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Autore: Melitot Proud Eye    07/11/2008    1 recensioni
«Allora, perché mi hai chiamato così? “Kenji” è “la via della spada”, hai dimenticato? Perché?»
Non è mai facile trovare il giusto mezzo. E bisogna fare attenzione a non perdere qualcosa d'importante nel tentativo.
[8-11-2011: inizio edit della storia - primo capitolo]
Genere: Azione, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo VIII
La mano della ragione




“Anche un viaggio di mille leghe comincia con un passo”.

Proverbio giapponese.



 
Nove giorni.
Nove giorni che mancava da casa, e non si era mai sentito così bene.
Kenji aspirò avidamente l’aria di montagna, sbloccando le spalle, le braccia, le ginocchia con torsioni che solo i giovani possono eseguire. Hiko aveva cominciato ad istruirlo solo da due giorni, ma lui si sentiva già un’altra persona. Sparite le incertezze, spariti gli errori, stava imparando come non aveva mai imparato. Gli piaceva. Si sentiva bene, fermamente diretto a una meta senza più deviazioni forzose.
E Hiko non era poi così male, se lo si sapeva prendere per il verso giusto. Molte delle sue forze le assorbiva il piccolo Kazuma…
In quel momento lo vide uscire dalla capanna, una ramazza in mano.
«To’» gliela lanciò. «Renditi utile.»
Poi se ne andò.
Certo, il più delle volte era un gran bastardo.
Kenji storse la bocca e s’avviò verso il battuto dell’ingresso, mordendosi la lingua.
Non dire niente, ingoia, ingoia.
Hiko aveva terminato di correggere le mosse che già sapeva. Oggi avrebbe dovuto cominciare le cose nuove, le più succulente ― come il Kuzu Ryu Sen o magari addirittura il Ryu Mei Sen. Beh, forse non una delle tecniche di successione, riconobbe, ma non si sapeva mai.
Cominciò a spazzare via foglie e sassi, accompagnato dai suoni della casa. La sua mente divagò presto.
Okon e il piccolo Kazuma erano saliti dalla città per qualche giorno.
Pensandoci, non era rimasto abbastanza scioccato al trovare Hiko sposato. Dai racconti (e dalla prima esperienza) avrebbe potuto giurare sull’inesistenza di una donna adatta a lui. O meglio, di una donna che si adattasse a lui… Non l’avesse conosciuta bene, avrebbe detto che zia Okon era una santa.
E Kazuma: dèi santi, il demonio aveva figliato. Il bambino però sembrava normale, forse la madre sarebbe riuscita a salvarlo. Colse uno dei suoi gridolini e dedusse che stava giocando.
Gli ricordava molto Shinta. Capelli neri, visetto tondo e una certa propensione per il chiasso.
Il figlio del maestro. Chissà se suo padre lo sapeva.
Il pensiero lo ributtò indietro nel tempo e nello spazio e, per un istante, rimase immobile.
Chissà cosa stava facendo la sua famiglia. Lo stava cercando? Ci aveva rinunciato? Lo aveva… già dimenticato?
Era un po’ strano che non si fossero fatti vedere a Kyoto. O che lo zio Aoshi non li avesse avvisati (ormai era tornato e Kenji non aveva mai contato troppo sulla possibilità di convincerlo ― anche perché, dopo nove giorni, si dava per scontato che la famigerata rete d’informazione degli Oniwabanshu avesse scoperto della sua illecita fuga).
E non era venuto nessuno.
Hiko lo stava coprendo? Ne dubitava.
Piuttosto, sospettava che sapesse tutto. Se c’era qualcuno che doveva conoscere l’avversione di suo padre per l’insegnamento dell’Hiten, quello doveva essere lui.
«Ma non mi mancano» sbottò, riprendendo a spazzare.
Figuriamoci.
In fondo, un giorno sarebbe andato per la propria strada, no? Anzi, l’aveva già fatto. Non poteva certo restare attaccato al kimono della mamma per sempre.
Si chiedeva solo cosa stessero facendo.
Rivide sua madre venirgli incontro per abbracciarlo, mentre suo padre giocava con Shinta spruzzandogli l’acqua del bucato, poi si scrollò e mise più energia con la ramazza.
Ah, per favore.
Si chiedeva come stessero, tutto qui. Non era certo colpa sua se nessuno di loro lo apprezzava per quel che era veramente.
«Ti ho detto che non lo voglio sapere!»
A nessuno importava cosa pensasse.
«Perché dovrei? Anche se mi costa ammetterlo, sei una persona disonesta.»
Il manico gli si spezzò nel pugno.
«Merda.»

