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Autore: Midnight the mad    12/12/2014    1 recensioni
"Kurt scoprì di chiamarsi Kurt quando aveva quattordici anni, e decise di chiamarsi St. Jimmy più o meno nello stesso periodo. Tutta colpa di un diario.
E di una sigaretta."
"Alzò gli occhi al cielo, sibilando una bestemmia. Qualcuno dietro di lui rise. Si girò e vide una ragazza che lo osservava divertita. Lei sollevò un sopracciglio e canticchiò: - Look down, look down, Sweet Jesus doesn't care... -
Lui sbuffò. - E allora cosa dovrei fare? -
La ragazza alzò le spalle. - Beh, diventa tu Gesù, così almeno puoi risolverti tutti i problemi che vuoi. -"
"- Syd? -
- Già. Syd. Problemi? -
- No, è che tipo, sei... "incastrata" a fare Syd. Che lo sai già che alla fine morirai da drogata pazza e chissà cos'altro. Io fossi in te me lo darei un futuro, almeno con il nome. Concediti il beneficio del dubbio. -
- Tu sei la prima a non darti un futuro con il tuo nome. -
Lei scrollò le spalle. - Non ho mai avuto così tanta voglia di avere un futuro. Tu invece non vuoi altro. Quindi almeno datti una possibilità. -
- Sì, ma non voglio sperare troppo, capisci cosa intendo? Che poi se va male resto delusa. -
- E allora chiamati Whatsername. -"
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash | Personaggi: Jesus of Suburbia, St. Jimmy, Whatsername
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Allora, premetto che questo capitolo è un po' particolare, visto che è ambientato in un tempo diverso dagli altri e racconta anche un periodo più lungo del normale. Non sono sicura che vi piacerà, però meglio di così non riuscivo a fare... ditemi cosa ne pensate! 

 
ST. JIMMY
(Sei anni prima,
un’altra città, un’altra vita)
 
