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Autore: Oneipo_    11/12/2014    2 recensioni
L’alba l’avevano vista quando poi, stanchi e infreddoliti, si erano stretti nel letto piccolo di Louis e avevano guardato fuori dalla finestrella sopra alla scrivania, tirando leggermente le tende bianche e fumando una sigaretta, in un incastrarsi tra di loro quasi innaturale; Harry troppo grande per stare tutto tra le braccia di Louis, Louis troppo piccolo per circondare il corpo di Harry come avrebbe voluto.
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Harry Styles, Louis Tomlinson
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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E sorridevi, e sapevi sorridere coi tuoi vent’anni portati così,
come si porta un maglione sformato su un paio di jeans,
come si sente la voglia di vivere
che scoppia un giorno e non spieghi perché
un pensiero cullato o un amore che è nato e non sai che cos’è.

 

 

Lo aveva incontrato quasi per caso, sotto la pioggia che cadeva incessantemente e lui che senza ombrello e con i capelli troppo lunghi che gli ricadevano sul viso, camminava come se nulla fosse.
Un sorriso sulle labbra e i pochi anni sul suo volto, l’ingenuità nei grandi occhi verdi.
Lo aveva incontrato e osservato canticchiare una canzone, saltare una pozzanghera, stringersi nel maglione largo, ripararsi alla fermata dell’autobus e rivolgergli un saluto.
“Harry”, aveva detto semplicemente minuti dopo, allungando una mano.
“Louis”, aveva risposto lui senza stringerla, nascondendo il viso in una sciarpa pesante e scuotendo la testa leggermente.

 

Si erano innamorati nello stesso modo in cui si erano incontrati, per caso. Mentre Harry si comportava da bambino e Louis gli ricordava che aveva già vent’anni. Mentre Harry cambiava il canale della televisione per fargli un dispetto e Louis storceva il naso e sbuffava infastidito. Mentre Harry correva sotto la pioggia e Louis lo rimproverava che “ti prenderà un accidente!”. Era successo quando Louis lo aveva visto indossare i suoi stretti jeans e il suo maglione sformato, grande il doppio del suo corpo esile e pieno di tatuaggi, la notte in cui, ubriachi, avevano fatto l’amore – “è sesso, Harry, abbiamo fatto sesso.” “A me sembrava amore” – e lui poi, così piccolo tra le sue braccia, aveva sorriso. Louis aveva sentito la voglia di vivere nascergli da dentro il petto, così come nasce un sentimento che non si capisce bene cos’è.

 

 

Giorni lunghi tra ieri e domani, giorni strani.
Giorni a chiedersi tutto cos’era, vedersi ogni sera.
Ogni sera passare su a prenderti con quel mio buffo montone orientale,
ogni sera là, a passo di danza, salire le scale.
E sentire i tuoi passi che arrivano, il ticchettare del tuo buonumore,
quando aprivi la porta il sorriso ogni volta mi entrava nel cuore.

 

 

Aveva alzato le spalle incurante, quando Zayn gli aveva chiesto che cosa ci fosse di interessante in Harry Styles. C’era davvero bisogno di fare un elenco? Come una lista della spesa che non si poteva dimenticare.
E poi, Louis neanche lo sapeva il perché volesse passare il più tempo possibile con Harry. Succedeva e basta, e a lui andava bene così. Succedeva che si vedevano ogni sera e non necessariamente facevano l’amore. Si parlavano, si guardavano in silenzio, ridevano per un film e si accendevano uno spinello. Harry gli accarezzava i capelli gentilmente e lui gli stringeva una mano con naturalezza. Succedeva anche che si vedessero per urlarsi contro, che litigassero e “avevi detto che non l’avresti più visto!” “io dico tante cose, Harry”, magari si spintonavano, magari Harry piangeva un po’ e poi si chiedevano cos’erano e cosa sarebbero stati. Giorni strani.

