Non
riuscii a mantenere la promessa,
non riuscii a dimenticarmi di quell’incontro; qualcosa si era
incrinato nel mio
animo, incrinato per non dire spezzato, qualcosa che era nella fascia
più
profonda delle mie idee. Non ero ancora in grado di capacitarmi di come
Sasori,
grande sostenitore dell’arte eterna, possa avere cancellato
tutto per un
banalissimo motivo di “dimenticanza”. Quando gli
dissi che capivo i suoi
motivi, che capivo cosa l’aveva indotto ad agire
così, mentivo e la cosa
critica era che non me ne ero accorto, ero convinto di compatirlo.
Forse,
anzi sicuramente, è stato
questo l’errore che ha influito di più sul mio
diretto futuro; lo lasciai, no,
per essere precisi lo abbandonai nella sua nuova vita di
“contemplatore della
natura” lasciandogli solo uno squallido bigliettino strappato
da un libro di
cucina, convinto che il mio animo si era dato una spiegazione per
quello che
avevo sentito e, all’apparenza, approvato.
Nella
mia confusa e azzardata
migrazione verso nuove terre decisi di muovermi verso Ovest; se la fuga
verso
il Nord mi aveva portato a distruggere parte delle mie convinzioni e
quella
verso il Sud sarebbe stato un ritorno tra le braccia di un passato che
avevo
deciso di rifiutare, mi spinsi verso l’Ovest, senza sapere
cosa vi fosse, cosa
mi aspettava. Ma era un rischio che ero disposto a correre.
Fui
fortunato. L’Ovest era una
gigantesca regione che si estendeva a perdita d’occhio,
dominata da regni
modesti composti da piccoli villaggi agricoli e qualche
città qua e là che
spiccava solo per il numero degli abitanti, più alto di un
qualsiasi
villaggetto ai piedi delle colline. Fu in un villaggio di pastori dove
trovai
un piccolo appartamento in una specie di pensione; mi pagavo il misero
affitto
facendo qualche lavoretto manuale un giorno per uno sconosciuto, un
giorno per
qualcun altro… scoprii di essere piuttosto bravo come
falegname e con le
attività agricole di base, come annaffiare le piante.
Passò
si e no un mese prima che il
tormento del mio animo da sussurro si fece prima voce e poi urla. Le
parole di
Sasori mi riecheggiavano in mente, ripetendosi sempre più
intensamente come
un’eco diabolico si ripete nella mente dei folli. La notte
era diventata un
momento terribile per me, un momento in cui i miei incubi ad occhi
aperti erano
costruiti sulle mie riflessioni, sulle mie astrazioni che alla lunga
diventavano assurde e rasentavano il confine con la pazzia. Cominciai a
rinunciare al sonno, a uscire e vagare per il villaggio tutta la notte,
a caso,
fino a quando il mio corpo non implorava il riposo, solo in quel
momento mi
trascinavo verso casa e, sempre in quel momento, di solito, i primi
raggi
scarlatti del sole insanguinavano le colline e i contadini iniziavano a
svegliarsi.
Come
quel giorno in cui casualmente
incontrai Sasori, anche in una di quelle notte di vagabondaggio
ritrovai un
pezzo del mio passato, un pezzo piuttosto piccolo e insignificante ai
miei
occhi, ma che, col senno di poi, si sarebbe trasformato un incontro
piuttosto
rilevante per me, non so per quello che mi ha incontrato.
Avevo
già la sensazione che quella
sera sarebbe stata diversa, una sorta di “sesto
senso” che spesso consideravo
frutto della mia superficialità, ma che dava semplicemente
suggerimenti
importanti che io ero troppo stupido per cogliere, questa era la
realtà dei
fatti. Di solito, quelle sere, insieme a me usciva anche un vento
gelido che
proveniva da non so dove e che mi accompagnava fino ai primi raggi del
sole;
ero talmente entrato in confidenza con quel venticello che ormai avevo
preso
l’abitudine di parlarci e di salutarlo quando entravo e
uscivo di casa.
Ovviamente gli diedi anche un nome e tutti sanno che quando dai un nome
ad una
cosa, qualunque cosa essa sia, ti ci affezioni; il mio accompagnatore
notturno,
ormai lo consideravo tale, l’avevo chiamato Edmund.
