Il destino
decise, la notte fu
consigliera.
“Diventerai
un
perfetto falegname, Dam. Proprio come me, figliolo. Basta imparare da
piccoli e
tutto sembrerà più semplice.”
Mi ricordo ancora il sorriso di mio
padre, mentre
camminavamo per il bosco: accette alla mano e vestiti ormai strappati
in più
punti. Non m’importava della povertà che aveva
sempre aleggiato intorno alla
mia famiglia, alla mia esistenza: ero felice. Mio padre, Marshall,
m’insegnava
ciò che c’era da sapere sul suo mestiere nei
ritagli di tempo libero, mia
madre, Lane, lavorava nella fabbrica di carta principale fino alle
prime luci
dell’alba e passava poco tempo con me; io aspettavo che uno
dei due tornasse
intagliando pezzi di legno con un coltello di fortuna, solo per vederli
sorridere quando arrivavano a casa e li consegnavo il gatto, il cane o
l’albero
lavorato. A quei tempi temevo la notte, perché avrebbe
potuto portarmi via per
sempre la mamma e gioivo il pomeriggio perché
papà mi portava nei boschi. Avevo
solo sei anni e la vita era bella: vedevo tutto in rosa nonostante la
realtà
che mi circondava fosse un grigio scuro, tendente al nero
dell’oblio.
Erano passati dodici giorni dal mio
compleanno, il sole non
era ancora sorto in cielo, quando mamma aprì la porta di
slancio, facendola sbattere
contro il muro poco distante, mi svegliai di soprassalto dal lieve
sonno in cui
ero riuscito a rifugiarmi. C’è
qualcosa
di strano pensai. Mio padre tornava sempre una o due ore
prima di mia madre
e se non lo faceva, mi avvertiva con almeno un giorno di anticipo. Mi
alzai da letto
e rabbrividii posando i piedi sul freddo pavimento di legno. Camminai
piano,
cercando di non spaventare mia madre: la vidi accasciata sul pavimento,
le
braccia strette intorno a un pacco, due pacificatori che le intimavano
di
lasciarlo. Non scoprii mai che cosa ci fosse all’interno di
quel pacco e non
chiesi mai a mia madre di raccontarmelo.
Capii con il tempo che mio padre si
era messo nei guai e che
l’aveva pagata cara. Come disse mia madre un giorno, in cui
non si accorse di
avere un bambino di sette anni davanti: “Nessuno di Panem
sfugge agli occhi di
Capitol City, puoi nasconderti per un po’, forse fino
all’ultimo… ma loro ti
troveranno e ti distruggeranno, anche se l’unico sbaglio
compiuto è stato
cercare di sopravvivere.” Sinceramente, non compresi cosa
intendesse mia madre:
forse che non dovevo giocare con qualcosa più grande di me,
forse che non
serviva a nulla nascondersi.
Il fato volle che imparassi a farlo
meglio di chiunque
altro. Iniziai a celarmi nel buio, quando mia madre si
risposò, l’uomo che chiese
la sua mano aveva i capelli rossi
ed era molto alto, era stato un pacificatore, veniva dal Distretto 2 e
i suoi
vent’anni di carriera erano ormai prossimi al termine, quando
si presentò alla
nostra porta: ero seduto capo-tavola, al posto di mio padre e stavo
intagliando
il millesimo omino con le sue fattezze. Mi squadrò
velocemente, mentre si
toglieva l’elmo bianco con visiera nera e mi
sembrò quasi che fosse disgustato
da me. Sgranai gli occhi e il coltello produsse un rumore sordo,
cadendo sul
pavimento, mia madre si voltò chiedendomi con gli occhi se
stessi bene, ma non
emise suono sotto lo sguardo indagatore dell’uomo. Lo
conoscevo: lo avevo visto
parlare con mio padre anni prima e dargli un pacchetto di piccole
dimensione.
Mi rifugiai in camera mia, cercando di ricacciare indietro le lacrime.
Pochi giorni dopo Conner
tornò annunciando il suo congedo da
lavoro, elogiò il denaro che era riuscito a guadagnare con
il suo duro lavoro. Sporco e spietato
pensai io, lanciando
uno sguardo critico a mia madre, lei fece finta di non averlo compreso
e
sorrise. Non poteva permettersi di essere sgarbata e neppure di
rifiutare
l’offerta che le si presentava: non saremmo sopravvissuti
ancora a lungo.
Conner mostrò il suo odio
per me ogni giorno, prima cercando
di trasformarmi in un piccolo sé, poi, comprendeno che le sue
speranze erano vane,
iniziò a picchiarmi.
Mi ricorderò sempre la
minaccia che mi fece il giorno dopo
il mio dodicesimo compleanno.
Avevo assistito alla prima mietitura
alla quale avrei avuto
il rischio di partecipare attivamente e Conner non era sembrato
entusiasta che
io non fossi stato scelto dalla sorte come tributo.
“Aspetterò ancora un anno,
Damien.” Il mio nome sembrò un veleno pronunciato
dalla sua bocca a pochi
centimetri dal mio orecchio sinistro. “Sei ancora un tenero
bambino che non
conosce la vita, ma t’insegnerò qual è
il posto di quelli come te in questa
società.”