 

Non era sicuro di come sarebbe andata ed era ciò che amava di loro. Harry così imprevedibile e ragazzino da farlo imbestialire e innamorare come non gli era mai successo. Eppure ogni sera lui era lì, di fronte al portone di casa del più piccolo, con il suo cappotto pesante e un po’ rovinato sotto i gomiti, un bottone saltato e il pelo sul colletto sporco, senza aspettare un secondo di più prima di vederlo. Saliva le scale e saltava qualche scalino, fischiettando, per poi fermarsi e darsi dello stupido perché Harry stava facendo tornare bambino anche lui. Bussava la porta e attendeva dondolandosi sulle punte dei piedi, impaziente, sfiorando i capelli sistemati in un alto ciuffo, gli azzurri occhi stanchi e spenti.
Poi quel suono gradevole che alle sue orecchie era più melodico di qualsiasi strumento, i passi di Harry sul parquet del suo appartamento ordinato, il ticchettare di quegli stivali logori – “quando ti deciderai a buttarli?” – il suo buonumore che già si diffondeva nell’aria. Harry che apriva la porta sorridendo e Louis che non sapeva resistere un attimo in più senza godere delle sue labbra calde, delle sue mani sul suo volto, del suo corpo a contatto con il suo.

 

 

Poi giù al bar dove ci si ritrova, nostra alcova.
Era tanto potere parlarci, giocare a guardarci
fra gli amici che ridono e suonano
attorno ai tavoli pieni di vino
religione del tirare tardi e aspettare mattino.
E una notte lasciasti portarti via,
solo la nebbia e noi due in sentinella,
la città addormentata non era mai stata così bella.

 

 

Il vecchio bar in centro aveva l’insegna rotta e una lettera penzolante, così che il The Queen’s Head era diventato il The Queen’s Ead e non è che avesse molto senso.
Era lì che Louis si vedeva con Liam e Zayn, era lì che beveva la sua birra chiara e lì che sorrideva alle ragazze neanche lontanamente interessato. Era sempre lì che Harry Styles, alle nove di ogni lunedì sera, si presentava con il suo amico irlandese, Niall – se Louis ricordava bene – e si sedeva a due tavoli lontano da loro, ordinando un caffè e ridendo su qualcosa che sicuramente non avrebbe fatto ridere anche Louis.
I loro sguardi si incontravano a intervalli, quando Louis si guardava intorno annoiato – alla ricerca dei suoi occhi – e Harry lo scrutava dietro la testa bionda del suo migliore amico. Una sfida di occhiate divertenti o maliziose, uno dei due che alza un sopracciglio, l’altro che assottiglia lo sguardo.
Non si rivolgevano parola, mai, neanche quando Liam si alzava dal loro tavolo e invitava i due amici a sedersi con loro, in un gesto educato che faceva solo per Louis, e che Louis apprezzava anche senza averglielo mai detto. Non si rivolgevano parola mentre si versavano il vino italiano che “scelgo io, l’unico che ci capisce qualcosa” borbottava Zayn quando sfogliava il menu imparato a memoria. Non si parlavano neanche quando ubriachi e alle tre di notte, sedevano sul muretto di fronte al bar chiuso da ore, finendo di bere l’ennesima bottiglia di vino e raccontandosi le loro disfatte come amici di vecchia data.
“Una volta Niall ha vomitato sulle scarpe di una ragazza.”
“Vi ricordate di quando Zayn ha rubato un pacchetto di gomme ed è stato fermato dalla polizia?”
“A volte Liam fa strani versi quando dorme.”
E ridevano. E intonavano una canzone senza sapere le parole. Poi si dicevano che avrebbero aspettato l’alba e si addormentavano su un prato con le mani sulla pancia e un sorriso sulla faccia.

