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Autore: kiko90    10/12/2014    3 recensioni
"Lei con quel leccalecca sempre in bocca.
Lei con quei vestiti a corpetto e gonne gotiche.
Lei e il suo odioso ombrellino che portava anche di notte.
Lei con i suoi codini, gli occhi pieni di mascara e quell'aria altezzosa che tanto lo irritava.
Lei, Perona, il suo peggior incubo."
*Panda day*
Genere: Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Marco, Perona, Portuguese D. Ace, Roronoa Zoro, Sanji
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Benvenuti al panda day, il giorno del delirio in cui da un'unica parola nascono fan fiction di ogni genere!

Perche panda?! Perchè ci serviva un modo veloce per chiamarlo, perchè “panda day” suona che è una meraviglia e perchè i panda sono carini e coccolosi.

Il meccanismo se qualcuno vuole partecipare è semplice. Ogni settimana sceglieremo una parola aprendo a caso il dizionario e quello sarà il prompt per le varie fan fiction ( tutti i generi, tutti i rating, tutti i paring, ma niente long) e basterà scrivere * panda day* nell'intro alla storia e il prompt della settimana in piccolo sotto al titolo sempre fra i due asterischi. E non dimenticate la foto di pandaman in fondo a destra!

La parola per mercoledì prossimo è: Corte.

Grazie a tutti e buona lettura!