Kurt scoprì di chiamarsi Kurt quando aveva quattordici anni, e decise di chiamarsi St. Jimmy più o meno nello stesso periodo. Tutta colpa di un diario.
E di una sigaretta.
Il diario non era il suo diario, ovviamente. E lei ne venne a conoscenza quando un giorno le arrivò un messaggio. Un messaggio da lei.
Lei era la sua migliore amica da parecchio tempo, ormai, e aveva sempre sopportato tutte le sue osservazioni sul mondo e su tutto il resto. Già, perché Kurt aveva da ridire su un sacco di cose. Addirittura sulle parole: un giorno se n’era uscita dicendo che le parole erano solo un modo per limitare le cose che si sarebbero potute immaginare, perché il cervello aveva sempre un limite: “Se non sai descriverlo a parole non puoi pensarlo.” Questo era venuto fuori da un pomeriggio di intenso studio del latino, alla fine del quale lei aveva riflettuto che quello che stava facendo era assolutamente patetico: che senso aveva ricordare le parole di una lingua, se ormai quella lingua era morta? I concetti erano l’importante, ma le parole imparate in quel modo... Kurt pensava che fosse solo un modo per non far sparire davvero il latino dalla faccia della Terra. Ma, in realtà, che male ci sarebbe stato? Tutto sparisce dopo un po’. E i concetti sono sempre gli stessi che si ripetono, quindi l’”importante” era “salvo”.
Insomma, su quel messaggio c’era scritto: “Le parole fanno schifo. Voglio dire, tutto è già stato detto.”
Non vale rubarmi le battute. osservò lei, in risposta.
Non sono stata io. E’ stato Kurt Cobain. Sto leggendo il suo diario, e ti giuro, sembra di sentir parlare te.
Se lo dici tu.
La cosa era rimasta in sospeso per un po’, almeno fino a quando Kurt non si era fatta prestare il famoso diario. L’aveva letto, e l’aveva trovato geniale e quasi autobiografico. Cazzo, quella era lei. Quando dovette restituirlo quasi pensò di fingere di averlo perso e tenerselo, ma non avrebbe fatto una cosa del genere a lei, o magari di ricomprarlo, ma non aveva abbastanza soldi, così decise di lasciar perdere. Però, intanto, lei  aveva iniziato a chiamarla Kurt e lei a pensare troppo. Più rifletteva sul diario più le venivano in mente cose, idee, stranezze. Passò un inverno, l’inverno della prima superiore, e ci fu la prima vodka buttata giù a un ballo della scuola, le prime scappate di nascosto, il primo bacio – non era mai stata una persona particolarmente desiderata – e un sacco di libri – aveva finalmente comprato il diario di Kurt Cobain –, e poi all’inizio della seconda liceo ci furono... le sigarette.
Successe perché un’altra ragazza, Anna, le aveva fatto venire l’idea. Anna voleva fumare da un sacco e Kurt decise di provare. Trovava le sigarette assolutamente inutili, ma comunque per una volta voleva vedere com’era. Così decisero di prendere un pacchetto in due. Kurt ne voleva fumare una sola, Anna ancora non aveva deciso, comunque andava bene a entrambe.
Solo che poi la madre di Anna prese il telefono alla figlia, lesse i messaggi e fece una scenata incredibile a Kurt gridandole che doveva stare lontana da sua figlia perché l’avrebbe rovinata.
E Kurt le rise in faccia.
Sì, ok, non fu la cosa più brillante da fare, ma lei lo fece. E non se ne pentì mai. Insomma, che cosa voleva da lei quella donna? Davvero era convinta che se non ci fosse stata Kurt Anna non avrebbe mai provato a fumare una cazzo di sigaretta? Insomma, un po’ le dispiaceva per Anna che aveva una madre che evidentemente la riteneva incapace di decidere per se stessa – e Kurt, a quel tempo, era già convinta che tutti potessero decidere per sé, qualsiasi fossero le loro scelte – e un po’ la cosa le sembrava divertente. Temete, madri di tutto il mondo, St. Jimmy is coming down across the Halleyway!
Quando si ritrovò a paragonare quello che era successo a quella frase si bloccò per un secondo. Aveva già pensato di farsi un tatuaggio con la scritta: The needle in the vein of the establishment, ma non aveva mai ancora davvero pensato a se stessa come a St. Jimmy. Non portava sulla cattiva strada nessuno, lei.
O almeno fino ad ora.
E così prese quel nome. Un po’ era una presa in giro, un po’ la realtà. Già, perché lei era davvero l’ago nella vena dello spacciatore. Lo era con i suoi voti da brava ragazza e i suoi comportamenti da matta, lo era in tutto e per tutto e non voleva essere altro.
Il mondo è paralizzato. Tutto il mondo. La scuola è una macchina per la selezione della popolazione umana. Nessuno si salva. E’ tutto schematico, e a un certo punto vieni eliminato, ed è tutto sempre più superficiale. L’umanità mi fa ridere: dove sarebbe questa differenza tra persone e animali se la metti in questi termini? Se invece che valutare il pensiero si valuta solo il risultato? Che senso può avere tutto questo? scriveva sul suo diario, mentre se ne stava seduta in corridoio dopo che l’avevano buttata fuori dall’aula. Non pretendo che sia tutto giusto, ma pretendo che non si raccontino bugie. Possono anche bruciare il pianeta purché lo ammettano. Qui invece si fanno a pezzi l’un l’altro e la chiamano “vita”.
Ma i suoi genitori non erano particolarmente d’accordo. In casa sua iniziò a regnare quello che sembrava un vero e proprio odio, pronto a esplodere in litigi al minimo pretesto. L’unica cosa che riuscì a fare St. Jimmy fu stare lontana dai suoi familiari il più possibile. Dopo un anno circa non avrebbe neanche più saputo dire di che colore si fosse tinta i capelli sua madre. Semplicemente non le importava. Invece ai suoi genitori importava di lei.
Sarebbe meglio se mi odiassero e basta. scrisse una volta St. Jimmy. E’ stupido lo stereotipo per cui i genitori devono amare i proprio figli. Ma il fatto che cerchino di cambiarmi fa schifo. Davvero, se mi lasciassero in pace sarebbe a posto, in un certo senso. Già, perché lei sapeva benissimo i suoi genitori le lanciavano quegli sguardi schifati e fingevano di ignorarla solo per convincerla a cambiare. Comunque, a lei non interessava migliorare le cose. Non avrebbe cambiato se stessa per piacere a qualcuno. Magari se avesse continuato a ignorarli loro avrebbero smesso, oppure lei si sarebbe dimenticata di loro e basta.
