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Autore: Nano    12/12/2014    1 recensioni
Firefighters è un omaggio al mestiere di Vigile del Fuoco, che ammiro molto. Jane e Maura si incontrano in un contesto completamente diverso da quello in cui siamo abituate, e solo per pochi attimi. Undici anni dopo, finalmente, il ricongiungimento tanto anelato da entrambe. AU - Jane e Maura sono vent'enni.
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: FemSlash
Note: AU, Lime, Otherverse | Avvertimenti: nessuno
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Firefighters - Vigile del Fuoco

Come ho fatto a finire in ospedale? Cosa mi è successo?
Perché così tante macchine tengono in vita il mio corpo?
Stavo finalmente per conoscerla. Dopo quasi un decennio di ricerche, stavo finalmente per raggiungere la donna di cui mi ero innamorata così tanto tempo prima. Avevo così a lungo anelato il momento esatto in cui i miei occhi avrebbero incrociato per la seconda volta i suoi bellissimi occhi verdi, che quando alla fine stava per succedere… Cosa mi è successo?
Erano passati undici anni. Undici lunghissimi anni durante i quali non ero riuscita a togliermi dalla mente quella ragazza. Avevo 21 anni quando l’incontrai per la prima volta, o meglio, quando la salvai per la prima volta. Era la mia quinta missione ufficiale come pompiere, la paura e la tensione delle prime uscite aveva già lasciato il posto ad una sicurezza di me che in poco tempo mi avrebbe portato ad essere il più giovane capitano (per giunta donna) della squadra principale di Boston.  
Il mio sogno si era avverato a 25 anni.
Ma il sogno di ritrovare quella ragazza, quello non si era mai realizzato.
“Isles.” Era tutto quello che ero riuscita a scoprire dopo quella notte.
La ragazza che avevo salvato era stupenda, un’esplosione di fascino e mistero. Dal momento in cui avevo messo piede nell’appartamento in fiamme e l’avevo scorta in lontananza, fino a quando non perse conoscenza tra le mie braccia, le labbra ancora appoggiate alla mia bottiglietta d’acqua, non ero riuscita a scuotermi dalla trance in cui ero caduta. Sapevo che era diversa, sapevo di avere di fronte a me un essere speciale quanto raro. E la cosa di cui non riuscivo a capacitarmi era come un essere come lei si fosse ridotto in quella situazione: coperta di cenere e detriti in un appartamento infuocato, circondata da persone ustionate e da bottiglie di alcol vuote. Ma i suoi occhi non mi avevano mentito. Avevo visto un fuoco dentro di essi, più ardente di quello che la circondava nell’appartamento.
La ragazza con gli occhi verdi e i capelli color biondo cenere era stata l’unica sopravvissuta illesa di quell’incendio. 31 studenti erano morti, 4 avevano riportato ustioni gravissime nel 60% del corpo. Lei, una piccola cicatrice sul polpaccio, niente più. Era come se un angelo avesse deciso di salvare un altro angelo, e mi avesse dato l’occasione di conoscerla. E io non solo l’avevo conosciuta, ma mi ero anche innamorata di lei. Nel giro di 20 minuti, il mio cuore era suo.
E tutto quello che avevano accettato di dirmi era il suo cognome.
“Isles.”
Riuscite ad immaginare quante persone si chiamino Isles, negli Stati Uniti? Riuscite anche solo ad immaginare quante notti io sia stata sveglia, testa china su libri e computer, nel vano tentativo di cercare quella donna? Ma non la conoscevo. Non sapevo nemmeno che faccia avesse, sotto la cenere, sotto alla sporcizia.
Sapevo solo che ero perdutamente innamorata di lei.
Poi, la creazione di Facebook. Il mio profilo credo sia stato uno dei primi, tanta era la foga di spulciare tra gli utenti con il cognome di “Isles.”. Avevo provato ogni nome possibile. Julia. Kate. Emma. Sophie. Elizabeth. Carole. E avevo continuato. Louisa. Stephanie. Martha. Kelly. Danielle. Mia madre era quasi svenuta il giorno in cui ero arrivata a casa con un libro di nomi da dare ai neonati. “Non sono incinta, mamma. Non ho nemmeno un ragazzo.” Ma vorrei avere una certa ragazza e questo libro potrebbe aiutarmi a trovarla.
