Fanfic su artisti musicali > One Direction
Segui la storia  |       
Autore: Roof_s    12/12/2014    4 recensioni
"Io... Io sono solo curioso."
Summer si tirò di nuovo su in piedi e mi guardò dritto negli occhi. "Curioso di che cosa?" domandò.
"Del perché mi hai aiutato" risposi, sincero.
Summer si guardò attorno e poi rise. "Non c'è un perché, l'ho fatto e basta."
"Tu non...?" provai a chiederle.
Lei alzò le sopracciglia, confusa. "Io non... che cosa?"
Gesticolai a caso, poi mi fermai. Ma che diavolo stavo combinando?
"Tu non hai alcun interesse per...?"
Lasciai cadere la domanda a metà, sperando di coglierla in flagrante con un improvviso rossore del viso o con fulminee smentite. Ma la mia interlocutrice rimase impassibile, aspettando che continuassi.
Sbuffai, messo alle strette. "Tu non hai alcun interesse per me?" domandai.
La sua reazione mi fece sentire immediatamente un imbecille: Summer scoppiò in una vivace risata e io non potei fare a meno di arrossire.

IN SOSPESO
Genere: Commedia, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Nuovo personaggio, Un po' tutti, Zayn Malik
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A


 
Un mese dopo


 
Era l’undici dicembre. Questo significava che dal tragico momento del mio abbandono era passato un mese esatto.
Alzai le braccia e le guardai stagliarsi contro il debole colore azzurro del soffitto. Non avevo idea del perché lo facessi: forse per assicurarmi di essere ancora vivo e vegeto, e non sempre ciò costituiva un bene. Non avevo alcuna voglia di alzarmi dal letto e di guidare fino ai cancelli di scuola: purtroppo il ricordo di quel mese infernale era tornato lampante a martellare nella mia testa, e l’idea di varcare la soglia della Tong High School mi dava la nausea.
Poggiai i palmi delle mani sugli occhi, coprendo il mondo con un impenetrabile velo nero. Ma puntualmente tornarono quelle immagini dolorose a schiacciarmi sotto il loro peso.
Da un mese intero ero costretto a sorbirmi le vomitevoli scenette d’amore che vedevano come protagonisti Emily e Harry Styles: loro due che s’imboccavano a vicenda seduti sotto gli olmi nel giardino della scuola; loro due che passeggiavano mano nella mano per i corridoi; Harry che dedicava i suoi successi sportivi a Emily lanciandole baci invisibili dal campo di rugby; Emily che su Facebook pubblicava sdolcinate fotografie dei loro romantici picnic in montagna...
Mi sentii smuovere qualcosa in petto. Ecco, l’angoscia stava tornando a bussare alla porta. Ogni dannata volta che quei ricordi lampeggiavano nella mia mente, io riprendevo un pianto quasi mai interrotto.
Mi ero trasformato in uno straccio, in un sonnambulo che passava le notti in bianco a spiare i profili Facebook dei suoi suoi carnefici. La cosa che più mi feriva era sapere che Emily era felice e che la ragione della sua felicità non ero io. Lei se la spassava con quel deficiente di Styles, mentre io trascorrevo le mie giornate attaccato al computer, rinchiuso nel silenzio della mia camera da letto, mentre genitori, professori e amici si preoccupavano invano della mia salute mentale.
Non mi curavo nemmeno delle attenzioni che la gente mi riservava, tutta presa dalla preoccupazione che non sarei mai tornato quello di prima. Ma cos'altro sarei potuto essere dopo quella batosta? Emily era stata la metà della mela che mi aveva completato e reso un ragazzo migliore e più allegro; ora che lei non voleva più saperne di me, io mi sentivo svuotato di ogni emozione o passione. Non avevo voglie o interessi, desideravo solo essere abbandonato al mio stato vegetativo, chiuso in casa e possibilmente attaccato alla scrivania sulla quale stava il computer.
“Zayn, svegliati!” mi chiamò mia mamma al di là della porta, sbattendo le nocche con forza contro il legno.
Voltai il capo verso la finestra, sul lato destro della camera. Da fuori arrivava una luce chiarissima, probabilmente il riverbero del pallido sole autunnale sulla neve caduta in quei giorni. Il freddo cominciava a farsi sentire, ma non faceva differenza per me: trascorrevo la maggior parte del tempo al caldo di casa mia, quindi la neve, la pioggia o il sole quasi passavano inosservati ai miei occhi.
“Zayn!” chiamò di nuovo mia mamma, insistente come suo solito.
“Arrivo...” mugugnai, ancor più innervosito da quei richiami.