Diversi ma uguali

*Scarico*



Era davvero stufo Ace. Da quando avevano aperto, una settimana prima, il pub “ Nube di fumo” con quattro dei suoi migliori amici; stava andando tutto storto, o meglio il locale andava alla grande se non fosse che, ogni santo giorno, si rompeva qualcosa.
Lui, Marco, Sanji e Zoro avevano rilevato il locale da un anziano signore, il quale molti anni prima, gestiva un piccolo ristorantino proprio in quello stesso locale.
I quattro amici, passando di lì una fredda sera d’inverno tra una battuta ed un’altra avevano iniziato a buttar giù qualche idea su come quel locale ormai abbandonato, sarebbe potuto diventare un luogo di svago e ritrovo serale: visto il punto strategico nel centro città in cui si trovava.
Da quattro chiacchiere camminando per strada, si erano ritrovati poi seduti al bancone di un bar vicino, a sorseggiare birra e pensare concretamente ad un loro futuro da gestori di pub.
Ora, dopo mesi passati a ristrutturare praticamente ogni angolo del locale, con l’aiuto dei loro amici più stretti, avevano finalmente realizzato il sogno nato in una notte di Dicembre.
Nube di fumo, era diventato, in una sola settimana, il locale più frequentato di tutta Raftel.
I giovani apprezzavano il pub per i cocktail gustosi ed economici e soprattutto per la musica dal vivo. Ma non solo gli adolescenti amavano frequentare quel luogo, bensì anche gli over quaranta i quali trovavano in quel luogo un posto dove rilassarsi dopo una lunga giornata di lavoro, e perché no, gustare anche i manicaretti eccellenti, preparati dal famoso Gamba nera, il cuoco più temuto e stimato di tutta Raftel.
Andava tutto alla grande ed Ace non poteva che esserne più felice, peccato che quel posto sembrava maledetto. Ogni giorno, arrivato al locale trovava, tutte le sante volte, qualcosa da sistemare.
Essendo che avevano appena aperto non potevano ancora permettersi un tuttofare che riparasse le varie cose e visto che Sanji era perennemente impegnato in cucina, Zoro era un ottimo barista, ma di sistemare i guasti proprio non se ne parlava; toccava sempre a lui rassettare: buchi, tubi rotti, porte cigolanti.
Con un cacciavite a stella in mano, Ace maledisse Marco per la milionesima volta quel giorno, per essere di nuovo sparito nel momento del bisogno. Quella mattina, appena arrivato al locale si era accorto che la serratura della porta del bagno si era, inspiegabilmente, smollata, e quindi aveva vagato per tutto il locale alla ricerca di un cacciavite per quasi un’ora per poi trovarlo tra le bottiglie di Whisky. Cosa ci facesse un cacciavite tra le bottiglie di Whisky rimaneva un mistero, fatto sta che aveva perso l’intera mattinata a riparare una dannata serratura.
Sbuffando, Ace si diresse al bancone del bar, controllando che tutto fosse apposto.
Si sedette su uno sgabello e, sospirando, si guardò intorno. Il locale era avvolto da una leggera penombra, la luce chiara che filtrava dalle finestre illuminava solo il centro del locale, lasciando in ombra le parti circostanti. Avvolto anche lui nell’ombra, osservò, in pace, il locale. Dal soffitto alto scendevano delle lucine, ora spente, che davano un tocco di magia al salone, quando la sera, accendendole formavano una cascata di piccole luci, come piccole stelle cadenti. Il locale era stato ristrutturato, e con lui le tavole di castagno che lo tappezzavano, dando a tutta la sala un tocco di retrò che in quel periodo andava tanto di moda. Foto di gruppi musicali e citazioni di grandi attori e musicisti, tappezzavano la piccola saletta adibita a ristorante, sotto il caldo rosso delle pareti in contrasto perfetto con i piccoli tavoli di legno nero.
Amava quel locale Ace, per questo ogni giorno, pur trovando un guasto da riparare o un fornitore da accontentare, continuava a sorridere; perché per lui quel luogo, come del resto per i suoi amici, era la realizzazione di un sogno, nato per caso, ma realizzato con la sola forza di volontà.
Una luce improvvisa lo illuminò di colpo facendogli strizzare gli occhi per l’accecante luce mattutina.
-Ehi Ace, che fai, poltrisci?- disse Marco, il suo migliore amico, accedendo dal portone d’entrata: un’enorme porta, scelta proprio da Marco, di un massiccio legno riverniciato di rosso con sopra disegnata un’enorme fenice dorata. Appena aveva visto quella porta, in un negozio di antiquariato, Marco se ne era innamorato, accennando un breve sorriso, cosa rarissima per lui, quasi sempre sulle sue.
-Non sto dormendo, idiota- rispose Ace alzandosi dallo sgabello, osservando l’amico avanzare verso di lui. Marco portava, sotto il braccio, un lungo cartellone arrotolato, mentre a passo lento si avvicinava al bancone del bar oscillando i lembi della sua camicia azzurra aperta sul petto.
-Ecco la locandina di stasera- disse il biondo srotolando, davanti al moro, il cartellone rappresentante a grandezza uomo, una ragazza dai lunghi capelli rosa, racchiusi in due codini. La ragazza, in posa con un microfono ad asta in mano, guardava seducente davanti a sé, mentre a caratteri cubitali accanto a lei si ergeva la scritta : Non perdere gente stasera il concerto di Perona. Una voce graffiante che ti scalda il cuore. Stasera al Nube di fumo.
