Benvenuti al panda day, il giorno del delirio in cui da un'unica parola nascono fan fiction di ogni genere!
Perche panda?! Perchè ci serviva un modo veloce per chiamarlo, perchè “panda day” suona che è una meraviglia e perchè i panda sono carini e coccolosi.
Il meccanismo se qualcuno vuole partecipare è semplice. Ogni settimana sceglieremo una parola aprendo a caso il dizionario e quello sarà il prompt per le varie fan fiction ( tutti i generi, tutti i rating, tutti i paring, ma niente long) e basterà scrivere * panda day* nell'intro alla storia e il prompt della settimana in piccolo sotto al titolo sempre fra i due asterischi. E non dimenticate la foto di pandaman in fondo a destra!
La parola per mercoledì prossimo è: Corte.
Grazie a tutti e buona lettura!
Diversi ma uguali
*Scarico*
Era
davvero stufo Ace. Da quando avevano aperto, una settimana prima, il
pub “ Nube di fumo” con quattro dei suoi migliori
amici; stava
andando tutto storto, o meglio il locale andava alla grande se non
fosse che, ogni santo giorno, si rompeva qualcosa.
Lui, Marco,
Sanji e Zoro avevano rilevato il locale da un anziano signore, il
quale molti anni prima, gestiva un piccolo ristorantino proprio in
quello stesso locale.
I quattro amici, passando di lì una fredda
sera d’inverno tra una battuta ed un’altra avevano
iniziato a
buttar giù qualche idea su come quel locale ormai
abbandonato,
sarebbe potuto diventare un luogo di svago e ritrovo serale: visto il
punto strategico nel centro città in cui si trovava.
Da quattro
chiacchiere camminando per strada, si erano ritrovati poi seduti al
bancone di un bar vicino, a sorseggiare birra e pensare concretamente
ad un loro futuro da gestori di pub.
Ora, dopo mesi passati a
ristrutturare praticamente ogni angolo del locale, con
l’aiuto dei
loro amici più stretti, avevano finalmente realizzato il
sogno nato
in una notte di Dicembre.
Nube di fumo, era diventato, in una sola
settimana, il locale più frequentato di tutta Raftel.
I giovani
apprezzavano il pub per i cocktail gustosi ed economici e soprattutto
per la musica dal vivo. Ma non solo gli adolescenti amavano
frequentare quel luogo, bensì anche gli over quaranta i
quali
trovavano in quel luogo un posto dove rilassarsi dopo una lunga
giornata di lavoro, e perché no, gustare anche i manicaretti
eccellenti, preparati dal famoso Gamba nera, il cuoco più
temuto e
stimato di tutta Raftel.
Andava tutto alla grande ed Ace non
poteva che esserne più felice, peccato che quel posto
sembrava
maledetto. Ogni giorno, arrivato al locale trovava, tutte le sante
volte, qualcosa da sistemare.
Essendo che avevano appena aperto
non potevano ancora permettersi un tuttofare che riparasse le varie
cose e visto che Sanji era perennemente impegnato in cucina, Zoro era
un ottimo barista, ma di sistemare i guasti proprio non se ne
parlava; toccava sempre a lui rassettare: buchi, tubi rotti, porte
cigolanti.
Con un cacciavite a stella in mano, Ace maledisse
Marco per la milionesima volta quel giorno, per essere di nuovo
sparito nel momento del bisogno. Quella mattina, appena arrivato al
locale si era accorto che la serratura della porta del bagno si era,
inspiegabilmente, smollata, e quindi aveva vagato per tutto il locale
alla ricerca di un cacciavite per quasi un’ora per poi
trovarlo tra
le bottiglie di Whisky. Cosa ci facesse un cacciavite tra le
bottiglie di Whisky rimaneva un mistero, fatto sta che aveva perso
l’intera mattinata a riparare una dannata serratura.
Sbuffando,
Ace si diresse al bancone del bar, controllando che tutto fosse
apposto.