Mi tirai su a sedere, la schiena contro la testiera del letto. Presi un profondo respiro, più per farmi coraggio che per altro. Ogni mattina era sempre la stessa storia: dovevo ripetermi che non sarebbe stato quel male a uccidermi; solo così ero in grado di uscir di casa e di mettere in moto l’auto.
Scesi dal letto, infilai le pantofole e mi avviai verso la finestra: aveva smesso di nevicare, ma il cielo caliginoso di quella fredda mattina faceva presagire il peggio.
Abbandonai la camera da letto e mi chiusi in bagno. Massaggiai il mio volto stanco sotto il getto d’acqua fresca che usciva dal rubinetto. Dopo essermi asciugato guance, naso, fronte e mento, mi lavai i denti e, tornato nella mia stanza, terminai di infilare libri di testo e quaderni nella cartella a tracolla grigio scuro che mi era stata regalata da Emily parecchi mesi prima. Il solo toccare tutti gli oggetti che lei aveva comprato proprio per me mi gettava nello sconforto come se non avessi mai nemmeno tentato di uscire da quel morboso stato di malessere interiore.
Presi un respiro profondo e mi avviai alla porta con la cartella già in spalla. Scesi di sotto in cucina ma non mi ci volle molto prima di percepire che qualcosa non andava per il verso giusto: il piano terra era troppo silenzioso. In casa mia vigeva la regola del chiacchiericcio continuo: mia mamma possedeva una parlantina che raramente permetteva di godersi il silenzio, e mio papà l’accontentava assecondando ogni sua chiacchiera, anche quando si trattava di discutere a proposito dell'ultimo acquisto della figlia dei vicini.
Quel giorno, tuttavia, né mia madre né mio padre stavano parlando, seduti al tavolo della cucina di fronte alla grande finestra che dava sul nostro cortile. Li guardai di sfuggita mentre cercavo le mie scarpe davanti alla porta di ingresso e mi accorsi non senza un certo fastidio che entrambi erano intenti a spiarmi con aria inquisitoria.
"Che c'è?!" esclamai, infastidito da tutte quelle attenzioni innaturali; non avevo alcuna intenzione di lasciarmi inchiodare dalle loro domande.
"Zayn, puoi aspettare un minuto?" parlò mia madre per prima.
Avrei dovuto aspettarmelo. Sicuramente i miei genitori si erano accorti di quanto fossi schivo e introverso da un mese, e anche senza conoscere l'esatta ragione delle mie stranezze, ero quasi certo che stessero arrivando alla verità. Non ero ancora riuscito ad affrontare l'argomento con nessuno, tantomeno se la gente provava a cavarmi le parole di bocca con la forza. Come sarei riuscito a confessare la mia frustrazione proprio a loro due?
"Per fare che cosa esattamente?" domandai, terrorizzato all'idea di dovermi sedere in mezzo a loro e... parlare.
"Dovremmo fare due chiacchiere" si mise in mezzo mio padre, col suo inconfondibile tono conciliante che sperava di addolcire la pillola.
Guardai distrattamente il quadrante dell'orologio e tentai la mia ultima carta vincente: "In verità sono già in ritardo."
"Ti saresti dovuto svegliare quando l'ho detto io" mi rimbeccò mia madre con tono saccente.
Ignorando quell'osservazione, proseguii: "Inoltre questa mattina mi aspetta un compito in classe."
Mia madre lanciò un'occhiata saettante a mio padre affinché intervenisse. Lo vidi togliersi gli occhiali dalla punta del naso e passarsi una mano sul volto tirato.
"Ti tratterremo solo due minuti, Zayn. Puoi sederti qui?", e indicò la mia sedia.
Passai oltre la richiesta e ripetei: "Che cosa c'è?"
Mio padre sospirò. "Siamo seriamente preoccupati per te, Zayn. Non ti riconosciamo più."
Chiusi gli occhi, mentre ricevevo e incassavo il colpo. Fin da quando mi era stato impedito di lasciare casa, avevo capito che le due chiacchiere avrebbero vertito su quell'argomento.
"I tuoi voti peggiorano di giorno in giorno" aggiunse mia madre, allarmata.
Le sorrisi ferocemente. "A te interessano solo quelli, vero, mamma?"
Lei sembrò prendere a male quelle mie parole. Mi guardò con cipiglio severo. “Zayn, io mi preoccupo per te, il che è diverso.”
Sbuffai, tirai più su la cartella a tracolla e misi mano alla maniglia della porta di casa. “Mamma, papà, sono libero ora?”
“No, Zayn” disse mio padre. “Spiegaci almeno se è colpa di Emily.”
Le parole ‘colpa di Emily’ facevano male. L’amore che nutrivo per la mia ex fidanzata era ancora così forte e resistente, che addossare ogni responsabilità a lei mi sembrava ingiusto e doloroso. Eppure, cos’altro avrei potuto dire per spiegare le mie condizioni?