Ace sbuffò leggendo il manifesto, era più forte di lui, quella Perona lui proprio non la sopportava. Era un'antipatia a pelle la sua. Appena quella frivola ragazza era entrata nel pub, il secondo giorno di apertura, aveva subito capito che non sarebbero mai potuti diventare amici.
Lei con quel leccalecca sempre in bocca.
Lei con quei vestiti a corpetto e gonne gotiche.
Lei e il suo odioso ombrellino che portava anche di notte.
Lei con i suoi codini, gli occhi pieni di mascara e quell'aria altezzosa che tanto lo irritava.
Lei, Perona, il suo peggior incubo.
Lui era sempre stato un tipo amichevole, allegro nonostante l'infanzia piena di perdite e dolori. Era rimasto orfano all'età di sette anni per poi essere adottato da colui che gli insegnò tutto, suo padre, il capitano di un potente transatlantico, conosciuto da tutti come Barbabianca. Suo padre, gli aveva rammentato il significato della vita, ripetendogli sempre che " la vita va vissuta fino in fondo, buttandosi a capofitto in essa per raggiungere i propri sogni. Perché la vita è una sola e se non la vivi al meglio, che vita è?"
Quella frase aveva accompagnato Ace per tutta la sua vita aiutandolo, anche in quella non molto lontana sera d'inverno, a buttarsi a capofitto in quel sogno folle di aprire un pub; sogno che dopo mille difficoltà si era realizzato.
-Dobbiamo proprio inserire lei nella scaletta di stasera?- chiese a Marco, girando dietro il bancone del bar per servire, a lui ed al suo socio, un drink.
Il biondo di tutta risposta si sedette al bancone, poggiando un gomito sul ripiano lucido, ed appoggiando il mento sul palmo aperto. Marco guardò Ace con quella sua aria perennemente assonnata, e poi mostrò il suo tipico ghigno che non prometteva nulla di buono –Come mai Perona ti sta così antipatica? Devo forse essere informato di qualche particolare?- chiese circondando il bicchiere di vetro chiaro con le sue lunghe dita.
Ace confuso aggrottò la fronte cercando di studiare gli occhi scuri dell’amico per capire cosa stesse insinuando di preciso; poi d’un tratto ci arrivò e, sbattendo il bicchiere sul bancone, urlò –Ma che diavolo vai a pensare? A me non piace quella, capito!?- sbuffò per poi scoppiare a ridere insieme all’amico.
-Se lo dici tu…- rise Marco, mentre nel locale entravano Sanji e Zoro, come sempre intenti a bisticciare.
Marco ed Ace si voltarono verso i nuovi arrivati, ed Ace repentino recuperò altri due bicchieri in cui versò lo stesso liquido ambrato appena degustato con Marco.
Zoro si sedette al bancone sbuffando irritato, afferrando al volo il bicchiere che scivolava velocemente verso di lui, mentre Sanji continuava ad elogiare una misteriosa ragazza.
-La smetti cuoco da strapazzo! Mi hai fatto venire il mal di testa con tutte queste moine inutili. Lei non ti a nemmeno considerato!- ringhiò il verde
-Zitto stupido marimo, tu non capisci niente di donne. La stupenda Nami aveva occhi solo per me. E poi, povera, stava cercando un lavoro, come potevo rifiutarmi e non assumerla?- chiese plateale, Sanji, piroettando nel centro della sala.
-Ti ha solo infinocchiato, ecco cos’ha fatto quella strega. Due occhioni dolci ed ecco, assunta! Che idiota ci sei cascato subito, lei sapeva già chi eravamo- disse Zoro, realistico. Lui, a differenza del biondo, aveva subito capito le intenzioni di quella ragazza dagli occhi caramello. Lei, furba era andata a sbattere contro Sanji, scusandosi per la sua distrazione momentanea, mentre il cuoco era già salito sul pianeta moine, volteggiandole intorno. Lei, furba, aveva subito iniziato la sua recita da povera disoccupata, e Sanji, idiota, ci era cascato.
-Hai assunto una ragazza che nemmeno conosci?- chiese Marco al cuoco.
-Ma io la conosco! Si chiama Nami e sarà una perfetta cameriera!-
-Veramente le hai promesso che avrebbe gestito le finanze del locale- grugnì Zoro.
-Fa lo stesso. È così bella!- volteggiò Sanji
-E bravo il nostro Sanji- disse Ace dandogli una pacca sulla spalla, sorridendo mettendo così in mostra le lentiggini che gli puntellavano gli zigomi.
Mentre i quattro amici chiacchieravano e si azzuffavano come bambini di quattro anni, il portone d’entrata si spalancò ed una figura snella fece la sua comparsa nel locale.
-Di cosa state chiacchierando, soci?- disse la nuova arrivata, camminando sui suoi vertiginosi stivali con in mano il suo fedele ombrellino.
Il sorriso allegro dal viso di Ace scomparve subito, quando riconobbe Perona.
-Non siamo soci, Perona. Non con te- sentenziò Zoro.
-Suvvia senza la mia stupenda voce non riempireste mai questo locale tutte le sere. Merito il titolo di socia!- protestò la ragazza sbattendo i piedi come una bambina capricciosa, per poi portarsi, con la mano libera, un leccalecca alla bocca.
Ace osservò la ragazza con le mani fasciate con delicati guanti neri di pizzo, giocherellare con la caramella, passandosela sulla lingua in modo seducente. Come se lei si fosse accorta che la stava osservando, Perona puntò il suo sguardo su Ace.
