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Autore: slytherin ele    08/12/2014    2 recensioni
Questa raccolta partecipa all' "Hunger Games contest" indetto da Triz93 sul forum.
Parla delle vicende di un Orignal Character che si ritrova a far parte dei tributi prescelti e del suo modo di reagire a ogni situazione.. è la storia di Damien, un ragazzo sicuro di sè, capace di ridere davanti a un destino avverso.
I turno Il Corteo Trionfante : "L'indifferenza dinanzi al destino" (drabble)
Genere: Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, Nuovo personaggio
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Il destino decise, la notte fu consigliera.

“Diventerai un perfetto falegname, Dam. Proprio come me, figliolo. Basta imparare da piccoli e tutto sembrerà più semplice.”

Mi ricordo ancora il sorriso di mio padre, mentre camminavamo per il bosco: accette alla mano e vestiti ormai strappati in più punti. Non m’importava della povertà che aveva sempre aleggiato intorno alla mia famiglia, alla mia esistenza: ero felice. Mio padre, Marshall, m’insegnava ciò che c’era da sapere sul suo mestiere nei ritagli di tempo libero, mia madre, Lane, lavorava nella fabbrica di carta principale fino alle prime luci dell’alba e passava poco tempo con me; io aspettavo che uno dei due tornasse intagliando pezzi di legno con un coltello di fortuna, solo per vederli sorridere quando arrivavano a casa e li consegnavo il gatto, il cane o l’albero lavorato. A quei tempi temevo la notte, perché avrebbe potuto portarmi via per sempre la mamma e gioivo il pomeriggio perché papà mi portava nei boschi. Avevo solo sei anni e la vita era bella: vedevo tutto in rosa nonostante la realtà che mi circondava fosse un grigio scuro, tendente al nero dell’oblio.

Erano passati dodici giorni dal mio compleanno, il sole non era ancora sorto in cielo, quando mamma aprì la porta di slancio, facendola sbattere contro il muro poco distante, mi svegliai di soprassalto dal lieve sonno in cui ero riuscito a rifugiarmi. C’è qualcosa di strano pensai. Mio padre tornava sempre una o due ore prima di mia madre e se non lo faceva, mi avvertiva con almeno un giorno di anticipo. Mi alzai da letto e rabbrividii posando i piedi sul freddo pavimento di legno. Camminai piano, cercando di non spaventare mia madre: la vidi accasciata sul pavimento, le braccia strette intorno a un pacco, due pacificatori che le intimavano di lasciarlo. Non scoprii mai che cosa ci fosse all’interno di quel pacco e non chiesi mai a mia madre di raccontarmelo.

Capii con il tempo che mio padre si era messo nei guai e che l’aveva pagata cara. Come disse mia madre un giorno, in cui non si accorse di avere un bambino di sette anni davanti: “Nessuno di Panem sfugge agli occhi di Capitol City, puoi nasconderti per un po’, forse fino all’ultimo… ma loro ti troveranno e ti distruggeranno, anche se l’unico sbaglio compiuto è stato cercare di sopravvivere.” Sinceramente, non compresi cosa intendesse mia madre: forse che non dovevo giocare con qualcosa più grande di me, forse che non serviva a nulla nascondersi.

Il fato volle che imparassi a farlo meglio di chiunque altro. Iniziai a celarmi nel buio, quando mia madre si risposò, l’uomo che chiese la sua mano aveva i capelli rossi ed era molto alto, era stato un pacificatore, veniva dal Distretto 2 e i suoi vent’anni di carriera erano ormai prossimi al termine, quando si presentò alla nostra porta: ero seduto capo-tavola, al posto di mio padre e stavo intagliando il millesimo omino con le sue fattezze. Mi squadrò velocemente, mentre si toglieva l’elmo bianco con visiera nera e mi sembrò quasi che fosse disgustato da me. Sgranai gli occhi e il coltello produsse un rumore sordo, cadendo sul pavimento, mia madre si voltò chiedendomi con gli occhi se stessi bene, ma non emise suono sotto lo sguardo indagatore dell’uomo. Lo conoscevo: lo avevo visto parlare con mio padre anni prima e dargli un pacchetto di piccole dimensione. Mi rifugiai in camera mia, cercando di ricacciare indietro le lacrime.

Pochi giorni dopo Conner tornò annunciando il suo congedo da lavoro, elogiò il denaro che era riuscito a guadagnare con il suo duro lavoro. Sporco e spietato pensai io, lanciando uno sguardo critico a mia madre, lei fece finta di non averlo compreso e sorrise. Non poteva permettersi di essere sgarbata e neppure di rifiutare l’offerta che le si presentava: non saremmo sopravvissuti ancora a lungo.

Conner mostrò il suo odio per me ogni giorno, prima cercando di trasformarmi in un piccolo sé, poi, comprendeno che le sue speranze erano vane, iniziò a picchiarmi.

Mi ricorderò sempre la minaccia che mi fece il giorno dopo il mio dodicesimo compleanno.