No, si tratta del tempo. Odio queste giornate così fredde!” oppure “Papà, ti sbagli! Emily non ha nulla a che vedere con questa storia. Sto male perché non riesco a superare il quarto livello di Assassin’s Creed!”
Scossi il capo. “No, Emily... No, lei non c’entra” mentii. “Lei... Lei e io...”
Mia mamma alzò un sopracciglio, in attesa di risposte più chiare. Ma i miei balbettii confusi non davano assolutamente un’idea precisa di che cosa potesse essermi successo. Le mie menzogne sarebbero venute a galla molto presto.
“Non state più insieme, vero?” azzardò mia madre.
Spalancai gli occhi, terrorizzato dalla sua intuizione. “No.”
Mio padre e mia madre si scambiarono una fugace occhiata confusa.
“No, no!” esclamai di nuovo, sconvolto. “No. Io ed Emily stiamo ancora... insieme. Lei... ha solo...”
Non riuscii a reggere oltre il macigno che la mancanza di lei faceva pesare sulla mia schiena: mi appoggiai alla porta ancora chiusa e seppellii il volto nel colletto della felpa verde indossata quel giorno, nascondendo parzialmente i miei occhi di nuovo lucidi.
“Oh, Zayn!” gemette mia madre.
I suoi passi affrettati si udirono chiaramente, e mi sentii presto stringere tra le sue braccia. Non le impedii quell'abbraccio, frastornato com’ero dalla mia rinnovata debolezza.
“Okay...” mormorai a stento tra la mia felpa e l’abbraccio soffocante di mia madre. “Okay, va tutto... bene...” ripetei, cercando di liberarmi.
Lei se ne accorse e mi lasciò andare. Le sue mani, però, restarono incollate alle mie spalle come se temesse che sarei svenuto da un momento all'altro.
“Zayn, possiamo fare qualcosa per aiutarti?” chiese mio padre, il tono più contenuto rispetto a mia madre.
Scossi di nuovo il capo. “Voglio solo essere lasciato in pace.”
“Troverai altre ragazze, anche migliori di Emily!” esclamò gioiosa mia madre, sfregando una mano sui miei capelli scuri.
La guardai con fare stizzito, mentre provavo a sistemare il groviglio che mi ritrovavo in testa.
“Okay, Trisha, non penso che questa sia la cosa giusta da dirgli adesso...” sussurrò mio padre, più cauto. "Dovremmo solamente..."
Sospirai, tesissimo nel momento delle confessioni. “Dovreste solamente lasciarmi in pace...” dissi una volta per tutte.
Mia madre continuò a guardarmi con quel suo sguardo malinconico, come se quella fosse l’ultima volta in cui ci saremmo visti.
“Zayn, tu stai male” si oppose. “Non puoi pretendere che ti lasciamo stare senza nemmeno provare a...”
“... ad aiutarmi? Volete proprio aiutarmi?” la interruppi. Aprii la porta di casa. “Se davvero lo volete, vi converrebbe lasciarmi vivere la mia vita.”
“Ma noi te la lasciamo vivere, Zayn!” s’impuntò mia madre. "Vogliamo solo che tu ritorni quello di prima."
Sbuffai, sprezzante del tono apprensivo di mia madre. "Quello di prima non tornerà più. Se l'è preso Emily, okay? Che vi piaccia o no, sto passando un periodo di merda e non ho voglia di fingere sorrisetti e allegria perché voi vi sentiate meglio la sera prima di chiudere gli occhi. Quindi, lasciatemi stare!"
I miei genitori tacquero, colpiti dal tono duro con cui avevo pronunciato quelle parole.
Non avevo più voglia di stare lì ad ascoltare le loro lamentele: ero già tormentato dalla mia mente e dai pensieri depressivi che produceva a ritmo sostenuto di giorno in giorno. Se avessi continuato a vivere in quell’inferno, probabilmente mi sarei buttato dalla finestra della mia camera da letto.
Mi sembrava assurdo che l'amore per Emily fosse potuto arrivare a tanto, a spingermi alle soglie della depressione, eppure non stavo fingendo, non era tutta una montatura studiata a tavolino per attirare l'attenzione su di me. Mi sentivo come lacerato in infiniti pezzettini che piano piano scomparivano, lasciando solo una macchia confusa di quello che Zayn Malik era realmente stato. E anche quando provavo a reagire, quando per esempio afferravo lo skate e uscivo in giardino, quando aprivo uno dei miei fumetti preferiti, quando mi incamminavo per una passeggiata, mi tornavano alla mente troppi ricordi stracciati che cancellavano immediatamente ogni tentativo di ripresa.
“Io devo andare. Ci vediamo più tardi” salutai stancamente, svuotato di ogni energia vitale.
Uscii sul pianerottolo di casa e richiusi la porta prima di attraversare il giardino frontale e salire sulla mia Peugeot 207 nera.
 