La notte scura, nera, che cosparge il mare, anch’esso nero. Ecco cosa rappresentava quel breve scambio di sguardi. Colori così simili per personalità apparentemente così diverse.
Perona, con un gesto lento si tolse il bastoncino dalla bocca, leccandosi le labbra maliziosamente, senza mai staccare gli occhi da Ace. Il moro si sentì improvvisamente strano, quegli occhi, quello sguardo così profondo in quel momento, lo stavano confondendo. Non gli era mai successo di sentirsi in quel modo…confuso, quasi spaesato, specialmente di fronte ad una ragazza.
Ma che stava combinando? Perché continuava a fissare Perona? Scosse la testa come per svegliarsi da un momentaneo stato di trance e si ritrovò il sorrisino ghignante di Marco ad irritarlo ancor di più.
Improvvisamente stizzito, Ace girò via dal bancone –Vado a sistemare il palco per stasera- disse quasi in un sussurro, lasciando i tre amici, e la rosa, al bar.
Uno dopo l’altro i ragazzi si dileguarono, Sanji in cucina, Marco e Zoro a sistemare le luci, lasciando Perona sola nel centro del locale.
La ragazza smorzò immediatamente il suo flebile sorriso. Ormai lo aveva capito bene, nessuno in quel locale la sopportava, soprattutto Ace, e dire che lei invece lo trovava simpatico e soprattutto molto bello. Quando era entrata in quel locale per la prima volta, aveva subito incontrato lo sguardo di Ace e, per un breve istante, si era sentita…felice, così senza una ragione specifica.
Le capitava spesso di passare da uno stato di pura felicità per poi cadere nella disperazione più profonda, era la sua piccola pecca, il suo difetto o meglio il suo disturbo. Lo psicanalista le aveva diagnosticato una depressione bipolare, una cosa da niente per chi non ne conosce il significato, per lei era una vera tortura, un baratro senza luce, dove lei era caduta dopo la morte dei suoi genitori, e da allora non ne era più uscita.
Era scappata dall’istituto dove veniva curata, sapeva non essere la soluzione al suo problema, anzi la fuga lo avrebbe solo aggravato; ma lei non resisteva più. Non riusciva più a sopportare gli sguardi degli infermieri, i pettegolezzi sussurrati al suo passaggio, le mura così bianche in quel luogo pieno di luce, troppa luce per i suoi gusti.
Era arrivata a Raftel così, per caso, finendo davanti al Nube di fumo per altrettanto caso. Era entrata nel locale per mangiare qualcosa, visto che non toccava cibo da tre giorni. Era stanca e depressa. Nella sua mente vorticavano pensieri sempre più bui: non ce la farò mai, devo tornare all’istituto, morirò… finché una voce profonda ed allegra, quella di Ace, annunciò la serata karaoke. Il suo umore si era subito risollevato, forse per la sua patologia, si disse, ma sapeva esserci altro. La voce di Ace era come un faro nella notte, che la guidava verso la retta via. Non era più alla deriva, sentiva che lì, avrebbe trovato la sua ragione di vita, l’ancora a cui aggrapparsi con tutta la forza che le era rimasta per riemergere dalle onde scure che la trascinavano ogni giorno più a fondo.
Aveva sentito qualcosa scattare dentro di sé. Aveva sempre amato la musica, cantare sotto la doccia come faceva sua madre; la musica era il suo unico legame con lei, l’unico che le era rimasto. Così senza pensarci su più di tanto, si era diretta con aria spavalda verso il palco ed aveva afferrato il microfono.
Salire sul palco, trovarsi tutta quella gente davanti che la fissava, avrebbe dovuto farla sentire piccola come una formica, insignificante e soprattutto spaventata; ma non fu così. Per la prima volta dopo tanto tempo aveva riacquistato la forza che l’aveva sempre caratterizzata prima della malattia. La spavalderia e perché no, anche quel pizzico di arroganza che le consentiva di non temere niente e nessuno, di non preoccuparsi più degli sguardi e dei pettegolezzi.
Così era iniziato tutto, con una canzone, una dopo l’altra, bis su bis, applausi su applausi. Tutto ciò l’aveva fatta sentire come se fosse rinata sotto altre spoglie, come una fenice rinata dalle sue stesse ceneri; in quel momento la sua patologia era un ricordo lontano come la nebbia delle prime luci dell’alba, dileguatasi durante la mattina come se in realtà non ci fosse mai stata.
Ricordava di aver cercato quel sorriso, quegli occhi scuri che l’avevano risvegliata dalle tenebre, ma quando aveva incontrato il suo sguardo, quello di Ace, lui si era voltato.
Non le aveva mai rivolto un sorriso, gesto che però regalava a chiunque, tranne a lei.
Le sere successive la folla la reclamava, così sera dopo sera si era avventurata su quel palco ed aveva cantato per la gente, ma soprattutto per se stessa. Man mano aveva ripreso a vestirsi come più le piaceva. Stivali alti con tacchi a zeppa, gonnelline a ruota dai colori gotici e corpetti con mille laccetti. Un look trasgressivo, che incuriosiva alcuni, ed inorridiva altri come Ace. Ma a lei ormai non importava più, o almeno così pensava. Doveva andare avanti senza farsi abbattere da niente e da nessuno, anche da colui che, senza saperlo l’aveva riportata in vita.