Si sedette su uno sgabello e, sospirando, si guardò
intorno. Il locale era avvolto da una leggera penombra, la luce
chiara che filtrava dalle finestre illuminava solo il centro del
locale, lasciando in ombra le parti circostanti. Avvolto anche lui
nell’ombra, osservò, in pace, il locale. Dal
soffitto alto
scendevano delle lucine, ora spente, che davano un tocco di magia al
salone, quando la sera, accendendole formavano una cascata di piccole
luci, come piccole stelle cadenti. Il locale era stato ristrutturato,
e con lui le tavole di castagno che lo tappezzavano, dando a tutta la
sala un tocco di retrò che in quel periodo andava tanto di
moda.
Foto di gruppi musicali e citazioni di grandi attori e musicisti,
tappezzavano la piccola saletta adibita a ristorante, sotto il caldo
rosso delle pareti in contrasto perfetto con i piccoli tavoli di
legno nero.
Amava quel locale Ace, per questo ogni giorno, pur
trovando un guasto da riparare o un fornitore da accontentare,
continuava a sorridere; perché per lui quel luogo, come del
resto
per i suoi amici, era la realizzazione di un sogno, nato per caso, ma
realizzato con la sola forza di volontà.
Una luce improvvisa lo
illuminò di colpo facendogli strizzare gli occhi per
l’accecante
luce mattutina.
-Ehi Ace, che fai, poltrisci?- disse Marco, il suo
migliore amico, accedendo dal portone d’entrata:
un’enorme porta,
scelta proprio da Marco, di un massiccio legno riverniciato di rosso
con sopra disegnata un’enorme fenice dorata. Appena aveva
visto
quella porta, in un negozio di antiquariato, Marco se ne era
innamorato, accennando un breve sorriso, cosa rarissima per lui,
quasi sempre sulle sue.
-Non sto dormendo, idiota- rispose Ace
alzandosi dallo sgabello, osservando l’amico avanzare verso
di lui.
Marco portava, sotto il braccio, un lungo cartellone arrotolato,
mentre a passo lento si avvicinava al bancone del bar oscillando i
lembi della sua camicia azzurra aperta sul petto.
-Ecco la
locandina di stasera- disse il biondo srotolando, davanti al moro, il
cartellone rappresentante a grandezza uomo, una ragazza dai lunghi
capelli rosa, racchiusi in due codini. La ragazza, in posa con un
microfono ad asta in mano, guardava seducente davanti a sé,
mentre a
caratteri cubitali accanto a lei si ergeva la scritta : Non perdere
gente stasera il concerto di Perona. Una voce graffiante che ti
scalda il cuore. Stasera al Nube di fumo.
Ace sbuffò leggendo il
manifesto, era più forte di lui, quella Perona lui proprio
non la
sopportava. Era un'antipatia a pelle la sua. Appena quella frivola
ragazza era entrata nel pub, il secondo giorno di apertura, aveva
subito capito che non sarebbero mai potuti diventare amici.
Lei
con quel leccalecca sempre in bocca.
Lei con quei vestiti a
corpetto e gonne gotiche.
Lei e il suo odioso ombrellino che
portava anche di notte.
Lei con i suoi codini, gli occhi pieni di
mascara e quell'aria altezzosa che tanto lo irritava.
Lei, Perona,
il suo peggior incubo.
Lui era sempre stato un tipo amichevole,
allegro nonostante l'infanzia piena di perdite e dolori. Era rimasto
orfano all'età di sette anni per poi essere adottato da
colui che
gli insegnò tutto, suo padre, il capitano di un potente
transatlantico, conosciuto da tutti come Barbabianca. Suo padre, gli
aveva rammentato il significato della vita, ripetendogli sempre che "
la vita va vissuta fino in fondo, buttandosi a capofitto in essa per
raggiungere i propri sogni. Perché la vita è una
sola e se non la
vivi al meglio, che vita è?"
Quella frase aveva accompagnato
Ace per tutta la sua vita aiutandolo, anche in quella non molto
lontana sera d'inverno, a buttarsi a capofitto in quel sogno folle di
aprire un pub; sogno che dopo mille difficoltà si era
realizzato.
-Dobbiamo proprio inserire lei nella scaletta di
stasera?- chiese a Marco, girando dietro il bancone del bar per
servire, a lui ed al suo socio, un drink.