Non ebbi il coraggio di aspettare un
giorno in più, quando
uscì dalla mia camera, portandosi con sé
l’unica coperta logora in mio
possesso, mi alzai e fuggii dalla finestra. Mi sembrò di
sentire il rimprovero
di mio padre, che m’intimava di tornare indietro, di non
lasciare la mamma in
balia di quell’uomo, ma non ne ebbi il coraggio.
Mi trasformai in un animale notturno
che viveva alla
giornata, mi nascondevo di giorno per paura che mi trovasse e uscivo
quando la
luna era alta in cielo per procurarmi un po’ di cibo. Vivevo
nella foresta,
sulle alte fronde degli alberi e nessuno sembrò voler
cercarmi. Smisi di aver
rapporti umani con chiunque, mia madre compresa: non la vidi piangere
quando
Conner le disse che non mi aveva trovato nel bosco; lo seppi solo anni
dopo,
avrei voluto urlare che non ci aveva neanche provato, ma ormai ero
cambiato.
Nulla mi scalfiva più, niente era abbastanza importante.
Non partecipai alla mietitura
seguente e i pacificatori
cominciarono a cercarmi attivamente: il mio gesto era un insulto per il
presidente Snow. Ero diventato bravo a mimetizzarmi di giorno e ad
attaccare di
notte, quando la maggior parte di quegli scansafatiche si addormentava
e i
pochi rimasti di guardia vedevano a mala pena i loro stessi piedi. Era
facile
tramortirli, avvicinandosi di soppiatto alle loro spalle e colpendoli
alla base
della nuca, sarebbe stato ancora più semplice ucciderli,
impugnando il coltello
da cui non mi ero mai separato e piantandolo nella ben visibile arteria
del
collo, a pochi centimetri dalla carotide. Non lo feci mai: non era un
assassino, non mi sarei abbassato al loro livello.
Riuscii a sopravvivere in quel modo
per quattro anni, fino a
che non mi trovai Conner davanti. La notte era buia, le nuvole
coprivano le
stelle e non cercai nemmeno di scappare: avevo deluso la mamma e lo
sapevo
bene, lei mi aveva chiesto di non nascondermi e io mi ero rifugiato nel
bosco
per tre anni. Non mi opposi quando l’uomo mi
trascinò di forza a casa,
abbracciai mia madre e non cercai scuse, perché non ce
n’erano: avevo pensato
solo a me stesso e l’avevo fatta soffrire.
Il giorno della mietitura dei
67° Hunger Games, Conner mi
annunciò che oltre alle tessere di quei quattro anni, con il
mio nome c’erano
anche quelle che salvano mia madre e lui stesso dalla
possibilità di
partecipare ai giochi. Rise, dicendo che non l’avrebbero mai
mandato comunque,
ma io non feci una piega. In più aveva chiesto,
personalmente, di aggiungere
altre quaranta tessere per la mia fuga e per la mia poca dedizione alla
famiglia. Ghignò sadico, mentre mi annunciava che era quasi
certo che sarei
stato pescato.
Aveva ragione, non che la fortuna
fosse mai stata la mia
alleata migliore, ma ammisi più tardi a me stesso che avevo
sperato di essere
pescato: i Giochi mi sembravo una valida alternativa al vivere sotto lo
stesso
tetto di quell’individuo. Sorrisi ferino quando salii sul
palco, guardandolo
negli occhi e lui digrignò i denti, stringendo il corpo
svenuto di mia madre.
La notte aveva accompagnato ogni
momento cruciale nella mia
vita e gran parte della mia stessa esistenza. Pensavo mi avrebbe celato
per
sempre, protetto dalle ingiustizie del mondo, ma era stata lei stessa a
recarmi
l’ingiustizia più grande.
Ripensandoci ora, a Capitol City,
mentre guardo fuori dalla
grande finestra e la notte non impera come vorrei, capisco un fatto che
prima
non compresi: io sono come quelle stelle, la nuvola che mi nasconde e
mi cela agli
altri prima o poi sparisce, io continuo a esistere. Ho cantato vittoria
insieme
alla notte che mi occultava agli occhi degli altri, alla vita che non
mi
meritavo e ora sono pronto a combattere, anche solo per sentirmi vivo
per un
attimo.
C’è uno specchio
poco distante da me, non ho bisogno di
alzarmi per vedere la mia immagine riflessa: mi stupisco di quanto
l’angolo
angusto in cui mi sono seduto non permetta a quel vetro di riflettermi.
I capelli
biondi scuri sembrano un’ombra nera che mi cala sugli occhi,
i miei vestiti mi
fanno sembrare un unico buio involucro; solo i miei occhi chiari
brillano nelle
tenebre e dentro non vi leggo più la felicità di
un bambino povero a cui
bastava una vita semplice, ma l’oscuro desiderio di un
giovane di spazzare via
coloro che si porranno sul suo cammino.
Non provo più alcun
sentimento: l’indifferenza è il mio
essere, l’odio il mio compagno di vita.
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