienziata si accarezzò la folta chioma fulva, poi guardò Heb e infine me. Nei suoi occhi limpidi potevo leggere preoccupazione. pena. Pena, ah!
«Per ora, tutto quello che possiamo fare è monitorare la situazione, almeno due volte al mese.» Anita si accarezzò il collo e: «Se mai dovessi sentirti davvero male, none sitare a venire da me. Nel frattempo tenterò di convincere Yegaar a farmi dire il più possibile sul tuo tipo di innocence.»
 
 
Bloody Rose  lanciò una scossa, facendo tremare il mio corpo quasi fosse stato una foglia autunnale pronta a staccarsi dall’albero. Tutti i muscoli si contrassero, bloccando la funzione dei movimenti per qualche secondo; riuscii solo ad alzare le palpebre. Poi tutto passò.
 Aprii gli occhi soffocando un urlo di dolore, rizzando la schiena come se qualcuno mi avesse appena infilzato da parte a parte. Un altro attacco da parte della mia stessa arma. La mia tazza di caffè, ormai freddo, si catapultò sul tavolino, cospargendo di liquido nero l’intera superfice adesso vuota. Dannazione. Dovevo stare attenta con i movimenti dopo che succedevano quelle cose, Anita me l’aveva ripetuto costantemente.
 Cominciai a pulire senza degnare i miei compagni di uno sguardo, troppo frastornata dai ricordi. Dai pensieri.
 Lenalee mi guardò di sbieco, mentre prendeva dei fazzolettini e iniziava a tamponare sul pasticcio; Allen mi sorrise, aiutandomi.
«Scusatemi» mormorai assonnata.
Rose fremette di nuovo.
Ultimamente accadeva spesso, troppe volte. Komui mi aveva detto di chiamarlo nel caso le cose si fossero complicate, ma il mio eco mi costringeva a dire “NO”. Era come un rifiuto. Eppure… eppure avrei dovuto farlo. Dopo tutto si trattava di una cosa seria, sulla quale non avrei nemmeno dovuto rimuginare. La mia Innocence stava praticamente… No. Non avrei assolutamente chiamato il Q.G; avrei trovato una risposta per conto mio, e sapevo già a chi rivolgermi. Peccato che non l’avessi fatto quando ne avevo avuto l’occasione a portata di mano. Stupida.
Con avventatezza portai il braccio destro sotto il tavolo, stringendo il polso fra le gambe. Il pulsare si placò un poco, donandomi sollievo.
«Qualcosa non va, Eve-chan? Stavi dormendo così bene e all’improvviso ti sei svegliata» sussurrò Lenalee, dopo aver allontanato dalle labbra la propria tazza.
Mi ero addormentata, ecco perché il ricordo di quel momento mi era sembrato così reale. Magari ricordarmi di quel dolore improvviso di allora l’aveva riportato a galla nel presente. Ma chi volevo prendere in giro? Avevo bisogno d’aiuto, risposte, consigli.
«No, è tutto a posto. Ho solo ricordato di aver dimenticato di dire una cosa urgente al Generale, che mi aveva chiesto tuo fratello.» Lanciai un’occhiata a Rose, che ancora pulsava. «Scusatemi, davvero, ma devo lasciarvi. A presto!» Senza lasciare a nessuno dei due il tempo di reclamare, mi alzai e uscii dal locale.
Richiusi la porta alle mie spalle e mi strinsi nel mantello. La tenda sopra l’entrata mi proteggeva dalle scrosciate di pioggia, ma il vento portava con se alcune gocce che si andavano a schiantare contro il tessuto simili a proiettili. Affilai la vista, in cerca di una direzione.
Dovevo trovare Yegaar il prima possibile. Non ci avrei messo molto, era a poche ore dalla città sicuramente, ma vista la pioggia battente ci avrei messo certamente di più a raggiungerlo. E poi, avevo bisogno di un mezzo. Uno veloce.
«Ehi tu!» strillai a un uomo che mi passò davanti, quasi l’avesse mandato il fato. «Poche storie, mi serve il tuo cavallo!»
 