Il biondo di tutta
risposta si sedette al bancone, poggiando un gomito sul ripiano
lucido, ed appoggiando il mento sul palmo aperto. Marco
guardò Ace
con quella sua aria perennemente assonnata, e poi mostrò il
suo
tipico ghigno che non prometteva nulla di buono –Come mai
Perona ti
sta così antipatica? Devo forse essere informato di qualche
particolare?- chiese circondando il bicchiere di vetro chiaro con le
sue lunghe dita.
Ace confuso aggrottò la fronte cercando di
studiare gli occhi scuri dell’amico per capire cosa stesse
insinuando di preciso; poi d’un tratto ci arrivò
e, sbattendo il
bicchiere sul bancone, urlò –Ma che diavolo vai a
pensare? A me
non piace quella, capito!?- sbuffò per poi scoppiare a
ridere
insieme all’amico.
-Se lo dici tu…- rise Marco, mentre nel
locale entravano Sanji e Zoro, come sempre intenti a
bisticciare.
Marco ed Ace si voltarono verso i nuovi arrivati, ed
Ace repentino recuperò altri due bicchieri in cui
versò lo stesso
liquido ambrato appena degustato con Marco.
Zoro si sedette al
bancone sbuffando irritato, afferrando al volo il bicchiere che
scivolava velocemente verso di lui, mentre Sanji continuava ad
elogiare una misteriosa ragazza.
-La smetti cuoco da strapazzo! Mi
hai fatto venire il mal di testa con tutte queste moine inutili. Lei
non ti a nemmeno considerato!- ringhiò il verde
-Zitto stupido
marimo, tu non capisci niente di donne. La stupenda Nami aveva occhi
solo per me. E poi, povera, stava cercando un lavoro, come potevo
rifiutarmi e non assumerla?- chiese plateale, Sanji, piroettando nel
centro della sala.
-Ti ha solo infinocchiato, ecco cos’ha fatto
quella strega. Due occhioni dolci ed ecco, assunta! Che idiota ci sei
cascato subito, lei sapeva già chi eravamo- disse Zoro,
realistico.
Lui, a differenza del biondo, aveva subito capito le intenzioni di
quella ragazza dagli occhi caramello. Lei, furba era andata a
sbattere contro Sanji, scusandosi per la sua distrazione momentanea,
mentre il cuoco era già salito sul pianeta moine,
volteggiandole
intorno. Lei, furba, aveva subito iniziato la sua recita da povera
disoccupata, e Sanji, idiota, ci era cascato.
-Hai assunto una
ragazza che nemmeno conosci?- chiese Marco al cuoco.
-Ma io la
conosco! Si chiama Nami e sarà una perfetta cameriera!-
-Veramente
le hai promesso che avrebbe gestito le finanze del locale-
grugnì
Zoro.
-Fa lo stesso. È così bella!-
volteggiò Sanji
-E bravo
il nostro Sanji- disse Ace dandogli una pacca sulla spalla,
sorridendo mettendo così in mostra le lentiggini che gli
puntellavano gli zigomi.
Mentre i quattro amici chiacchieravano e
si azzuffavano come bambini di quattro anni, il portone
d’entrata
si spalancò ed una figura snella fece la sua comparsa nel
locale.
-Di cosa state chiacchierando, soci?- disse la nuova
arrivata, camminando sui suoi vertiginosi stivali con in mano il suo
fedele ombrellino.
Il sorriso allegro dal viso di Ace scomparve
subito, quando riconobbe Perona.
-Non siamo soci, Perona. Non con
te- sentenziò Zoro.
-Suvvia senza la mia stupenda voce non
riempireste mai questo locale tutte le sere. Merito il titolo di
socia!- protestò la ragazza sbattendo i piedi come una
bambina
capricciosa, per poi portarsi, con la mano libera, un leccalecca alla
bocca.
Ace osservò la ragazza con le mani fasciate con delicati
guanti neri di pizzo, giocherellare con la caramella, passandosela
sulla lingua in modo seducente. Come se lei si fosse accorta che la
stava osservando, Perona puntò il suo sguardo su Ace.
La notte
scura, nera, che cosparge il mare, anch’esso nero. Ecco cosa
rappresentava quel breve scambio di sguardi. Colori così
simili per
personalità apparentemente così diverse.