Con passo deciso si diresse verso il retro del salone dove vi erano i bagni e il suo camerino. Sulla porta bianca troneggiava fiera la stella dorata con scritto a caratteri cubitali: Perona.
Ai quattro soci quella del camerino e della targhetta sulla porta era considerata un capriccio. Tutto ciò che la riguardava per loro era un capriccio, ed in parte avevano ragione. Si nascondeva sotto quella maschera da ragazzina viziata, nascondendo così a tutti la verità. Per lei però quel camerino e quella stella significavano tanto, tutto. Ogni volta che li osservava si ricordava di non essere una persona insignificante, una pazza, come l’avevano sempre definita all’istituto; lei era di più, lei poteva avere di più.
Aprì la porta richiudendo l’ombrellino di cui non si separava mai. Quell’oggetto considerato da tutti inutile, per lei era come uno scudo, una protezione da quelli sguardi che l’avevano sempre disprezzata, criticata.
Entrata nel piccolo camerino si avviò verso il bagno per rinfrescarsi. Aveva notato lo sguardo di Ace quando i suoi occhi avevano incrociato quelli di lui. L’aveva evitata, ancora una volta come se fosse portatrice di una malattia contagiosa, e forse era così.
Chiuse la piccola porta del bagno alle sue spalle e subito, appena la porta si era chiusa, la maniglia cadde rovinosamente a terra.
Perona guardò la maniglia a terra fissandola, prima come se niente fosse e poi man mano realizzando, con paura, cosa significava quell’oggetto a terra.
Prigione.
Quella fu la prima parola che le passò per la mente. Le gambe ricoperte dalle lunghe calze a strisce nere e rosa, iniziarono a tremare, così come le mani guantate di pizzo.
La paura si impossessò di lei, immergendola nel panico più nero.
Si guardò attorno con occhi serrati dalla paura, non c’era via di fuga da quel buco di due metri per due. Nervosa scagliò un calcio contro il water, mancando però l’obbiettivo e calciando quindi il tubo dello scarico che si ruppe facendo fuoriuscire acqua a non finire.
Gli stivali di pelle nera vennero subito inzuppati dal getto d’acqua, che pian piano iniziò a ricoprire le mattonelle bianche.
Perona era rimasta immobile dopo il calcio. Ferma con gli occhi puntati su quell’acqua che la stava pian piano avvolgendo. Pian piano anche la tristezza tornò, sommergendola dal petto fino alla gola in una morsa che le impediva anche di respirare.
Lacrime amare iniziarono ha scenderle dagli occhi, mischiandosi con il mascara rigandole così il viso con due parallele strisce nere.
Cadde in ginocchio senza nemmeno accorgersene, continuando a piangere ed a fissare il tubo dello scarico. Era strano sentirsi avvolta di nuovo da quella profonda tristezza, iniziando a pensare che da lì non sarebbe mai uscita. Nessuno l’avrebbe mai cercata, perché nessuno si preoccupava di lei. A nessuno importava di lei.
Lei era come quello scarico rotto con la differenza che lo scarico, un giorno, sarebbe stato riparato, mentre per lei non c’erano speranze. Lei non sarebbe mai stata curata da nessuno. Non c’era un idraulico che si sarebbe preso cura di lei, rassettandola.
Senza smettere di piangere si portò le ginocchia al petto aspettando la fine.