Però ogni tanto le capitava di trovarsi a piangere soffocando i singhiozzi nel cuscino e odiando tutto quello che stava succedendo e la stupidità del mondo e il resto. E a volte, visto che aveva sempre considerato la morte sopravvalutata, dopo quelli che sembravano scherzi infantili e crudeli (la sua maglietta preferita casualmente rimasta strappata nella lavatrice, da mangiare per cena solo cose che lei detestava, i libri spariti dalla sua libreria) ci pensò, ad uccidersi. Sapeva come fare, le bastava un pretesto abbastanza forte per andarsene.
Vorrei che non servisse una ragione per andare via e che bastasse la mancanza di ragioni di rimanere per decidersi a scappare. scriveva sul suo diario. Ma tanto sono troppo viva. Sai, l’istinto di sopravvivenza è la cosa più brutta di questo mondo, perché io posso anche fare tutti i piani che voglio e scrivere tutte le lettere di addio che mi pare, ma tanto so che non ho il coraggio di buttarmi. Ho bisogno che qualcuno mi spinga giù da quel tetto, perché da sola non sono capace di saltare. Ci sono quasi, ma ancora non sono capace.
Intanto la vita andava avanti. Il tempo passava, e lei se ne stava appollaiata su una panchina fino alle nove di sera prima di tornare a casa e mangiare da sola e andare in camera sua, pur di vedere il meno possibile i suoi genitori, e pranzava fuori con quello che trovava perché non aveva soldi e ascoltava troppa musica.
E’ semplicemente che non saremo mai capaci di piacerci, perché io non sono disposta ad accettare loro e loro ad accettare me. si ritrovò a scrivere una volta. Eppure le sue previsioni stranamente si avverarono. Iniziò a notarlo dalle piccole cose. Quando i suoi smisero di chiederle dove andava, e di urlarle di tornare a casa, e poi quando per la prima volta la mandarono in college in Inghilterra per un’estate intera senza che lei lo chiedesse dopo che per anni si erano rifiutati di mandarcela nonostante le sue insistenze. E capì che il limite era arrivato, e che l’avevano passato, e che adesso non ci sarebbe stata più nessuna possibilità di tornare indietro, perché i suoi genitori ora non volevano più avere a che fare con lei. E probabilmente era meglio così.
“E’ meglio così, è meglio così, è meglio così.” Già, doveva ripeterselo, doveva ripeterselo per convincersene, perché adesso capitava di stare sveglia a nottate intere a chiedersi cosa si provasse a voler bene a qualcuno e a capirlo solo quando pensava a lei.
Perché lei c’era stata, sempre, ad ascoltarla piangere, a farla ridere, a non lasciarla sola quando invece lo era, a sopportare le sue grida e i discorsi contro il mondo e a volte ad aiutarla a essere l’ago nella vena dello spacciatore quando lo spacciatore era l’umanità stessa. Lei continuava a essere così, a mandare i piani a puttane perché ne aveva voglia, a essere una specie di genio e poi a scoparsi un ragazzo sulla cattedra facendo in modo che qualcuno la trovasse. Era una guerra, una guerra che nessuno avrebbe vinto semplicemente perché non c’era niente da vincere.
Niente di tutto questo ha senso. scrisse una volta. Se visto abbastanza da lontano, non cambierà nulla. Ma visto che non posso morire e che non posso essere felice allora continuerò così. Dopotutto non ho motivo di smettere.
Già. Andava per inerzia, senza una meta, e sapeva benissimo cosa stava facendo e non le importava. Pensi troppo. le diceva spesso lei, e aveva ragione, ma a St. Jimmy piaceva pensare. Le piaceva pensare perché non facendolo si arrabbiava. E anche facendolo si arrabbiava, ma era una rabbia diversa, consapevole. Quando invece non pensava si arrabbiava perché si stava impedendo da sola di capire.
Anche se non c’era niente da capire. Il mondo era sempre lo stesso che si ripeteva e lei sarebbe dovuta essere morta. Ma non era morta. Mancava... la spinta che la tirasse giù dal tetto.
Ma, quando quella spinta arrivò, qualcosa non andò come sarebbe dovuto andare. Lei non seppe cogliere l’attimo, forse. Chissà.
Fu l’infrangersi di un sogno. Fu un bacio a mezzanotte su una scogliera, con lo stereo che cantava che lei era un cielo pieno di stelle. Fu che lei le diede fiducia.
E fu l’errore più grande che potesse fare.
Ti amo e non ti voglio perdere. le disse. Anche se so che odi questi discorsi e tu non vuoi essere di nessuno e non vuoi essere costretta a fare nulla, ma io vorrei che tu fossi felice. Ti prometto che ti renderò felice, ok, Kurt? Però tu... devi aiutarmi.
Ma St. Jimmy non sapeva aiutarsi ad essere felice. Non ci riusciva, semplicemente. Era sempre peggio, invece. Si sentiva sempre più apatica, vuota. Probabilmente c’era stato un tempo in cui era stata innamorata di lei, ma comunque era stato prima di quel bacio, prima che tutta quell’indifferenza le si scaricasse addosso, troppo tempo prima. Perché i limiti si passano e non si può tornare indietro.
Adesso lei era un’indifferente e basta, lo sapeva e lo sapeva anche lei, e St. Jimmy vedeva il suo sconforto sempre più grande, e capiva che se la stava trascinando dietro in quella spirale senza uscita, ma era troppo indifferente per fare qualcosa, o forse semplicemente non ne era capace. Ormai le era indifferente anche l’idea di morire. Non si sentiva più abbastanza viva da non buttarsi, ma era troppo indifferente per andare sul tetto e tirarsi di sotto. Era diventata quello che era diventata perché era tutto troppo orribile.
Questo è esattamente quello che per anni mi ero ripromessa di non essere. scrisse una volta. Ti ricordi? Anni fa avevo scritto: “St. Jimmy, promettimi che se proprio dovrai morire non lo farai sbiadendo ma con uno sparo.” Insomma, forse era un po’ troppo poetico, ma credo di essere stata molto più intelligente allora di adesso. Essere indifferenti è la cosa più normale che si possa essere, perché io vedo le cose così da lontano che non riescono a cambiare nulla nell’enormità generale. Insomma, che vuoi che importi per l’Universo se la Terra sparisce? Eppure fa tutto male. So che dovrei smettere di comportarmi così, riuscivo a vivere bene nonostante questa consapevolezza, prima, ma ora in questo posto c’è troppo odio, e quell’odio l’ho provocato io, ma non voglio fermarlo perché... non lo so perché. Ma non smetterò di essere quell’ago, non posso smettere, non ci riesco, non voglio. Forse sono solo pazza. Non sono più una persona, qualsiasi cosa si intenda per persona. Non sono nemmeno un’idea. Sono soltanto lo specchio rovesciato di questo mondo marcio.
Forse fu per questo che quel giorno si trovò in mano una siringa e le cuffie nelle orecchie. E si piantò la siringa nel braccio mentre nelle cuffie Axl Rose gridava:
 