Perona, con un gesto
lento si tolse il bastoncino dalla bocca, leccandosi le labbra
maliziosamente, senza mai staccare gli occhi da Ace. Il moro si
sentì
improvvisamente strano, quegli occhi, quello sguardo così
profondo
in quel momento, lo stavano confondendo. Non gli era mai successo di
sentirsi in quel modo…confuso, quasi spaesato, specialmente
di
fronte ad una ragazza.
Ma che stava combinando? Perché continuava
a fissare Perona? Scosse la testa come per svegliarsi da un
momentaneo stato di trance e si ritrovò il sorrisino
ghignante di
Marco ad irritarlo ancor di più.
Improvvisamente stizzito, Ace
girò via dal bancone –Vado a sistemare il palco
per stasera- disse
quasi in un sussurro, lasciando i tre amici, e la rosa, al bar.
Uno
dopo l’altro i ragazzi si dileguarono, Sanji in cucina, Marco
e
Zoro a sistemare le luci, lasciando Perona sola nel centro del
locale.
La ragazza smorzò immediatamente il suo flebile sorriso.
Ormai lo aveva capito bene, nessuno in quel locale la sopportava,
soprattutto Ace, e dire che lei invece lo trovava simpatico e
soprattutto molto bello. Quando era entrata in quel locale per la
prima volta, aveva subito incontrato lo sguardo di Ace e, per un
breve istante, si era sentita…felice, così senza
una ragione
specifica.
Le capitava spesso di passare da uno stato di pura
felicità per poi cadere nella disperazione più
profonda, era la sua
piccola pecca, il suo difetto o meglio il suo disturbo. Lo
psicanalista le aveva diagnosticato una depressione bipolare, una
cosa da niente per chi non ne conosce il significato, per lei era una
vera tortura, un baratro senza luce, dove lei era caduta dopo la
morte dei suoi genitori, e da allora non ne era più uscita.
Era
scappata dall’istituto dove veniva curata, sapeva non essere
la
soluzione al suo problema, anzi la fuga lo avrebbe solo aggravato; ma
lei non resisteva più. Non riusciva più a
sopportare gli sguardi
degli infermieri, i pettegolezzi sussurrati al suo passaggio, le mura
così bianche in quel luogo pieno di luce, troppa luce per i
suoi
gusti.
Era arrivata a Raftel così, per caso, finendo davanti al
Nube di fumo per altrettanto caso. Era entrata nel locale per
mangiare qualcosa, visto che non toccava cibo da tre giorni. Era
stanca e depressa. Nella sua mente vorticavano pensieri sempre
più
bui: non ce la farò mai, devo tornare
all’istituto, morirò…
finché una voce profonda ed allegra, quella di Ace,
annunciò la
serata karaoke. Il suo umore si era subito risollevato, forse per la
sua patologia, si disse, ma sapeva esserci altro. La voce di Ace era
come un faro nella notte, che la guidava verso la retta via. Non era
più alla deriva, sentiva che lì, avrebbe trovato
la sua ragione di
vita, l’ancora a cui aggrapparsi con tutta la forza che le
era
rimasta per riemergere dalle onde scure che la trascinavano ogni
giorno più a fondo.
Aveva sentito qualcosa scattare dentro di sé.
Aveva sempre amato la musica, cantare sotto la doccia come faceva sua
madre; la musica era il suo unico legame con lei, l’unico che
le
era rimasto. Così senza pensarci su più di tanto,
si era diretta
con aria spavalda verso il palco ed aveva afferrato il
microfono.
Salire sul palco, trovarsi tutta quella gente davanti
che la fissava, avrebbe dovuto farla sentire piccola come una
formica, insignificante e soprattutto spaventata; ma non fu
così.
Per la prima volta dopo tanto tempo aveva riacquistato la forza che
l’aveva sempre caratterizzata prima della malattia. La
spavalderia
e perché no, anche quel pizzico di arroganza che le
consentiva di
non temere niente e nessuno, di non preoccuparsi più degli
sguardi e
dei pettegolezzi.