Avevo assistito alla prima mietitura alla quale avrei avuto il rischio di partecipare attivamente e Conner non era sembrato entusiasta che io non fossi stato scelto dalla sorte come tributo. “Aspetterò ancora un anno, Damien.” Il mio nome sembrò un veleno pronunciato dalla sua bocca a pochi centimetri dal mio orecchio sinistro. “Sei ancora un tenero bambino che non conosce la vita, ma t’insegnerò qual è il posto di quelli come te in questa società.”

Non ebbi il coraggio di aspettare un giorno in più, quando uscì dalla mia camera, portandosi con sé l’unica coperta logora in mio possesso, mi alzai e fuggii dalla finestra. Mi sembrò di sentire il rimprovero di mio padre, che m’intimava di tornare indietro, di non lasciare la mamma in balia di quell’uomo, ma non ne ebbi il coraggio.

Mi trasformai in un animale notturno che viveva alla giornata, mi nascondevo di giorno per paura che mi trovasse e uscivo quando la luna era alta in cielo per procurarmi un po’ di cibo. Vivevo nella foresta, sulle alte fronde degli alberi e nessuno sembrò voler cercarmi. Smisi di aver rapporti umani con chiunque, mia madre compresa: non la vidi piangere quando Conner le disse che non mi aveva trovato nel bosco; lo seppi solo anni dopo, avrei voluto urlare che non ci aveva neanche provato, ma ormai ero cambiato. Nulla mi scalfiva più, niente era abbastanza importante.

Non partecipai alla mietitura seguente e i pacificatori cominciarono a cercarmi attivamente: il mio gesto era un insulto per il presidente Snow. Ero diventato bravo a mimetizzarmi di giorno e ad attaccare di notte, quando la maggior parte di quegli scansafatiche si addormentava e i pochi rimasti di guardia vedevano a mala pena i loro stessi piedi. Era facile tramortirli, avvicinandosi di soppiatto alle loro spalle e colpendoli alla base della nuca, sarebbe stato ancora più semplice ucciderli, impugnando il coltello da cui non mi ero mai separato e piantandolo nella ben visibile arteria del collo, a pochi centimetri dalla carotide. Non lo feci mai: non era un assassino, non mi sarei abbassato al loro livello.

Riuscii a sopravvivere in quel modo per quattro anni, fino a che non mi trovai Conner davanti. La notte era buia, le nuvole coprivano le stelle e non cercai nemmeno di scappare: avevo deluso la mamma e lo sapevo bene, lei mi aveva chiesto di non nascondermi e io mi ero rifugiato nel bosco per tre anni. Non mi opposi quando l’uomo mi trascinò di forza a casa, abbracciai mia madre e non cercai scuse, perché non ce n’erano: avevo pensato solo a me stesso e l’avevo fatta soffrire.

Il giorno della mietitura dei 67° Hunger Games, Conner mi annunciò che oltre alle tessere di quei quattro anni, con il mio nome c’erano anche quelle che salvano mia madre e lui stesso dalla possibilità di partecipare ai giochi. Rise, dicendo che non l’avrebbero mai mandato comunque, ma io non feci una piega. In più aveva chiesto, personalmente, di aggiungere altre quaranta tessere per la mia fuga e per la mia poca dedizione alla famiglia. Ghignò sadico, mentre mi annunciava che era quasi certo che sarei stato pescato.

Aveva ragione, non che la fortuna fosse mai stata la mia alleata migliore, ma ammisi più tardi a me stesso che avevo sperato di essere pescato: i Giochi mi sembravo una valida alternativa al vivere sotto lo stesso tetto di quell’individuo. Sorrisi ferino quando salii sul palco, guardandolo negli occhi e lui digrignò i denti, stringendo il corpo svenuto di mia madre.

La notte aveva accompagnato ogni momento cruciale nella mia vita e gran parte della mia stessa esistenza. Pensavo mi avrebbe celato per sempre, protetto dalle ingiustizie del mondo, ma era stata lei stessa a recarmi l’ingiustizia più grande.

Ripensandoci ora, a Capitol City, mentre guardo fuori dalla grande finestra e la notte non impera come vorrei, capisco un fatto che prima non compresi: io sono come quelle stelle, la nuvola che mi nasconde e mi cela agli altri prima o poi sparisce, io continuo a esistere. Ho cantato vittoria insieme alla notte che mi occultava agli occhi degli altri, alla vita che non mi meritavo e ora sono pronto a combattere, anche solo per sentirmi vivo per un attimo.

C’è uno specchio poco distante da me, non ho bisogno di alzarmi per vedere la mia immagine riflessa: mi stupisco di quanto l’angolo angusto in cui mi sono seduto non permetta a quel vetro di riflettermi. I capelli biondi scuri sembrano un’ombra nera che mi cala sugli occhi, i miei vestiti mi fanno sembrare un unico buio involucro; solo i miei occhi chiari brillano nelle tenebre e dentro non vi leggo più la felicità di un bambino povero a cui bastava una vita semplice, ma l’oscuro desiderio di un giovane di spazzare via coloro che si porranno sul suo cammino.

Non provo più alcun sentimento: l’indifferenza è il mio essere, l’odio il mio compagno di vita.

 

[1500 parole]



   
 
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