***

Come se le discussioni in famiglia non fossero già abbastanza pesanti da reggere, era vero: c’era anche il problema scolastico. Da un mese a questa parte purtroppo non ero più stato in grado di focalizzare la mia concentrazione sulle materie di studio, le interrogazioni e i test e la mia media scolastica aveva risentito negativamente di questa sbadataggine.
Mi accomodai al solito posto della solita aula, quella dove da quattro anni trascorrevo le mie mattinate. Fortunatamente tutti i banchi restavano separati gli uni dagli altri, cosicché nessuno si sentisse in dovere di interrogarmi a proposito del mio umore.
Ovviamente nulla impediva ai miei compagni di fissarmi con aria curiosa, ma sapevo la mia aura depressiva li teneva lontani dall’angolo nel quale ero stato sistemato all’inizio dell’anno, proprio vicino alla finestra che dava sul cortile posteriore.
Gettai la cartella ai piedi del banco. Appoggiai il mento ai palmi delle mani, tenendo d’occhio la lavagna ricoperta di scritte senza senso, frutto della mastodontica stupidità delle mie compagne di classe, le quali pensavano ancora che produrre certe sciocchezze potesse risultare interessante agli occhi di noi ragazzi.
“Ehi, Zayn!” esclamò la ben nota voce di Mark, uno dei pochi, in quella classe, ancora deciso a rivolgermi la parola.
Non mi mossi di un solo millimetro, anche se con gli occhi spiai nella direzione dalla quale la voce era arrivata. Mark Thompson era in piedi vicino al mio banco e sotto il braccio sinistro reggeva il suo ultimo acquisto, uno skateboard dalla plancia decorata con appariscenti fiamme rossastre.
“Ciao” mormorai, per niente colpito né dal suo buonumore né dallo skateboard.
Lui, come se non avesse ancora capito, levò più in alto lo skate e sorrise con aria fiera. “Hai visto il mio nuovo gioiellino?”
Annuii svogliatamente. “Bello.”
Mark smise di esibirlo come una coppa appena vinta e trasse un profondo respiro di riflessione. “Oggi pomeriggio hai da fare?”
Alzai le spalle, ancora intento a fissare la lavagna.
“Che cosa vuol dire?” indagò Mark, determinato nel volermi risvegliare da quella trance permanente.
“Vuol dire che non lo so” biascicai appena.
“Come fai a non sapere se avrai impegni o no questo pomeriggio?” perseverò il mio amico.
La sua insistenza stava diventando fastidiosa, quasi quanto quella dei miei genitori. Sapevo che tutti loro avevano ragione nel volermi mettere in difficoltà, forse perché quella sarebbe stata l'unica maniera di dare una scossa alla situazione. Ciononostante io non ero capace di reagire adeguatamente. Forse non ero nemmeno all’altezza degli eventi che erano venuti a crearsi. Forse mi sarei dovuto prendere un po’ di tempo per riflettere.
Riflettere?! E su che cosa? Hai già pensato anche troppo, adesso devi darti una mossa prima che tutti decidano di abbandonarti definitivamente!, sgridò con severità la mia stessa mente.