Così era iniziato tutto, con una canzone, una
dopo l’altra, bis su bis, applausi su applausi. Tutto
ciò l’aveva
fatta sentire come se fosse rinata sotto altre spoglie, come una
fenice rinata dalle sue stesse ceneri; in quel momento la sua
patologia era un ricordo lontano come la nebbia delle prime luci
dell’alba, dileguatasi durante la mattina come se in
realtà non ci
fosse mai stata.
Ricordava di aver cercato quel sorriso, quegli
occhi scuri che l’avevano risvegliata dalle tenebre, ma
quando
aveva incontrato il suo sguardo, quello di Ace, lui si era voltato.
Non le aveva mai rivolto un sorriso, gesto che però regalava
a
chiunque, tranne a lei.
Le sere successive la folla la reclamava,
così sera dopo sera si era avventurata su quel palco ed
aveva
cantato per la gente, ma soprattutto per se stessa. Man mano aveva
ripreso a vestirsi come più le piaceva. Stivali alti con
tacchi a
zeppa, gonnelline a ruota dai colori gotici e corpetti con mille
laccetti. Un look trasgressivo, che incuriosiva alcuni, ed inorridiva
altri come Ace. Ma a lei ormai non importava più, o almeno
così
pensava. Doveva andare avanti senza farsi abbattere da niente e da
nessuno, anche da colui che, senza saperlo l’aveva riportata
in
vita.
Con passo deciso si diresse verso il retro del salone
dove vi erano i bagni e il suo camerino. Sulla porta bianca
troneggiava fiera la stella dorata con scritto a caratteri cubitali:
Perona.
Ai quattro soci quella del camerino e della targhetta
sulla porta era considerata un capriccio. Tutto ciò che la
riguardava per loro era un capriccio, ed in parte avevano ragione. Si
nascondeva sotto quella maschera da ragazzina viziata, nascondendo
così a tutti la verità. Per lei però
quel camerino e quella stella
significavano tanto, tutto. Ogni volta che li osservava si ricordava
di non essere una persona insignificante, una pazza, come
l’avevano
sempre definita all’istituto; lei era di più, lei
poteva avere di
più.
Aprì la porta richiudendo l’ombrellino di cui non
si
separava mai. Quell’oggetto considerato da tutti inutile, per
lei
era come uno scudo, una protezione da quelli sguardi che
l’avevano
sempre disprezzata, criticata.
Entrata nel piccolo camerino si
avviò verso il bagno per rinfrescarsi. Aveva notato lo
sguardo di
Ace quando i suoi occhi avevano incrociato quelli di lui.
L’aveva
evitata, ancora una volta come se fosse portatrice di una malattia
contagiosa, e forse era così.
Chiuse la piccola porta del bagno
alle sue spalle e subito, appena la porta si era chiusa, la maniglia
cadde rovinosamente a terra.
Perona guardò la maniglia a terra
fissandola, prima come se niente fosse e poi man mano realizzando,
con paura, cosa significava quell’oggetto a terra.
Prigione.
Quella
fu la prima parola che le passò per la mente. Le gambe
ricoperte
dalle lunghe calze a strisce nere e rosa, iniziarono a tremare,
così
come le mani guantate di pizzo.
La paura si impossessò di lei,
immergendola nel panico più nero.
Si guardò attorno con occhi
serrati dalla paura, non c’era via di fuga da quel buco di
due
metri per due. Nervosa scagliò un calcio contro il water,
mancando
però l’obbiettivo e calciando quindi il tubo dello
scarico che si
ruppe facendo fuoriuscire acqua a non finire.
Gli stivali di pelle
nera vennero subito inzuppati dal getto d’acqua, che pian
piano
iniziò a ricoprire le mattonelle bianche.
Perona era rimasta
immobile dopo il calcio. Ferma con gli occhi puntati su
quell’acqua
che la stava pian piano avvolgendo. Pian piano anche la tristezza
tornò, sommergendola dal petto fino alla gola in una morsa
che le
impediva anche di respirare.
Lacrime amare iniziarono ha scenderle
dagli occhi, mischiandosi con il mascara rigandole così il
viso con
due parallele strisce nere.