Abigail, Alice, Alyssa, Antonie, Barbara, Betty, Bonnie, Britney, Catherine, Christine, Cindy, Cora, Darma, Delice, Dolores, Dora, Eliza, Ellie, Emily, Ezra, Fanny, Felicity, Fiona, Francis, Georgia, Geena, Ginevra, Grace, Hannah, Heather, Hilary, Holly, India, Isobel, Izzy, Iolanda, Jamie, Jessica, Jodie, Josephine, Katie, Kelsea, Kirsten, Kristem, Laura, Lisa, Lindsey, Lorna, Marie, Molly, Monica…
Niente. Nessun risultato corrispondeva alla ragazza di cui mi ero per caso innamorata. Non avevo mai perso le speranze, e finalmente, pochi giorni fa, era accaduto l’impossibile.
Era un giorno come un altro a Boston, un fresco giorno di primavera. La caserma era tranquilla, e avevo deciso di lasciare la situazione per un paio d’ore in mano a Joe, un eterno spasimante tramutatosi in serio collega, per andare a comprare la mia cena. Joe aveva popolato i miei pensieri per tutta la durata della mia passeggiata verso un locale a pochi passi. Non era immune alla mia bellezza. Nessuno era immune alla mia bellezza. Sapevo di essere una donna piacente, alta più della norma, con un fisico che curavo molto sin da piccola. La maggior parte delle donne invidiava la cascata di ricci neri che non avevo mai tagliato troppo corti. Ma non avevo mai accettato avances da nessuno. Né prima della ragazza Isles, né dopo. Joe era stato uno dei tanti che per anni aveva insistito, tentando di convincermi che non esisteva al mondo uomo migliore di lui per domare un’anima selvaggia come me. E sono pronta a scommettere che fu proprio mia madre a mettergli in testa questa convinzione. ma lui era solo l’ultimo (o forse il primo) di una lunga lista, che piano piano si era dileguata, lasciando amici, colleghi, conoscenti.
Ma di colpo, arrivata davanti al pub, tutti questi pensieri avevano abbandonato la mia mente. C’era un volantino, attaccato proprio davanti alla porta.
“29° Convegno di Medicina Forense, 23 e 24 Aprile, Boston. Ospite d’onore, Dottoressa Maura Isles.”
Sono sicura che per un momento il mio cuore si sia fermato. Fermo immobile, sospeso nel preciso istante in cui il mio cervello ha realizzato che Maura era l’unico dannato nome che non mi era venuto in mente in tutti quegli anni. Maura. Che razza di nome è? Quanto male le devono aver avuto i suoi genitori per condannarla ad un nome così? E subito dopo questi pensieri, una nuova ondata. Era un nome perfetto per lei. I suoi occhi, il suo sorriso, proclamavano a voce alta l’unicità e lo splendore di quella ragazza che undici anni prima mi aveva rubato il cuore. I ricordi mi avevano sopraffatto di colpo. L’occhiata di panico che mi aveva lanciato quando le avevo detto che era stupenda. Il leggero movimento della sua testa che mi comunicava che stava bene, poi che ci ripensava. Il suo minuscolo dito che puntava alla bocca appena aperta, l’urlo straziante che non riusciva ad emettere. Le sue labbra che si appoggiavano delicatamente alla mia bottiglia. Il suo volto che perdeva conoscenza di fronte a me. Il suo corpo leggero tra le mie braccia mentre la trasportavo fuori dall’appartamento in fiamme.
Maura Isles. Medicina Forense. 23 e 24 Aprile. Boston.
23 e 24 Aprile?
In trance, controllai il mio orologio. 22 Aprile. Domani. Dopodomani. Un’idea precisa si era già formata nella mia mente.
Convegno di medicina forense.
Dovevo andarci.
Quel 22 aprile non era passato velocemente come gli altri giorni. Il tempo aveva indugiato su ogni secondo, su ogni minuto, rendendo le ore interminabili. Rapidi controlli su internet mi avevano confermato il luogo (il prestigioso Revere Hotel Boston Common) e l’orario in cui la dottoressa Maura Isles avrebbe tenuto il suo discorso (le 11:30). C’era anche una piccola foto allegata, e non avevo avuto più dubbi. Era lei.
La notte era stata eterna, non avevo chiuso occhio. Il pensiero di rivederla era tanto, troppo grande per essere tenuto sulle spalle ad occhi chiusi. Gli occhi dovevano rimanere aperti, vigili, pronti a riempirsi della sua immagine.
Ma anche dopo la più lunga delle notti, sabato 23 aprile era arrivato. Un tiepido sole accompagnò la mia camminata verso l’hotel, dopo che avevo parcheggiato a pochi isolati. Avevo bisogno di aria fresca.