Era sera e il locale stava iniziando a riempirsi man mano.
Zoro era intento a preparare vari cocktail mentre Marco sistemava gli strumenti per la performance di Perona.
Ace si guardò attorno, non sapeva cosa o chi stesse cercando, sapeva solo di sentirsi stranamente agitato. Sentiva la maglietta nera sempre più aderente al suo corpo come se si restringesse man mano che passasse il tempo, o forse era solo una sua fissazione. Aveva bisogno di respirare un po’ di aria fresca quindi, fece un cenno a Zoro e camminò verso il retro del locale, verso i bagni.
Passò davanti al camerino di Perona per poi fermarsi di colpo.
Perona. Non l’aveva più vista dal quel pomeriggio. Dov’era finita quella smorfiosa? Si voltò deciso a richiamarla quando si accorse dell’acqua che fuoriusciva lenta dal camerino della ragazza.
Una parte di lui fu invasa da uno strano panico, mentre l’altra parte apriva senza bussare la porta del camerino.
La stanza era invasa dall’acqua, ma di Perona non c’era traccia.
-Dannazione che altro si è rotto?- disse imprecando. Si guardò intorno per poi fissare la porta del piccolo bagno, chiusa.
Avanzò verso il bagno mettendo una mano sulla maniglia, che cadde a terra.
-Perché deve sempre rompersi qualcosa in questo cavolo di locale?- si chiese sbuffando, poi qualcosa, un sospiro, seguito da flebili singhiozzi, lo fece tacere. Accostò l’orecchio alla porta e udì quello che era il respiro affannoso di una persona.
-Perona! Perona sei qui dentro?- urlò bussando violentemente alla porta, avvolto da una forte morsa di panico.
-Ace…- un sussurro il suo, ma bastò ad Ace per prendere in mano la situazione.
Perona era chiusa in quel bagno, probabilmente allagato, doveva salvarla o lui…
Con una spallata, seguita da un’altra e un'altra ancora, sfondò la porta entrando finalmente nel bagno.
I suoi occhi neri guizzarono velocemente per tutta la piccola stanza, allagata a causa dello scarico del bagno rotto. Poi lì, in mezzo al bagno, vide lei, Perona.
-Perona- la chiamò, ma lei non si muoveva. Ace vedeva gli occhi della ragazza aperti, il respiro affannoso, ma lei non gli rispondeva; la solita altezzosa, pensò.
-Ace…- disse la rosa con un sospiro –mi dispiace, non volevo rompere lo scarico. Non volevo…non volevo…- la ragazza iniziò a cullarsi sul pavimento con le ginocchia sempre schiacciate contro il petto –lasciami sola è questo che mi merito. Io sono sempre sola, e lo sarò per sempre…-
Ace non riusciva a capire, perché Perona si comportava in quel modo? Perché non si alzava e sbuffava irritata perché nel suo bagno si era rotto un tubo? Perché non c’era più traccia della bambinetta altezzosa che aveva sempre visto in quella lunga settimana? Ora Perona sembrava solo un piccolo cucciolo indifeso, un cucciolo il quale aveva perso ogni speranza di vivere.
Senza dire una parola si inginocchiò accanto alla ragazza, poggiandole una calda mano sulla schiena –Perona, guardami- le disse con voce calda e calma –guardami, io ci sono, non sei sola-
La ragazza si voltò lentamente verso il moro e lo guardò. I loro sguardi si incatenarono per la seconda volta quel giorno, ma questa volta era diverso, lui non le sfuggiva e lei non stava indossando la sua solita maschera, ma era se stessa; la fragile se stessa.
-Ace…- la ragazza si arrampicò verso il petto del moro che l’abbracciò.
-Va tutto bene. Sono qui, con te. Non ti lascio-.
La rosa alzò lo sguardo, ora era molto più vicina ad Ace, tanto da sentire il suo respiro caldo sfiorarle il viso –Sono malata, Ace. Soffro di depressione bipolare e sono scappata dall’istituto dove mi curavo- confessò.
Il ragazzo inizialmente scioccato da quell’improvvisa confessione, guardò Perona non altri occhi. Non era più la ragazzina altezzosa che ogni giorno richiedeva un privilegio diverso ricattandoli di andarsene. Non era più la bambinetta che giocherellava con il leccalecca. Ora era solo Perona, una ragazza fragile che si era aperta completamente a lui, non sapeva neanche il perché, ma la sentiva ora più vera, più vicina. Forse, si disse Ace, non era Perona in se a provocargli antipatia, ma la maschera che portava. Ora non provava più disprezzo per lei, ma comprensione.
L’abbracciò stringendola a sé, percependo il respiro, prima accelerato della ragazza, calmarsi man mano.
-Ace ho bisogno di cantare. Devo cantare o tornerò laggiù…- disse come una supplica. Voleva combattere, ancora.
Ace si alzò portandola con sé. Si guardarono ancora negli occhi e poi le sorrise. Un sorriso caloroso e sincero il suo –sembri un panda con questi occhi circondati di mascara- scherzò –su vatti a preparare che io sistemo questo maledetto scarico.
La ragazza si ricompose, regalandogli un sorriso così ampio che sorprese anche se stessa –Corro!- disse di nuovo felice, scomparendo dietro la porta.