“Mark”, sospirai, “ti prego, non insistere. Non ho idea di ciò che farò oggi pomeriggio.”
“Io sì” insinuò lui, assolutamente tranquillo. “Penso che trascorrerai l’intero pomeriggio davanti al tuo computer, nel tentativo di capire che cos’hanno mangiato Harry ed Emily durante la loro ultima cenetta a lume di candela.”
Mi sentii ferire a morte da quell’osservazione così piccata e così maledettamente corretta. Mark aveva capito che cosa non andava in me: il fatto che fossi troppo ossessionato da quella vicenda.
Distolsi lo sguardo dagli occhi indagatori del mio amico: stavo di nuovo andando incontro alle lacrime.
“Zayn, per piacere, esci da questa storia” mi sussurrò lui, piegandosi verso di me. “Ti stai rovinando con le tue stesse mani, non lo vedi?”
Lo vedo eccome, Mark.
Scossi il capo, trattenendomi dal piangere solo grazie a uno sforzo sovrumano.
“Emily deve tornare da me...” bofonchiai con la voce acuita dalla disperazione.
Mark sbuffò stancamente. “Emily è andata avanti. Fallo anche tu.”
Andare avanti... Ma che cosa significava, in fin dei conti, andare avanti?! Tradire un ragazzo fedele e innamorato per scappare tra le braccia di un altro che sicuramente si rivelerà una ancor più grande delusione? Fare a pezzi il cuore di un'altra persona e cancellare mesi e mesi di amore con uno stupido viaggio a Parigi? Quello era 'andare avanti'?
Forse ero io l'idiota di turno che non capiva, ma a me Emily non sembrava andata avanti, piuttosto tornata indietro: ai periodi in cui i sentimenti si prendevano alla leggera, in cui per dirsi fidanzati bastava una crocetta su un pezzo di carta, in cui l'amore era rappresentato dal tenersi per mano. Emily non era andata avanti, aveva fatto un passo falso e io ero convinto che prima o poi se ne sarebbe accorta.
“Oggi sono occupato” risposi infine alla sua precedente domanda, un velo di stizza nella mia voce.
Mark, confuso, si tirò più su. Sentivo i suoi occhi addosso, ma consumarmi con lo sguardo non sarebbe bastato a farmi cambiare idea.
“Oggi ho da fare” ripetei per incidere meglio il messaggio nella sua testa.
Lo guardai, a metà tra il disperato e l’indispettito. Mark sbuffò e scosse il capo: la sua scorta di buone parole era esaurita.
“Non si può dire che almeno io non ci abbia provato...” sospirò, rassegnato. “È da un mese che tento in tutte le maniere di farti rinsavire, ma tu sei ostinato. Ti auguro solo di uscire da questa condizione, prima o poi.”
Mark girò sui tacchi e tornò da Travis e Tom, gli altri due grandi amici che in quel periodo avevano provato a tirarmi fuori di casa con ogni tipo di sotterfugio. Il tutto, comunque, invano.
Mi lasciai scappare uno sbuffo d’irritazione, sbattendo una mano sulla superficie pasticciata del mio vecchio banco.
 