 

Harry e Louis, una volta, l’alba l’avevano vista davvero. Un lunedì in cui Louis era troppo ubriaco per rendersene conto e allora lo aveva preso per un braccio e portato via correndo, senza dare spiegazioni. Il vento freddo sui volti, il naso di Harry che iniziava a diventare rosso, le mani che si tenevano forti. E allora “Louis! Dove stiamo andando?” gli aveva urlato con la sua voce roca e divertita, e Louis si era fermato e l’aveva baciato, tenendo una mano dietro la sua nuca e l’altra sul suo petto, spingendoselo contro con necessità, stringendolo a sé con la paura che se lo avesse lasciato andare lui sarebbe fuggito. Ma Harry non era capace di fuggire, per questo si era lasciato prendere sulle scale di quella vecchia scuola, e poi in un vicolo buio e silenzioso, e ancora nel parcheggio sotto casa di Louis. Senza pudore, o vergogna, o paura di essere visti. Loro padroni della notte. La nebbia complice nel renderli sentinelle nascoste.
L’alba l’avevano vista quando poi, stanchi e infreddoliti, si erano stretti nel letto piccolo di Louis e avevano guardato fuori dalla finestrella sopra alla scrivania, tirando leggermente le tende bianche e fumando una sigaretta, in un incastrarsi tra di loro quasi innaturale; Harry troppo grande per stare tutto tra le braccia di Louis, Louis troppo piccolo per circondare il corpo di Harry come avrebbe voluto.

 

 

Era facile vivere allora, ogni ora
chitarre e lampi di storie fugaci, di amori rapaci.
E ogni notte inventarsi una fantasia,
da bravi figli dell’epoca nuova,
ogni notte sembravi chiamare la vita a una prova.
Ma stupiti e felici scoprimmo che era nato qualcosa più in fondo,
ci sembrava di avere trovato la chiave segreta del mondo.

 

 

“In un’altra vita, chi saresti stato?”
“Non so. Un hippie, con i capelli lunghi e i vestiti larghi. Mi ci vedi?”
“Saresti stato perfetto, Harry Styles.”

 

“Magari potremmo uscire.”
“O magari no.”
“Sono stanco di passare tutte le sere a guardare la tv, Louis.”
“Chi ha parlato di guardare la tv?”

 

“Quando hai imparato a suonare la chitarra?”
“A dieci anni. Mia sorella Gemma mi ha trasmesso la sua passione per la musica.”
“Sai cantare?”
“Ci provo.”
“Cantami una canzone.”

 

“Smettila di sputare su quello che abbiamo, Louis!”
“Non sto – andiamo! È stata solo una birra con un vecchio amico.”
“Ex ragazzo.”
“Amico.”
“Non prendermi in giro.”
“Non mettere alla prova la nostra relazione.”

 

“Lyla avrebbe i tuoi stessi occhi azzurri, e i capelli ricci come i miei.”
“E Evan?”
“Evan sarebbe un bambino dispettoso.”
“Come te.”
“Non sono dispettoso!”
“No, sei un bambino. Il mio bambino.”

 

“Harry?”
“Mh?”
“Le hai mai dette, quelle tre parole sempre troppo difficili da pronunciare?”
“Una volta. E tu?”
“No. Mai.”
“Ok.”

 

“Harry?”
“Louis.”
“Io ti amo.”

 

“Louis?
Ti amo anche io.”

 

 

Non fu facile volersi bene, restare assieme,
o pensare d’avere un domani, restare lontani
tutti e due a immaginarsi “con chi sarà?”,
in ogni cosa un pensiero costante,
un ricordo lucente e durissimo come il diamante.
E a ogni passo lasciare portarci via
da un’emozione non piena, non colta,
rivedersi era come rinascere ancora una volta.