Knock-knock-knockin’ on Heaven’s door...
 
e lei si sentiva davvero come se stesse bussando alle porte del Paradiso, perché quella siringa era un modo per chiudere gli occhi e lei non doveva prendere la decisione di uccidersi, solo di rilassarsi per qualche minuto, ma quella dose era troppo grossa e probabilmente sarebbe morta. Non doveva decidere di uccidersi, ma alla fin fine si sarebbe ammazzata. Non sembrava troppo male.
E così spinse lo stantuffo. E fece male. Oppure no. Non se lo ricordava.
Ma quando riaprì gli occhi in una stanza di ospedale le sembrava ancora di sentire Axl Rose che cantava.
 
Knock-knock-knockin’ on Heaven’s door...
 
“...ti sbattono la porta in faccia.”
-
Fu solo quando la dimisero che lo scoprì. Quando i genitori di lei vennero a urlarle contro.
- E’ morta per colpa tua. –
Sì, lei era morta per colpa sua. Era morta dopo averla vista in ospedale in quelle condizioni, perché aveva capito di non poter fare niente.
Oppure sì.
Perché ci fu una cosa sola a cui St. Jimmy riuscì a non essere indifferente, e fu la mancanza di lei. Non cambiò niente, fuori. Continuò tutto così. Ma dentro di lei qualcosa successe. Il dolore prese il posto dell’indifferenza e in qualche modo fu bello, la fece sentire viva. Già, forse fu per questo che comunque, nonostante una “spinta” ci fosse – era sola, adesso, sola davvero – lei riuscì a restare viva.
E alla fine decise di andare via. Non appena finì il liceo si trasferì in quella città, pensando che non sarebbe cambiato niente. Eppure successe qualcosa. Un appartamento condiviso, un dialogo fatto di libri e di canzoni, la decisione di lasciarsi alle spalle dei sogni infranti. Forse sarebbe andato tutto bene. Forse.
Forse.
  
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