 
Saltai praticamente giù dalla sella. Le gocce di pioggia che mi colpivano come proiettili e i boati degli attacchi degli akuma che mi frantumavano i timpani. Staccai il mantello dal portante, questo cadde a terra lasciandomi alla mercé della pioggia. Tirai uno schiaffo al sedere dell’animale e questo nitrì, partendo al galoppo verso la città.
«Generale!» Era la voce di Thierry, il finder che ci aveva accompagnato durante il nostro viaggio in Belgio.
Affilai lo guardo, scavando fra le gocce e individuandoli. Era ancora abbastanza lontana, perciò vedere bene dove fossero con quel cielo grigio e tutta quell’acqua era difficile, tutta via non impossibile. I tre Finder del Generale Yegaar erano tutti ammassati sul lato ovest della strada, e guardavano nella direzione del loro superiore.
«Sbrigatevi, andate via!» Le parole dell’esorcista si persero nel vento. «Vi raggiungerò presto» aggiunse, e tre akuma di primo livello esplosero in volo.
Dovevo intervenire. Dovevo aiutarlo. La mia Innocence me lo imponeva, lo sentivo dal modo in cui pulsava al braccio, facendo fremere i nervi e i muscoli. Mi rubava energie preziose, che riponeva al suo interno in attesa di essere sfoderata. Un’ondata di adrenalina mi colpì come un treno in corsa.
«Andate» ordinai a mia volta, correndo nella loro direzione. I presenti si voltarono a guardarmi, stupiti. «Andate via velocemente, oppure vi strapperò la carne dalle ossa a forza di frustate» intimai, attivando Rose. L’arma sibilò nel vento gelido, attorcigliandosi sopra un nemico per poi iniziare a stringere. Sentivo l’energia del cristallo sacro diffondersi per tutta la loro superfice, irradiarli, purificarli, far esplodere la bambola del Conte.
«Evangeline» Yeegar si voltò verso di me quando mi fermai al suo fianco, socchiudendo le labbra.
Probabilmente non si aspettava un mio ritorno; neppure io mi sarei mai aspettata di tornare indietro. Eppure, se l’avevo fatto c’era un motivo serio, domande che necessitavano di risposte immediate.
Con un colpo di frusta eliminai due armi nemiche, che avevano tentato di superarmi. Sarebbero volute arrivare ai Finder, ma la loro corsa si era fermata prima. Nessuna di quelle orribili bambole sarebbe riuscita a superarmi, a evitare me e la mia frusta.
Io li dovevo essere ricordata come la morte, non un’esorcista qualunque.
 «Non si faccia strane idee, Generale. Sono tornata perché devo avere delle risposte» sussurrai tra i denti, tanto silenziosamente che mi chiesi se l’anziano mi avesse sentita.
«Non avevo dubbi» rispose immediatamente l’uomo. «Ma adesso, dobbiamo resistere finché il quartier generale non ci manderà inforzi, a tutti i costi.» Annuii.
Mi sembrò che l’aria si stesse rarefacendo, mentre le due bambole del Conte, enormi ammassi evoluti al livello due alti almeno cinque metri, si fecero avanti. Ormai i livello uno erano andati, tutti, e non rimanevano che quelle due macchine da guerra davanti a noi. Una aveva un brutto colore grigiastro, una specie di corazza ambulante con l’elmo a forma di teschio; l’altra era un’armatura tozza e rossastra, con una grande lancia stretta fra le dita.
Saremmo riusciti a sconfiggerli entrambi? Certo. Dovevamo; dovevo. Se non fossimo riusciti a vincere non me lo sarei mai permesso.
«E lei chi è? Il tuo cane da guardia?» La voce calda di un ragazzo si fece spazio nei miei pensieri, portandomi a guardarmi attorno confusa. Poi apparve, da dietro le gambe del mostro grigio un giovane uomo ben vestito, dagli occhi d’ambra. Ci guardammo, mentre lui sorrideva e abbassava leggermente il cilindro in un inchino.
Sputai fuori un ringhio, affondando di più i piedi a terra. «Un cane da guardia che non ha paura di mordere, specialmente i Noah.» Il ragazzo soffocò una risata, passandosi una mano fra i capelli ricci, mostrando le stimati che gli sfregiavano la pelle nocciola. Gli occhi d’ambra tornarono ai miei.
Rizzai la schiena, come se quel gesto potesse darmi un’aria più pericolosa, stringendo con forza il manico di Rose fra le dita più pallide del solito. C’era tensione nell’aria, si poteva tagliare con il coltello, eppure nessuno osava più dire nulla. Solo il vento interrompeva la quiete, soffiando sinistro e accarezzando i nostri capelli.
 «Non credo che riusciresti a ucciderci» lanciò uno sguardo verso l’alto, ad una giovane ragazzina che se ne stava comodamente seduta sull’armatura più bassa. «Noi Noah siamo immortali. Non è forse così, Road?»
«Penso che sia giusto dire così Zio Tyki.» La piccola sorrise, sbattendo i piedi contro il metallo che prese a tintinnare. Tin tin tin. Era un rumore insopportabile, continuo che mi fece venire voglia di strapparmi le orecchie. La rabbia cresceva nel mio corpo, mentre associavo il nome del nemico a quello che mi aveva riportato Allen quel giorno: Road Kamelot.
«Tu» sibilai fra i denti, attivando il primo livello di Rose. La vista mi si appannò di colori rossi, arancio e gialli, talvolta persino verdi. Le sagome dei nemici divennero come fari abbaglianti nella nebbia, ben distinte nonostante la pioggia. Il rumore delle borchie che sfregiavano la pelle di Rose prese il posto della pioggia. «Sarai il mio premio di caccia.»
«Ma come corriamo» rise il Noah, facendo roteare il bastone da passeggio fra le lunghe dita guantate di bianco. «Che ne dici se prima di prenderti la testa della mia adorata nipotina, tu affrontassi i nostri akuma?» Aveva una voce calda e seducente, che sarebbe persino potuta piacermi se non l’avessi voluto uccidere. In generale non era un brutto ragazzo, ma questo non significava che l’avrei lasciato vivere. «Mostraci quanto vali, cattivo cane da guardia» affilò lo sguardo, «nero.» Lanciò un’occhiata ai miei capelli.
«Ti strapperò la testa a morsi, porcospino» ringhiai indicando con un cenno del mento i suoi capelli, caricando il braccio all’indietro pronta a colpire. Lui affinò lo sguardo, con l’intento di freddarmi sul posto. Fallì miseramente.
 Quando tutto questo sarà finito, pensai, chiederò risposte al Generale e tornerò alla Home con la testa di quei due in un sacco.
La battaglia cominciò.