 

 

Avevano litigato. Lo avevano fatto perché Harry era troppo insicuro e Louis troppo poco paziente. Si erano urlati contro insulti, odio e dolore e l’avevano fatto senza rendersi conto di quanto avrebbe fatto male poi. Harry aveva rotto un piatto e si era tagliato un dito, si era rifiutato di ricevere le cure di Louis, quando il più grande, già pentito per la discussione avvenuta, aveva cercato di farsi perdonare.
Louis aveva sobbalzato quando Harry aveva rotto il piatto, perché lo aveva fatto con una rabbia e una violenza che non conosceva e che lo spaventava, poi aveva capito che il loro litigio stava degenerando e aveva fatto un respiro, passandosi una mano tra i capelli disordinati e “non ti ho tradito, Harry.”
Il più piccolo aveva urlato di nuovo, si era inginocchiato sul pavimento della cucina e stringeva il proprio petto con forza, per tenersi stretto il male che stava provando. Scoppiò a piangere e Louis si sentì inerme, perché una bugia nelle sue parole c’era e Harry lo sapeva.
“Per tutti questi giorni, in cui sei stato lontano, ho continuato a chiedermi con chi eri” ammise il riccio, appoggiando la schiena al mobile del lavandino e asciugandosi gli occhi.
Louis si morse un labbro, “non ti ho tradito, Harry” mentì ancora e poi si sentì uno schifo. Perché l’aveva fatto, l’aveva tradito, ma non era stato come aveva immaginato. Perché mentre si lasciava prendere da delle mani che non erano quelle grosse e piene di anelli di Harry, lui avrebbe voluto scappare, non essere lì, non aver scelto di essere lì. Buffo, come ci si rende conto di stare sbagliando solo nel momento in cui l’errore, ormai, è stato compiuto. Buffo, come ci si accorge di amare qualcuno, solo quando sai che lo perderai. Louis l’aveva tradito, è vero, l’aveva fatto e se n’era pentito. L’aveva tradito con il corpo e non con il cuore, e questo, in qualche modo, lo rendeva perdonabile.

 

Due settimane, tre giorni, e cinque ore.
Due settimane, tre giorni, e cinque ore da quando se n’era andato da casa di Harry.
Due settimane, tre giorni, e cinque ore da quando Harry gli aveva gridato di non farsi più vedere.
Due settimane, tre giorni, e cinque ore dall’ultimo sms ricevuto.
Due settimane, tre giorni, e cinque ore da quando Louis aveva smesso di respirare.

 

“Che ci fai qui? Non sono stato abbastanza chiaro, Louis?”
“Mi manchi.”
Il più piccolo aveva incrociato le braccia, il maglione largo a coprirgli il petto, il tatuaggio delle due rondini che si intravedeva vicino al collo.
“Potevi pensarci prima di –“
“Non ti ho tradito, Harry – Louis aveva ripetuto come una cantilena, come se non fossero passati tutti quei giorni dall’ultima volta che glielo aveva detto – non l’ho fatto perché mentre ero lì, mentre l’alcool e il fumo e quella robaccia che ho ingerito facevano il loro effetto, io avevo solo il tuo volto in testa. E ho pensato a te per tutto il tempo. E non riuscivo a respirare per quanto volevo averti lì, per quanto mi sono sentito sbagliato e…stronzo e, non lo so.”
Harry aveva abbassato lo sguardo, una lacrima calda sul suo volto da bambino.
“Non ti ho tradito, Harry, perché mentre il mio corpo si concedeva a quello sconosciuto, nella mia testa e nel mio cuore c’eri tu e solo tu e irrimediabilmente tu. Così fastidioso come sei sempre, con il tuo sguardo accusatore e le tue labbra piene e i tuoi capelli che odio, dio se li odio.
Io non so amare, Harry. Non l’ho mai fatto. Non sono come te. E non so vivere senza di te. Non chiedermi di farlo.”
E quando la bocca calda di Harry si era posata sulla sua, Louis seppe che in fondo si sarebbero sempre trovati, perdonati e amati. E provò la stessa sensazione della prima volta, quella dell’amore che nasce e non si sa cos’è, quando Harry lo fece sdraiare sul suo letto e “scommetto che lui non sa farti godere come faccio io”, sussurrò.

 

 

Ma ogni storia ha la stessa illusione, sua conclusione, 
e il peccato fu creder speciale una storia normale. 
Ora il tempo ci usura e ci stritola in ogni giorno che passa correndo, 
sembra quasi che ironico scruti e ci guardi irridendo.
E davvero non siamo più quegli eroi pronti assieme a affrontare ogni impresa; 
siamo come due foglie aggrappate su un ramo in attesa.