Erano le 13 ormai. La conferenza doveva essere appena finita, e infatti una scia di figure in camice si stava riversando fuori dall’ingresso principale dell’hotel, per spostarsi in massa dentro ad un ristorante a fianco. Riuscivo a sentire i palpiti del cuore rimbombarmi nelle orecchie. Il sangue scorreva denso, lento, rendendo la mia respirazione affannata.
Quante erano state in undici anni le probabilità di vederla a Boston? I primi tempi mi ero messa a studiare il calcolo percentuale, con la speranza di vederla per caso. Con il tempo le mie speranze si erano spente. Mi ero rassegnata all’idea che non fosse a Boston, che abitasse in un luogo lontano, sperduto, magico e meraviglioso come lei. Forse era veramente stata sempre e solo un bellissimo angelo. Ma ora, ora era li. Nella mia stessa città. In un hotel a pochi passi da casa mia. Cosa importava se poi sarebbe tornata nel suo magico luogo di provenienza? I fatti di cui ero sicura erano pochi: undici anni fa quella donna aveva passato una notte a Boston, ed era finita tra le mie braccia, priva di sensi e coperta di cenere. Ora, avrebbe trascorso un’altra notte a Boston, per via di un noioso convegno. Ed avevo tutte le intenzioni di farle passare anche quella seconda notte tra le mie braccia, tutti i suoi meravigliosi sensi in lei.
Che idea strampalata, direte voi. Eppure, niente mi sembrava più chiaro, più nitido, più scontato. Io e lei insieme. Le avevo salvato la vita. Stava a lei ora, salvare la mia.
Perché, vi chiederete quindi, in questo momento sono circondata da macchine? Ci saranno una decina di fili attaccati al mio braccio, un monitor di fianco al letto che emana un ticchettio irritante. Cosa ci faccio in un letto di ospedale, quando stavo per incontrare di nuovo quegli occhi verdi?
Non aveva fatto in tempo a vedermi. Finalmente potevo vederla, era a pochi passi da me, al di là della strada. Un paio di uomini in camice la circondavano, ma lei era vestita in modo diverso. Aveva un abito bianco, corto. Dannazione, era davvero un angelo? Era ancora più bella di quanto ricordassi. Come se i miei piedi avessero vita propria, iniziarono a camminare verso di lei. Passo dopo passo, sentivo che presto avrebbe incrociato il mio sguardo, smettendo di dare attenzioni alle stupide figure che la circondavano.
“Alza gli occhi.”
“Alza gli occhi.”
Avevo iniziato a pregare.
“Alza gli occhi.”
Un leggero sussurro mi sfuggì dalle labbra, ma lei non mi sentiva.
E finalmente lei gli occhi li alzò.
 
Maura Isles alzò gli occhi, appena in tempo per vedere una donna che veniva violentemente urtata da un auto in mezzo alla strada. Un silenzio tombale cadde intorno a lei, e Maura rimase immobile, mentre il corpo di quella donna veniva sbattuto lontano sull’asfalto. Maura rimase immobile, mentre il conducente dell’auto scendeva dall’auto, gridando che la donna non guardava, che si era buttata, che aveva fatto tutto il possibile, che era… morta?
Maura portò velocemente lo sguardo sulla donna a terra.
Un pensiero la colpì violentemente, come uno schiaffo.
Quella donna, conosceva quella donna.
Era un pompiere. Un pompiere, ma il ricordo era molto annebbiato. Era notte, c’era… c’era caldo. Aveva sete. Aveva sete, e aveva bisogno d’acqua. Un ragazzo stava bruciando. Altri ragazzi erano morti.
“Sei troppo bella per…”.
“Sono Jane, e ti porterò fuori di qui.”
Jane.
Porgi l’altra guancia, è il comandamento. E Maura la porse, per il secondo schiaffo che la colpì.
Certo che Jane non stava guardando la strada. Stava guardando lei.
 
Non solo il polso mi faceva male, ma anche dal ginocchio destro in giù, e tutta la parte del fianco sinistro. Non riuscivo a ricordare molto, se non un vestito bianco, degli occhi verdi… Non poteva essere.
Eppure.
“Apri gli occhi.”
Una voce.
“Apri gli occhi.”
“Apri gli occhi, Jane.”
Serrai violentemente le palpebre. Non mi interessava più contare quante fossero le macchine attaccate al mio corpo, né volevo capire dove mi trovassi.
“Apri gli occhi, ti prego.”
No, non era possibile. Non avevo mai sentito quella voce, eppure, era quella. Era la voce.