 
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Isil: Oddeo, ma quanto tempo è che non ci si vede?
Evangeline: Troppo poco -.-
Isil: Tu non mi sei mancata nulla, sappilo. Ero solo in pensiero per Anita che, ho l’onore di dire, è stata creata a immagine di una ragazza che mi sopporta continuamente. Ha persino il suo nome. Grazie Anita :3 –sarai anche nei prossimi capitoli, sappilo!-
Evangeline: E questo che c’entra, vecchia pazza?
Isil: Ma ci sei solo tu stasera?
Evangeline: Gli altri sono praticamente invisibile nel tuo stupido capitolo, perciò hanno deciso di uscire a mangiare assieme il sushi, ma io lo detesto così ho rifiutato.
Tyki: Io non sono andato…
Isil: Oh, Dio ci benedice con una visione paradisiaca. Ciao Tyki.
Evangeline: Proprio. Vedere te, Tyki, è come bearsi della visione di una stupida palla di lana intrigata.
Tyki: Lo stesso vale per te, cagnaccio. In ogni modo, buona sera Isil-sama, incantevole come sempre.
Isil: Cristo, Evangeline basta! Grazie caro. Purtroppo non possiamo dilungarci a lungo, mi attendo nella Terra di Mezzo, perciò passiamo direttamente ai saluti e tutti al prossimo capitolo!
Evangeline: *alza gli occhi al cielo* Ciao.
Tiky: Un bacio ad Anita. Spero di incontrarti presto.
Isil: Questo non succederà mai e lo sai anche tu, gigolò. Anyway: un bacio a tutte/i e al prossimo episodio.
 
 
 

 
 
 
 
 
 
 
  
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