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Autore: BehindInfinity    06/11/2008    2 recensioni
Terzo racconto basato sul "ritrovo" dei membri di Alba creduti morti, secondo per la scala cronologica della raccolta. Deidara, dopo essere rimasto molto scosso dall'incontro con Sasori, fugge di nuovo. La sua nuova vita all'inizio sembra fatta apposta per lui, ma non ci vorrà molto prima che si accorga dello squallore in cui ha scelto di vivere. In una situazione molto critica, troverà una soluzione in un altro incontro, che all'inizio gli sembrerà insignificante, ma...
Genere: Generale, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Deidara, Kakuzu
Note: Alternate Universe (AU), What if? (E se ...), Raccolta | Avvertimenti: nessuno
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Non riuscii a mantenere la promessa, non riuscii a dimenticarmi di quell’incontro; qualcosa si era incrinato nel mio animo, incrinato per non dire spezzato, qualcosa che era nella fascia più profonda delle mie idee. Non ero ancora in grado di capacitarmi di come Sasori, grande sostenitore dell’arte eterna, possa avere cancellato tutto per un banalissimo motivo di “dimenticanza”. Quando gli dissi che capivo i suoi motivi, che capivo cosa l’aveva indotto ad agire così, mentivo e la cosa critica era che non me ne ero accorto, ero convinto di compatirlo.

Forse, anzi sicuramente, è stato questo l’errore che ha influito di più sul mio diretto futuro; lo lasciai, no, per essere precisi lo abbandonai nella sua nuova vita di “contemplatore della natura” lasciandogli solo uno squallido bigliettino strappato da un libro di cucina, convinto che il mio animo si era dato una spiegazione per quello che avevo sentito e, all’apparenza, approvato.

Nella mia confusa e azzardata migrazione verso nuove terre decisi di muovermi verso Ovest; se la fuga verso il Nord mi aveva portato a distruggere parte delle mie convinzioni e quella verso il Sud sarebbe stato un ritorno tra le braccia di un passato che avevo deciso di rifiutare, mi spinsi verso l’Ovest, senza sapere cosa vi fosse, cosa mi aspettava. Ma era un rischio che ero disposto a correre.

Fui fortunato. L’Ovest era una gigantesca regione che si estendeva a perdita d’occhio, dominata da regni modesti composti da piccoli villaggi agricoli e qualche città qua e là che spiccava solo per il numero degli abitanti, più alto di un qualsiasi villaggetto ai piedi delle colline. Fu in un villaggio di pastori dove trovai un piccolo appartamento in una specie di pensione; mi pagavo il misero affitto facendo qualche lavoretto manuale un giorno per uno sconosciuto, un giorno per qualcun altro… scoprii di essere piuttosto bravo come falegname e con le attività agricole di base, come annaffiare le piante.

Passò si e no un mese prima che il tormento del mio animo da sussurro si fece prima voce e poi urla. Le parole di Sasori mi riecheggiavano in mente, ripetendosi sempre più intensamente come un’eco diabolico si ripete nella mente dei folli. La notte era diventata un momento terribile per me, un momento in cui i miei incubi ad occhi aperti erano costruiti sulle mie riflessioni, sulle mie astrazioni che alla lunga diventavano assurde e rasentavano il confine con la pazzia. Cominciai a rinunciare al sonno, a uscire e vagare per il villaggio tutta la notte, a caso, fino a quando il mio corpo non implorava il riposo, solo in quel momento mi trascinavo verso casa e, sempre in quel momento, di solito, i primi raggi scarlatti del sole insanguinavano le colline e i contadini iniziavano a svegliarsi.

Come quel giorno in cui casualmente incontrai Sasori, anche in una di quelle notte di vagabondaggio ritrovai un pezzo del mio passato, un pezzo piuttosto piccolo e insignificante ai miei occhi, ma che, col senno di poi, si sarebbe trasformato un incontro piuttosto rilevante per me, non so per quello che mi ha incontrato.