Convegno di medicina forense.
Il tocco di una mano calda.
Aprii di colpo gli occhi. La luce era così forte, così dolorose, che si crearono immediatamente delle gocce ai lati dei miei occhi. Lacrime.
Ed eccola li.
Finalmente.
Occhi verdi.
Vestito bianco.
Il mio angelo.
Provai a parlare, ma qualcosa ostruiva la fuoriuscita dell’aria.
“Aspetta.”
Maura si mosse velocemente, e chiamò un dottore. L’uomo arrivò in fretta, estrasse il tubo dalla mia gola e mi tese un bicchiere d’acqua.
“Lei è una roccia, signorina Rizzoli. Circa. Al momento è un po’ sbriciolata, ma ho sentito grandi cose di lei, e me ne aspetto altrettante.” Mi sorrise, poi sorrise a Maura.
“I suoi genitori saranno qui tra poco.” Disse congedandosi.
Di nuovo sole, pensai posando gli occhi di Maura. Cosa ci faceva qui? Sentii la sua mano calda sul dorso della mano, e per la prima volta mi resi conto di quanto dolore sentivo. Non c’era una parte del mio corpo che non emanasse fitte lancinanti. Con la squadra avevo corso mille pericoli, mi ero fatta male tante volte e mia madre si vantava con le sue amiche di possedere il record di “figlia con il maggior numero di ossa rotte negli anni”. Il numero era circa 70, per la cronaca.
Notando l’espressione di dolore dipinta sul mio volto, Maura strinse simpaticamente la mia mano.
“Ti hanno investita davanti ai miei occhi. O meglio, ti sei lanciata contro una macchina davanti all’hotel da cui stavo uscendo, quindi mi sono proposta di accompagnarti… sono un medico.” Maura era visibilmente nervosa, in imbarazzo.
“L’uomo che ti ha investita si chiama Christian, ed è desolato. È rimasto qui fuori tutto il giorno, l’ho convinto poco fa a tornare a casa. Verrà domattina.” Ecco, ora era più a suo agio. Non stava più parlando di se, il territorio era neutrale. Perché era li? Cosa ci faceva di fianco al mio letto, nella mia stanza d’ospedale?
“Perché ti sei buttata in mezzo alla strada? Cosa è successo?” Mi domandò direttamente.
Tu, tu sei successa. Dopo così tanti anni, tu finalmente sei successa. Ma non riuscivo a dire queste semplici parole, la mia gola si rifiutava di collaborare. Bruciava.
E Maura non capì. Non capì che mi stavo sforzando di parlare, di dirle che la ricordavo, che era lei la ragione di tutto. Maura non capì. Interpretò la mia agitazione come disagio. Si guardò intorno, e riuscivo a leggerle sul volto le domande che passavano per la sua mente. Aveva sbagliato tutto? Aveva insistito per accompagnare una sconosciuta che nemmeno si ricordava di lei? Aveva presuntuosamente pensato di essere la causa dell’incidente, quando in realtà non era stato niente più di questo, un incidente? Non si ricordava di lei?
D’un tratto Maura si alzò dalla sedia.
“I tuoi genitori stanno arrivando. Hanno accompagnato giù Christian. Non volevano andare a casa, ormai è mezzanotte…”
Il panico si impossessò di me. Stava andando via? Dove andava? Avrei dovuto passare altri undici anni della mia vita a cercarla?
“Io..” Maura sembrò voler aggiungere qualcosa, ma tre figure fecero improvvisamente capolino sulla porta. Mamma, Tommy e Frankie avevano la preoccupazione dipinta sul volto.
“La mia bambina!” Strillò mia madre, e tutti e tre corsero attorno al mio letto, abbracciandomi e tempestandomi di domande. Sentii pian piano la mano di Maura che si allontanava dalla mia, mentre Tommy mi tempestava di baci.
“Eravamo così preoccupati Janie, ti metti sempre nei guai!”
Non riuscivo più a vedere Maura. I miei occhi avevano goduto della sua immagine per troppo poco tempo, erano tornati ad essere vuoti, esattamente come prima. Prima che la incontrassi, prima che la ritrovassi.
Il ghiaccio si era impossessato della mia mano. Maura? Dov’era andata? I volti così noti della mia famiglia mi circondavano, ma ne mancava uno.
Maura non era più nella stanza.
Che fosse stata solo un’illusione? La più spettacolare della allucinazioni?
Convegno di medicina forense.
“Alza gli occhi.”
“Apri gli occhi, ti prego.”