***

“Malik?”
Mi fermai proprio sul punto di abbandonare l’aula. Senza lasciare la presa sulla maniglia della porta, mi voltai verso la Stevenson, nostra insegnante di Geografia. La professoressa, una bella donna di circa trent’anni, bionda e decisamente in carne, stava risistemando alcune verifiche raccolte poco prima del suono della campanella di fine giornata.
“Sì?” risposi con un’altra domanda alla sua domanda.
Lei alzò gli occhi e si tirò più su gli occhiali sul naso. “Potremmo parlare?”
Guai in vista. Ecco cosa passò nella mia mente.
“Sì” risposi, tornando sui miei passi e mettendomi proprio di fronte all’insegnante.
Lei sospirò con aria grave. Non sapeva da dove iniziare a rimproverarmi? Forse avrei potuto suggerirle le formule già collaudate da Mark e dai miei genitori... Fortunatamente tenni la bocca chiusa.
“Malik, ci sono alcuni problemi” esordì quella donna che da anni era abituata a vedermi brillare nella sua materia.
Annuii con cautela.
Di problemi ce ne sono anche troppi, mi creda, pensai.
“Ti sei sicuramente reso conto di come i tuoi voti siano cambiati nelle ultime settimane."
Di nuovo mi limitai a una mossa del capo.
Solo un idiota non se ne sarebbe reso conto, dai!
Lei prese un respiro più profondo dei precedenti. “Vorrei sapere che cosa ti sta succedendo.”
Ci risiamo, pensai, scocciato.
“Sono successe delle cose di cui preferisco non parlare” tagliai corto.
“Hanno a che fare con la tua famiglia?”
Perché voleva anche psicanalizzarmi? Non le bastava più la sola cattedra di Geografia?
“No, tutt’altro. Sono cose che riguardano soltanto me.”
“Problemi con gli amici? Qualcuno a scuola ti sta dando fastidi?”
Feci cenno di no con la testa. Improvvisamente mi sentii come un bambino alle prese con una madre troppo apprensiva. E la cosa m'infastidiva.
“No, sul serio, non c’è bisogno di parlarne” le assicurai.
La mia professoressa, però, non sembrava convinta. “Malik, sono preoccupata per te. Se continuerai di questo passo, non riuscirò ad ammetterti alla classe successiva.”
Sbuffai una risatina repressa. “Non le sembra un po’ troppo presto per parlare del prossimo anno? Siamo solo a dicembre.”
Lei non sembrò apprezzare il mio spirito ottimista. Con l'indice iniziò a giocherellare col cordino rosso dei suoi occhiali. “Ti converrebbe iniziare a studiare, perché in un batter d’occhio ci ritroveremo a maggio e tu sarai costretto a fare i conti con la tua trascuratezza.”
Il sorriso che avevo stampato in volto si spense nel giro di un secondo. Le parole della Stevenson ebbero lo stesso effetto di un secchio d'acqua gelata: e se lei avesse avuto ragione e io mi fossi ridotto sempre peggio col passare dei mesi? E se fossi giunto a maggio con molteplici insufficienze irrimediabili? I miei genitori mi avrebbero spedito in un college privato lontano da Bradford? Deglutii, il cuore che batteva furiosamente nel petto. Era la prima volta che lo risentivo così attivo dal momento della rottura con Emily.
La Stevenson si alzò dalla sua sedia e fece il giro della cattedra. Mi allungò un foglio su cui intravidi parecchi segni rossi: era uno degli ultimi test fatti in classe, e io, a quanto pareva, avevo ottenuto un'odiosissima D.
"Sono molto dispiaciuta di questo voto, ma mi vedo costretta a chiederti di mostrarlo ai tuoi genitori" disse la Stevenson in tono funereo.
Annuii, amareggiato. Non levai gli occhi dalla piccola D rossa incisa sopra il mio nome. La mia media in Geografia stava precipitando, io non sapevo da dove iniziare per rimettere a posto le cose.
"D'accordo" asserii, alzando il viso e guardando negli occhi la Stevenson. "Arrivederci."
“Stammi bene, Malik.”
Bene! Era facile dirlo. Odiavo quelle frasi fatte in certe circostanze.
Con la verifica ancora in mano, mi avviai alla porta e attraversai i corridoi quasi del tutto vuoti della Tong High School.