 

 

Harry aveva gli occhi spenti, occhiaie evidenti e le labbra screpolate. Aveva tagliato un po’ i capelli, ma cadevano lo stesso ricci e scomposti sulle sue spalle. Li legava spesso e lasciava scoperto il viso sciupato e magro. Aveva buttato tutti i maglioni sformati, sostituiti da camicie eccentriche e colorate, e non aveva più vent’anni.
Louis, invece, sistemava sempre i capelli castani in un ciuffo perfetto, e indossava completi di marca e un trench beige che aveva pagato un patrimonio e di cui non si separava – quasi – mai.
L’azzurro dei suoi occhi era diventato un po’ grigio e le dita affusolate delle mani erano sempre rovinate per le pellicine strappate con i denti quando era nervoso.
Condividevano un appartamento in centro, e non si parlavano davvero da due mesi.
Louis, di tanto in tanto, quando gli capitava di sedersi insieme allo stesso tavolo o quando condividevano il divano della sala per guardare il loro programma preferito, sorrideva ad Harry e “a lavoro mi hanno chiesto di scrivere un articolo sull’inquinamento del Thames. Ci credi, che debba ancora scrivere stronzate del genere?” o anche “in panetteria c’era Jenny, quella che si vedeva con Daniel, ti saluta.”
Harry annuiva in silenzio, si mordeva un labbro e si accendeva una sigaretta, senza dare una vera risposta perché era stanco dei discorsi superficiali di Louis.
Lui avrebbe voluto parlare del fatto che si vedevano solo per un’ora al giorno, che non avevano più fatto l’amore, che fosse geloso di Simon, e William, e anche Noel, che viveva con il terrore di essere tradito ogni volta che lui partiva per lavoro e si scordava di chiamarlo, che piangeva e lui non si accorgeva neanche di quanto tremasse la notte, che non lo sapeva più se lo amava, che voleva abbracciarlo e poi urlare e dirgli quanto facesse male. Ma Louis non parlava, Louis continuava a dire che la nuova canzone di Rihanna gli piaceva parecchio e che sua madre aveva imparato a preparare le lasagne italiane, che fosse bello il blu sui completi Dolce&Gabbana, che non era stato il padre ad assassinare la figlia a Brooklyn.
E Harry si chiudeva in se stesso come era solito fare, lasciando che il loro silenzio li logorasse dentro e fuori, incapaci di lottare davvero per far sopravvivere ciò che avevano.

 

 

“Mi stai lasciando?”
Aveva sussurrato Louis trattenendo un singhiozzo, seduto sul tavolo della cucina, la testa tra le mani e l’aria stanca sul volto. Harry non aveva risposto, ma aveva appoggiato una mano sulla sua valigia pronta e abbassato lo sguardo.
“Dove – aveva iniziato Louis con gli occhi lucidi – Dove andrai a stare?”
“Da mia madre. Poi cercherò un altro appartamento.”
Louis aveva annuito e si era asciugato gli occhi con la felpa tirata dalle maniche, poi si era ricordato che quella era la felpa preferita di Harry ed era scoppiato a piangere come un ragazzino.
“Mi dispiace”, chiedeva scusa il più piccolo senza muoversi.
“Pensavo che noi fossimo – perché lo stai facendo?”
“Perché restare farebbe più male che lasciarti.”
“E tutte le promesse? E tutte le volte che ci siamo detti di lottare, perché ne valeva la pena?”
Harry gli diede le spalle e si trascinò fino alla porta principale respirando con fatica. Un peso sullo stomaco e la sensazione che nulla sarebbe stato come prima, che Louis gli sarebbe mancato fino a torturarsi.
“Mi dispiace”, aveva ripetuto solo, aprendo la porta d’ingresso e uscendo sulle scale. Quando fu fuori dal loro appartamento, Louis capì che lo era anche dalla sua vita.
Stavolta per sempre.