Cadde in ginocchio senza nemmeno
accorgersene, continuando a piangere ed a fissare il tubo dello
scarico. Era strano sentirsi avvolta di nuovo da quella profonda
tristezza, iniziando a pensare che da lì non sarebbe mai
uscita.
Nessuno l’avrebbe mai cercata, perché nessuno si
preoccupava di
lei. A nessuno importava di lei.
Lei era come quello scarico rotto
con la differenza che lo scarico, un giorno, sarebbe stato riparato,
mentre per lei non c’erano speranze. Lei non sarebbe mai
stata
curata da nessuno. Non c’era un idraulico che si sarebbe
preso cura
di lei, rassettandola.
Senza smettere di piangere si portò le
ginocchia al petto aspettando la fine.
Era sera e il
locale stava iniziando a riempirsi man mano.
Zoro era intento a
preparare vari cocktail mentre Marco sistemava gli strumenti per la
performance di Perona.
Ace si guardò attorno, non sapeva cosa o
chi stesse cercando, sapeva solo di sentirsi stranamente agitato.
Sentiva la maglietta nera sempre più aderente al suo corpo
come se
si restringesse man mano che passasse il tempo, o forse era solo una
sua fissazione. Aveva bisogno di respirare un po’ di aria
fresca
quindi, fece un cenno a Zoro e camminò verso il retro del
locale,
verso i bagni.
Passò davanti al camerino di Perona per poi
fermarsi di colpo.
Perona. Non l’aveva più vista dal quel
pomeriggio. Dov’era finita quella smorfiosa? Si
voltò deciso a
richiamarla quando si accorse dell’acqua che fuoriusciva
lenta dal
camerino della ragazza.
Una parte di lui fu invasa da uno strano
panico, mentre l’altra parte apriva senza bussare la porta
del
camerino.
La stanza era invasa dall’acqua, ma di Perona non
c’era traccia.
-Dannazione che altro si è rotto?- disse
imprecando. Si guardò intorno per poi fissare la porta del
piccolo
bagno, chiusa.
Avanzò verso il bagno mettendo una mano sulla
maniglia, che cadde a terra.
-Perché deve sempre rompersi
qualcosa in questo cavolo di locale?- si chiese sbuffando, poi
qualcosa, un sospiro, seguito da flebili singhiozzi, lo fece tacere.
Accostò l’orecchio alla porta e udì
quello che era il respiro
affannoso di una persona.
-Perona! Perona sei qui dentro?- urlò
bussando violentemente alla porta, avvolto da una forte morsa di
panico.
-Ace…- un sussurro il suo, ma bastò ad Ace per
prendere
in mano la situazione.
Perona era chiusa in quel bagno,
probabilmente allagato, doveva salvarla o lui…
Con una spallata,
seguita da un’altra e un'altra ancora, sfondò la
porta entrando
finalmente nel bagno.
I suoi occhi neri guizzarono velocemente per
tutta la piccola stanza, allagata a causa dello scarico del bagno
rotto. Poi lì, in mezzo al bagno, vide lei, Perona.
-Perona- la
chiamò, ma lei non si muoveva. Ace vedeva gli occhi della
ragazza
aperti, il respiro affannoso, ma lei non gli rispondeva; la solita
altezzosa, pensò.
-Ace…- disse la rosa con un sospiro –mi
dispiace, non volevo rompere lo scarico. Non volevo…non
volevo…-
la ragazza iniziò a cullarsi sul pavimento con le ginocchia
sempre
schiacciate contro il petto –lasciami sola è
questo che mi merito.
Io sono sempre sola, e lo sarò per sempre…-
Ace non riusciva a
capire, perché Perona si comportava in quel modo?
Perché non si
alzava e sbuffava irritata perché nel suo bagno si era rotto
un
tubo? Perché non c’era più traccia
della bambinetta altezzosa che
aveva sempre visto in quella lunga settimana? Ora Perona sembrava
solo un piccolo cucciolo indifeso, un cucciolo il quale aveva perso
ogni speranza di vivere.
Senza dire una parola si inginocchiò
accanto alla ragazza, poggiandole una calda mano sulla schiena
–Perona, guardami- le disse con voce calda e calma
–guardami, io
ci sono, non sei sola-
La ragazza si voltò lentamente verso il
moro e lo guardò. I loro sguardi si incatenarono per la
seconda
volta quel giorno, ma questa volta era diverso, lui non le sfuggiva e
lei non stava indossando la sua solita maschera, ma era se stessa; la
fragile se stessa.