***

Il parco era calmo e freddo. Non c'era anima viva nei paraggi; ero seduto su un'altalena di legno che sembrava consumata da anni e anni di uso. A quell'ora della sera non si vedeva quasi più nessuno nel Bowling Park, una grande zona verde poco distante da casa mia. Attorno a me il cielo si stava tingendo di blu scuro, il freddo penetrava fino alle ossa e io mi dondolavo pigramente avanti e indietro sull'altalena, gli occhi bassi sul terriccio smosso sotto i miei piedi.
Quel pomeriggio avevo riflettuto a lungo su tutto ciò che mi era stato rimproverato in una sola giornata: indifferenza, distrazione, pigrizia, insofferenza al resto del mondo intero... Erano solo alcuni dei punti di una lunga lista che andava allungandosi giorno dopo giorno.
Dovevo reagire, dovevo darmi una mossa prima che il tempo sprecato crescesse da un solo mese a magari un intero anno.
Scalciai il terriccio e fermai l'altalena di botto. Estrassi il telefono dalla tasca dei jeans e aprii la cartella dei messaggi. Non avevo ancora trovato il coraggio di eliminare tutte le sdolcinate frasette che Emily mi mandava la sera o la mattina, al risveglio.
Scorsi velocemente tutte le nostre conversazioni, senza soffermarmi troppo su nessuna. Solo dopo un attimo di riflessione, selezionai tutti i suoi messaggi e premetti su 'opzioni'. Scesi fino alla voce 'elimina tutte le conversazioni' e attesi ancora un istante.
E se poi Emily tornasse da te? Cosa faresti?
Quel secondo di esitazione fu sufficiente a spazzare via la mia determinazione. Cliccai sul tasto rosso del mio telefonino e tornai alla schermata iniziale, dalla quale io e la mia ex fidanzata sorridevamo felici, stretti in un abbraccio che, almeno nella mia testa, sarebbe dovuto durare per sempre.
Mi alzai dall'altalena e tornai sul sentiero asfaltato del parco, infilando le mani nelle tasche del mio giubbotto.
Nella vita mi erano state rubate tante cose, ma nessun furto era stato così doloroso e stravolgente come quello del mio cuore.



Privjet, mie care! 
Bentornate su questa fan fiction, se siete riuscite ad arrivare fino alla fine di questo capitolo. Come l'avete trovato? Questo è ancora un capitolo di "introduzione", perché la storia sta ancora prendendo forma: c'è Zayn abbattuto, ci sono adulti che non riescono a mettersi nei suoi panni, c'è Zayn che prova a cancellare i messaggi di Emily (come lo capisco!), inutilmente... Insomma, questo capitolo è studiato per non correre troppo in fretta alle conclusioni, per riuscire a far capire bene sensazioni e impressioni di un protagonista che parla in prima persona, e quindi, a mio parere, deve essere analizzato nei minimi dettagli.
Come ho già detto a qualcuna e come sto pensando fin dalla pubblicazione della storia, ho ancora qualche piccolo piccolo dubbio sul protagonista: io mi vedo molto bene Zayn in questo ruolo - soprattutto per i risvolti che la fan fiction prenderà -, ma vorrei sapere cosa ne pensate voi lettrici. Credete che sia meglio Harry (come in parte mi è stato suggerito)? Vi piace lo Zayn che, per il momento, ho delineato? Mi farebbero piacere le vostre opinioni. :)

Sperando di non avervi annoiate a morte e dandovi appuntamento al prossimo capitolo (che arriverà presto), vi saluto e vi mando un grosso abbraccio,


M.
   
 
Leggi le 4 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Fanfic su artisti musicali > One Direction / Vai alla pagina dell'autore: Roof_s