Perona era salita sul palco con qualche minuto di ritardo, ma carica più che mai. Si era seduta sullo sgabello al centro del palco incrociando le lunghe gambe velate da calze nere di pizzo. Portava un vestitino nero di raso e pizzo formato da un corpetto pieno di laccetti ed una gonnellina che si allargava dalla vita fino a metà coscia. I capelli, legati nei consueti codini ricadevano ancora con le punte bagnate. Si schiarì la voce, mentre nella sala, con le luci soffuse, la gente aspettava solo lei, solo la sua voce.
-Ehi sei arrivato finalmente! Ma dov’eri finito?- chiese Marco ad Ace.
-Si è rotto lo scarico del bagno- sorrise Ace, volgendo lo sguardo verso Perona senza smettere di sorridere. Era la prima volta che la osservava davvero mentre cantava. Che l’ascoltava. Era tremendamente brava, ecco perché era così richiesta. La sua voce, di giorno sempre così stridula nelle sue mille richieste e capricci, la sera si trasformava. Diventava calda, graffiante, ed arrivava dritta al cuore.

La mia àncora dagli occhi di tenebra mi ha salvato.
Dalla nebbia mi ha sollevato.
Una maschera porto ogni giorno,
per paura del non ritorno.
Tu però mi hai aperto il cuore,
un cuore freddo senza più splendore…

Ace strabuzzò gli occhi. Perona gli stava dedicando una canzone? Il sorriso sul suo volto si allargò quando incrociò quegli occhi tanto simili ai suoi. Occhi che avevano conosciuto la sofferenza, e che la combattevano tutti i giorni, proprio come faceva lui. Forse, pensò, lui e Perona non erano poi così diversi. Forse da quella sera avrebbe guardato la ragazza sotto un’altra luce. Forse, i loro destini non erano poi così diversi.
Grazie al destino o allo scarico rotto di un bagno, Ace e Perona avevano aperto gli occhi, trovando nell’altro la persona con cui, pian piano, avrebbero capito di poter condividere non solo il lavoro, non solo un passato di dolore, ma anche un futuro.

   
 
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