-Ace…- la ragazza si arrampicò verso il
petto del moro che l’abbracciò.
-Va tutto bene. Sono qui, con
te. Non ti lascio-.
La rosa alzò lo sguardo, ora era molto più
vicina ad Ace, tanto da sentire il suo respiro caldo sfiorarle il
viso –Sono malata, Ace. Soffro di depressione bipolare e sono
scappata dall’istituto dove mi curavo- confessò.
Il ragazzo
inizialmente scioccato da quell’improvvisa confessione,
guardò
Perona non altri occhi. Non era più la ragazzina altezzosa
che ogni
giorno richiedeva un privilegio diverso ricattandoli di andarsene.
Non era più la bambinetta che giocherellava con il
leccalecca. Ora
era solo Perona, una ragazza fragile che si era aperta completamente
a lui, non sapeva neanche il perché, ma la sentiva ora
più vera,
più vicina. Forse, si disse Ace, non era Perona in se a
provocargli
antipatia, ma la maschera che portava. Ora non provava più
disprezzo
per lei, ma comprensione.
L’abbracciò stringendola a sé,
percependo il respiro, prima accelerato della ragazza, calmarsi man
mano.
-Ace ho bisogno di cantare. Devo cantare o tornerò
laggiù…-
disse come una supplica. Voleva combattere, ancora.
Ace si alzò
portandola con sé. Si guardarono ancora negli occhi e poi le
sorrise. Un sorriso caloroso e sincero il suo –sembri un
panda con
questi occhi circondati di mascara- scherzò –su
vatti a preparare
che io sistemo questo maledetto scarico.
La ragazza si ricompose,
regalandogli un sorriso così ampio che sorprese anche se
stessa
–Corro!- disse di nuovo felice, scomparendo dietro la
porta.
Perona era salita sul palco con qualche minuto di
ritardo, ma carica più che mai. Si era seduta sullo sgabello
al
centro del palco incrociando le lunghe gambe velate da calze nere di
pizzo. Portava un vestitino nero di raso e pizzo formato da un
corpetto pieno di laccetti ed una gonnellina che si allargava dalla
vita fino a metà coscia. I capelli, legati nei consueti
codini
ricadevano ancora con le punte bagnate. Si schiarì la voce,
mentre
nella sala, con le luci soffuse, la gente aspettava solo lei, solo la
sua voce.
-Ehi sei arrivato finalmente! Ma dov’eri finito?-
chiese Marco ad Ace.
-Si è rotto lo scarico del bagno- sorrise
Ace, volgendo lo sguardo verso Perona senza smettere di sorridere.
Era la prima volta che la osservava davvero mentre cantava. Che
l’ascoltava. Era tremendamente brava, ecco perché
era così
richiesta. La sua voce, di giorno sempre così stridula nelle
sue
mille richieste e capricci, la sera si trasformava. Diventava calda,
graffiante, ed arrivava dritta al cuore.
La mia àncora dagli
occhi di tenebra mi ha salvato.
Dalla nebbia mi ha sollevato.
Una
maschera porto ogni giorno,
per paura del non ritorno.
Tu però
mi hai aperto il cuore,
un cuore freddo senza più splendore…
Ace
strabuzzò gli occhi. Perona gli stava dedicando una canzone?
Il
sorriso sul suo volto si allargò quando incrociò
quegli occhi tanto
simili ai suoi. Occhi che avevano conosciuto la sofferenza, e che la
combattevano tutti i giorni, proprio come faceva lui. Forse,
pensò,
lui e Perona non erano poi così diversi. Forse da quella
sera
avrebbe guardato la ragazza sotto un’altra luce. Forse, i
loro
destini non erano poi così diversi.
Grazie al destino o allo
scarico rotto di un bagno, Ace e Perona avevano aperto gli occhi,
trovando nell’altro la persona con cui, pian piano, avrebbero
capito di poter condividere non solo il lavoro, non solo un passato
di dolore, ma anche un futuro.