 
Jane scattò improvvisamente a sedere sul letto d’ospedale. Frankie cercò di bloccarla tra le sue braccia, ma Jane era più forte. Lo era sempre stata.
“Giù, stai giù.”
“Jane, tesoro, cosa succede?” La voce di Angela era allarmata.
“Stai cercando la dottoressa?” Domandò innocentemente Tommy.
La dottoressa. “Sono un medico.”
Allora era stata davvero li. Esisteva davvero.
Con un gesto secco, Jane strappò gli aghi che aveva attaccati al polso e all’avambraccio. Spingendo con un braccio Tommy e con le gambe Angela, Jane si girò sul letto, le gambe penzoloni da un lato.
Era pronta a scendere.
Ignorando la fitta lancinante al fianco e il dolore al braccio semi addormentato, Jane si spinse giù dal letto, accompagnata da un gridolino della madre.
Barcollando, si appoggiò al corpo di Frankie, mimando con le labbra il nome di Maura. La gola le faceva troppo male. Dopo i primi passi incerti, Jane raggiunse la porta, spingendo di lato Tommy e bloccando con un tavolino colmo di medicamenti un infermiere.
Passi tentennanti lasciarono spazio a una corsetta appena accennata lungo il bianco corridoio d’ospedale, che Jane percorse nella speranza di scorgere il suo angelo. Ma lei non c’era. Non era seduta su una sedia della sala d’aspetto, non aveva lo sguardo perso oltre una finestra.
Jane trovò Maura appoggiata ad un muro, la testa tra le mani, il corpo scosso da singhiozzi imbarazzati e silenziosi. Incapace di parlare, Jane emise un basso grugnito che zittì tutto il personale che la stava inseguendo lungo il corridoio. Gli occhi di Maura si alzarono, verdi come le più belle colline nelle più belle primavere.
La donna percorse a passi sicuri lo spazio che la separava da Maura, e una volta di fronte a lei, le circondò i fianchi con le mani doloranti e ferite, affondando la testa nei morbidi capelli dell’angelo che per così tanto tempo aveva amato in silenzio. Pian piano le mani calde di Maura si aprirono, circondando il collo di Jane, che gentilmente la sollevò da terra, lasciandosi circondare i fianchi con le sue gambe. Su un polpaccio era chiaramente visibile una lunga cicatrice.
“Pensavo non ti ricordassi.”
Jane annusò tutto il suo profumo. Oh, come superava tutto quello che si era immaginato di lei. Il suo corpo, la sua morbidezza, il suo profumo. Aveva per così tanti anni fantasticato su quella ragazza misteriosa che era persino arrivata a credere che non fosse reale. Ma era reale. Il dolore che le perforava le costole, la cicatrice che aveva accarezzato sul polpaccio di Maura, la gamba che chiedeva di non sopportare così tanto peso, tutto quanto era reale. Maura strinse il corpo ferito di quella donna con tutta la forza che poteva, comprimendo i polmoni, provocando l’uscita di qualche goccia di sangue dai buchi da cui gli aghi erano stati violentemente strappati.
Jane appoggiò la schiena dolorante al muro, sospirando, la testa ancora immersa nei capelli di Maura. Quella donna la ricordava, esattamente come lei ricordava Maura. Stringeva quel corpo esattamente come aveva fatto quella notte di undici anni prima, l’unica differenza era che ora il corpo rispondeva al suo abbraccio, e aveva un nome.
Quanto aveva dovuto lottare per il suo nome, Jane. Ma ora aveva tutto. Aveva quella donna tra le sue braccia, la sentiva avvinghiata al suo corpo. Gentilmente, si allontanò dal suo collo. La gola di Jane era infuocata, e il pensiero la fece sorridere. Anche la gola di Maura era dolorante, la prima volta che si erano incontrate.
“Maur…” Jane soppesò ogni lettera, come se fossero il dono più grande che il mondo le avesse mai fatto.
“…ah.” Concluse, fissando gli occhi dentro a quei laghi verdi. Appoggiata ad un muro d’ospedale, ogni osso del suo corpo che chiedeva pietà, Jane capì cosa significava quella frase, basta uno sguardo a fare stare meglio qualcuno.
Lo sguardo di Maura guariva ogni suo dolore. Sorridendo compiaciuta, Jane annuì. Alle orecchie le arrivavano voci confuse di infermieri e dottori, costole rotte, braccio, danni permanenti, flebo. Ma niente le interessava. Chi avrebbe potuto capire? Una sconosciuta, due donne, undici anni. Jane non era mai stata così felice.
   
 
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