Avevo già la sensazione che quella sera sarebbe stata diversa, una sorta di “sesto senso” che spesso consideravo frutto della mia superficialità, ma che dava semplicemente suggerimenti importanti che io ero troppo stupido per cogliere, questa era la realtà dei fatti. Di solito, quelle sere, insieme a me usciva anche un vento gelido che proveniva da non so dove e che mi accompagnava fino ai primi raggi del sole; ero talmente entrato in confidenza con quel venticello che ormai avevo preso l’abitudine di parlarci e di salutarlo quando entravo e uscivo di casa. Ovviamente gli diedi anche un nome e tutti sanno che quando dai un nome ad una cosa, qualunque cosa essa sia, ti ci affezioni; il mio accompagnatore notturno, ormai lo consideravo tale, l’avevo chiamato Edmund.

Ora, so che dare un nome maschile a un “accompagnatore notturno” suona strano, specialmente se a farlo è un uomo, sarebbe stato più logico che so, chiamarlo Guendalina o Sigismunda, così avevo l’illusione di avere una donna al mio fianco. Ma il vento è un uomo e poi, lo ammetto, non di rado durante quelle passeggiate notturne avevo avuto anche dubbi sui miei “gusti”, se posso chiamarli così; non mi vergogno più di ammetterlo tra me e me, ma non lo farò mai davanti ad una persona estranea, al massimo lo dirò ad Edmund.

Ecco, era l’unica notte in cui Edmund non venne a trovarmi; mi sentivo un imbecille a parlare da solo senza nessuno intorno che giocherellava con le tapparelle fissate male o piegava le piante, così vagavo per la città in silenzio, chiedendomi cosa Edmund aveva da fare di così importante quella sera.

Camminai verso la periferia del paese, dove il contadino più ricco del villaggio, un tale Rister, Reistem o qualcosa di simile aveva costruito una bella villetta dove abitava lui e i suoi quattro o cinque figli, non ricordo. Vidi il tetto della casa in lontananza e mi venne subito in mente il volto dell’uomo, sempre cortese e di buon umore che la mattina si informava sulle condizioni di vita di chiunque gli passasse a tiro, consigliando azioni di ogni tipo. Era ormai talmente tanto tempo che abitava lì che nessuno si ricordava più se Rister (o Reistem) era il suo nome, il suo cognome o un soprannome; tutti si ricordavano della sua primogenita, però, una gran bella ragazza che anche io ricordavo con piacere.

Ah, mi distraggo troppo! Stavo dicendo… ah, sì. Mi avvicinai alla casa quando vidi un ombra scivolare nel giardino, avvicinarsi alla porta d’ingresso, aprirla con facilità e sparire nel buio all’interno della casa. Una decina di spari a breve distanza, qualche figlia che urlava, una colluttazione poi di nuovo il silenzio.

Nessuno aveva potuto sentire, quella casa era troppo lontana dal paese perché qualcuno potesse aver sentito il caos che si era generato. Non volli rimanere immobile come una statua ad aspettare Edmund e corsi verso la casa; scavalcai il cancello e a grandi passi mi fiondai nell’ingresso, dove mi scontrai con qualcosa di grosso che non doveva essere lì, in mezzo al corridoio.

Il mio orecchio appoggiato contro l’ostacolo mi permise di avvertire un flebile respiro provenire dall’ombra contro la quale mi ero scontrato; l’immobilità dell’uomo, il suo respiro regolare mi fecero capire immediatamente che mi ero appena scontrato con l’attentatore di Rister e questa cosa mi paralizzò, facendomi gelare il sangue nelle vene.

Poi, il miracolo; il mio orecchio contro il petto dell’uomo mi permise di avvertire un’anomalia in lui, un’anomalia che io conoscevo bene. Uno, due, tre, quattro… quattro diversi battiti cardiaci che ogni tanto si muovevano senza sincronia. Tirai un sospiro di sollievo e anche lo sconosciuto lo fece, quando pronunciai il suo nome, Kakuzu.

 

 

Ciao a tutti^^

In primo luogo vi ringrazio per aver letto questo capitolo!! Anche se è l’ultimo ad essere stato scritto, si inserisce esattamente tra “From here to eternity” e “Dance of Death”. (se non vi trovate con la trama, meglio dare un occhiata a “From here to eternity”^^)

Oltre ad avere lo stesso tema in comune degli altri due, hanno anche i titoli ispirati a canzoni degli Iron Maiden, che a me piacciono molto u.u (alla fine del racconto spiegherò perché il titolo di questo racconto è “Correndo in silenzio, correndo in profondità”.

 

Detto questo, alla prossima^^

  
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