 

 

Farewell, non pensarci e perdonami se ti ho portato via un poco d' estate
con qualcosa di fragile come le storie passate: 
forse un tempo poteva commuoverti, ma ora è inutile credo, 
perché ogni volta che piangi e che ridi non piangi e non ridi con me.

 

 

Passeggiava per Londra, quella mattina, senza una meta precisa. Era passato a prendere il pane, a salutare Liam, a portare la spesa a sua madre. Passeggiava con la testa da un’altra parte e i piedi che prendevano le vie conosciute a memoria automaticamente.
Era fermo di fronte al The Queen’s Head, che aveva riappeso la H dopo aver cambiato gestione, quando aveva sentito quella risata e si era voltato verso l’entrata del bar. E per un attimo aveva pensato che Harry Styles, stretto in un cappotto nero, con i capelli legati e i soliti jeans, stesse ridendo per lui, con lui.
Ma Harry era seduto con le gambe incrociate, sorseggiava un caffè al solito tavolo, arricciava il naso e strizzava gli occhi come faceva sempre quando qualcosa lo divertiva, e guardava un uomo che, di fronte a lui, raccontava una storia interessante.
E Louis avrebbe voluto che quella risata fosse dedicata a lui, avrebbe voluto essere seduto su quella sedia e parlargli, fare una battuta spiritosa che sapeva a Harry sarebbe piaciuta, godere del suono della sua voce, e delle sue labbra che si aprivano allegre e del suo picchiettare con il piede sotto il tavolino. Lo vide accarezzare la mano del suo nuovo compagno e Louis sentì una stretta al cuore. Si chiese se Harry fosse felice, ora. Se si faceva abbracciare a letto e chiedeva i pancakes caldi così come faceva con lui. Si chiese se il suo nuovo uomo sapesse in quali punti Harry soffrisse il solletico, e che si vergognava se gli toccavi le orecchie, che aveva una voglia dietro la schiena e beveva il cappuccino solo se c’era la giusta quantità di caffè. Si chiese anche se Harry fosse innamorato, se gli accarezzasse i capelli la notte, se gli rubasse la sigaretta dalle labbra per fare un tiro e dire “ora sa di me”, se gli lavasse i vestiti e lo sgridasse per il disordine, se ascoltasse ancora le canzoni di Natale in piena estate perché a lui piacevano, se piangesse, e urlasse, e gesticolasse in modo eccessivo se qualcosa non gli andava a genio.
Cercò lo sguardo di Harry, perché aveva bisogno di capire, di sapere, e gli occhi verdi dell’unico ragazzo che Louis avesse mai amato si scontrarono con gli azzurri dei suoi per un solo istante che bastò.
Perché Harry aveva sorriso, e le sue iridi brillavano alla luce del sole. Non aveva più le occhiaie e aveva riacquistato un po’ di peso, e Louis si era sentito morire, gli aveva dato le spalle e non aveva risposto al saluto educato che il più piccolo gli aveva rivolto.
Nella sua testa la consapevolezza che se fosse stato più coraggioso, se gli avesse detto davvero ciò che provava, se non avesse evitato di affrontare i loro problemi per la paura di una discussione, le cose sarebbero andate diversamente.

.

Ma Harry non era, e non sarebbe mai più, stato suo.

 

"The triangle tingles. And the trumpet play slow"

 

 



Un paio di note prima di fuggire via:

- La bellissima canzone che ho usato per questa Song-fic si chiama, appunto, Farewell ed è di Guccini. Consiglio l'ascolto, ovviamente.

- Non lo so dove quando come e perché mi è uscita fuori questa cosa, ma se leggendo le prime frasi del testo di Farewell non pensate ad Harry, allora non c'ho capito nulla.

- Se vi va, passate dalla mia long appena iniziata ( http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=2936095&i=1 ) e lasciatemi un parere, mi farebbe un piacere immenso.

- Grazie a chi è passato, a chi recensirà, a chi leggerà, davvero.

Vi abbraccio,
Oneipo.

  
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