Ora,
so che dare un nome maschile a
un “accompagnatore notturno” suona strano,
specialmente se a farlo è un uomo,
sarebbe stato più logico che so, chiamarlo Guendalina o
Sigismunda, così avevo
l’illusione di avere una donna al mio fianco. Ma il vento
è un uomo e poi, lo
ammetto, non di rado durante quelle passeggiate notturne avevo avuto
anche
dubbi sui miei “gusti”, se posso chiamarli
così; non mi vergogno più di
ammetterlo tra me e me, ma non lo farò mai davanti ad una
persona estranea, al massimo
lo dirò ad Edmund.
Ecco,
era l’unica notte in cui Edmund
non venne a trovarmi; mi sentivo un imbecille a parlare da solo senza
nessuno
intorno che giocherellava con le tapparelle fissate male o piegava le
piante,
così vagavo per la città in silenzio, chiedendomi
cosa Edmund aveva da fare di
così importante quella sera.
Camminai
verso la periferia del
paese, dove il contadino più ricco del villaggio, un tale
Rister, Reistem o
qualcosa di simile aveva costruito una bella villetta dove abitava lui
e i suoi
quattro o cinque figli, non ricordo. Vidi il tetto della casa in
lontananza e
mi venne subito in mente il volto dell’uomo, sempre cortese e
di buon umore che
la mattina si informava sulle condizioni di vita di chiunque gli
passasse a
tiro, consigliando azioni di ogni tipo. Era ormai talmente tanto tempo
che
abitava lì che nessuno si ricordava più se Rister
(o Reistem) era il suo nome,
il suo cognome o un soprannome; tutti si ricordavano della sua
primogenita,
però, una gran bella ragazza che anche io ricordavo con
piacere.
Ah,
mi distraggo troppo! Stavo
dicendo… ah, sì. Mi avvicinai alla casa quando
vidi un ombra scivolare nel
giardino, avvicinarsi alla porta d’ingresso, aprirla con
facilità e sparire nel
buio all’interno della casa. Una decina di spari a breve
distanza, qualche
figlia che urlava, una colluttazione poi di nuovo il silenzio.
Nessuno
aveva potuto sentire, quella
casa era troppo lontana dal paese perché qualcuno potesse
aver sentito il caos
che si era generato. Non volli rimanere immobile come una statua ad
aspettare
Edmund e corsi verso la casa; scavalcai il cancello e a grandi passi mi
fiondai
nell’ingresso, dove mi scontrai con qualcosa di grosso che
non doveva essere
lì, in mezzo al corridoio.
Il
mio orecchio appoggiato contro
l’ostacolo mi permise di avvertire un flebile respiro
provenire dall’ombra
contro la quale mi ero scontrato; l’immobilità
dell’uomo, il suo respiro
regolare mi fecero capire immediatamente che mi ero appena scontrato
con
l’attentatore di Rister e questa cosa mi
paralizzò, facendomi gelare il sangue
nelle vene.
Poi,
il miracolo; il mio orecchio
contro il petto dell’uomo mi permise di avvertire
un’anomalia in lui,
un’anomalia che io conoscevo bene. Uno, due, tre,
quattro… quattro diversi
battiti cardiaci che ogni tanto si muovevano senza sincronia. Tirai un
sospiro
di sollievo e anche lo sconosciuto lo fece, quando pronunciai il suo
nome,
Kakuzu.
Ciao a tutti^^
In primo luogo vi ringrazio per
aver letto questo
capitolo!! Anche se è l’ultimo ad essere stato
scritto, si inserisce
esattamente tra “From here to eternity” e
“Dance of Death”. (se non vi trovate
con la trama, meglio dare un occhiata a “From here to
eternity”^^)
Oltre ad avere lo stesso tema in
comune degli altri
due, hanno anche i titoli ispirati a canzoni degli Iron Maiden, che a
me
piacciono molto u.u (alla fine del racconto spiegherò
perché il titolo di
questo racconto è “Correndo in silenzio, correndo
in profondità”.
Detto questo, alla prossima^^