«Yahiko, ti affido la palestra.»
«D’accordo. Non preoccupatevi. Abbiate cura di voi, piuttosto… e buona fortuna.»
Megumi si trovò a concordare con la raccomandazione del giovanotto. Distolse per un attimo lo sguardo da Sano, lasciandogli Sozou, e lo posò sulla coppia in partenza.
Sia Kenshin sia Kaoru (ma soprattutto Kenshin) avevano un aspetto terribile, con occhiaie violacee a infossar loro gli occhi. Erano quasi due giorni che Shinta mancava all’appello e quello precedente avevano corso come matti da un capo all’altro della città, frugando, chiedendo, avvisando conoscenti.
E nonostante tutti avessero dato una mano, il piccolo non era stato trovato.
Poi, un barlume di speranza.
Qualcuno aveva rintracciato il circo europeo, che dalla disastrosa partenza sembrava svanito nel nulla. E davanti a un vecchio manifesto, quello strappato dai muri lungo il canale, Sozou aveva avuto un brivido.
S’era ricordato d’essersi sentito spiato parecchio, nel periodo in cui il circo era stato a Tokyo. No, non era stata un’impressione. Era successo anche ad alcuni suoi amici.
Uno di loro, figlio del vicinato, fu chiamato. Le sue parole gettarono un’ombra oscura sulla coincidenza.
Qualche giorno prima era scomparsa anche una bambina e Tatsuya e la sua ghenga, che la tormentavano da un po’, erano stati trovati morti in un vicolo.
Forse avevano visto qualcosa che non dovevano vedere. Magari le persone che la portavano via.
Le cose s’erano poi chetate con la partenza del circo. La polizia sapeva, ma teneva tutto segreto. A loro, raccomandò, lui non aveva detto niente: la sua via era stata diffidata dallo spargere la voce, c’erano indagini in corso.
Poi era sgattaiolato via, accompagnato da un fratello maggiore.
Inutile raccontarsi la visita all’ispettorato, pensò Megumi, passandosi una mano stanca fra i capelli ― le grida, i pianti e le minacce echeggiavano ancora nei suoi poveri timpani.
Era stata la prima volta che aveva visto Kenshin insultare l’ispettore Urayama. Il pover’uomo non era stato mai avvisato della scomparsa di Kenji e non aveva ancora controllato le nuove denunce (era stato assente un giorno a causa di indisposizione). Ignorava che Shinta Himura fosse tra gli scomparsi.
Appena aveva visto e saputo, aveva subito dato loro le più confidenziali informazioni.
Non sapeva molto, aveva premesso. Ma il caso era più ampio di quel che pensassero, perché negli ultimi anni molti bambini erano scomparsi. Dapprima avevano fatto il possibile per trovarli subito, diramando annunci e informazioni.
Poi alcuni avevano cominciato a ricomparire. Nei quartieri a luci rosse.
Erano tutti inorriditi.
Sì, aveva confermato Urayama, si trovavano alle prese col mercato di schiavi.
Adesso il caso era un mano ad abili ufficiali e si cercava di risalire ai mandanti tanto quanto ai materiali esecutori, ma non si poteva fare senza cambiare tattica. Da qui la segretezza.
A quel punto il signor Ken aveva sostenuto Kaoru, sebbene lui stesso non sembrasse molto solido sulle gambe.
Megumi sospirò, sperando che mangiassero durante il viaggio. Al ritorno i loro figli avrebbero avuto bisogno di due genitori, non di due cadaveri.
Carezzò la testa di Sozou e dovette trattenersi per non stringerlo forte. Non sapeva cosa avrebbe fatto, se fosse scomparso anche lui.
E a proposito: Urayama sosteneva che ora si potesse stare tranquilli, ma per buona misura Yahiko e Tsubame avevano invitato lei e il bambino a stare da loro.
Megumi tornò dal marito e lo baciò.
«Buon viaggio.»
«Non preoccuparti» fu la risposta. Sano si strapazzò Sozou contro il fianco.
«Ounf!»
«Tornerò vittorioso. Questo significa anche un pugno destro fracassato, però, lo sai» l’umorismo suonò particolarmente smorzato. «E tu, scricciolo, metti su un po’ di muscoli e proteggi tua madre.»
«Contaci, papà.»
«Cerca di non far fare delle sciocchezze a quei due» sussurrò, preoccupata. «Soprattutto a Ken… sai a cosa mi riferisco.»
Infatti l’uomo portava un involto oblungo in spalla.
Sanosuke annuì.
Certo che, se la situazione non fosse stata così disperata, sarebbe stato comico raccomandare a lui di badare agli altri.
Megumi salutò brevemente Kenshin, Kaoru e Inoi (che non avevano voluto lasciare per nulla al mondo) e rimase a guardarli mentre salivano sul treno. A farle compagnia c’erano suo figlio, i Myojin e l’anonimità della stazione.
La locomotiva fischiò.
Poi partì.
I passeggeri salutarono una volta dal loro scompartimento, finché non divennero troppo piccoli per poterli distinguere.
Megumi sospirò.
Fa’ che tornino sani e salvi. Tutti insieme. Quei due non meritano una tragedia così grande.

Il mondo aveva perso ogni colore.
Kaoru fissò il paesaggio fuori del finestrino, senza vederlo.
Tutto quello cui riusciva a pensare erano i suoi bambini. Il suo Kenji, lontano da casa da quasi dieci giorni, impegnato a diventare loro estraneo. Il suo Shinta, che voleva vedere, stringere forte e non lasciare mai più, mai più, mai più.
Il suo Kenji, che quell’ultima sera le aveva dato la buonanotte con gentilezza, nonostante l’avesse maltrattato.
Il suo Shinta, troppo piccolo, troppo indifeso per essere strappato alle sue braccia, gettato in mano ad aguzzini senza nome.
Non poteva dar torto a Ken per essersene andato.
Era una madre orribile.
No, no, non era nemmeno una madre.
Una vera madre non avrebbe mai allontanato il figlio maggiore con indifferenza… e non si sarebbe mai fatta rubare il minore sotto il naso, in pieno giorno.
Era una persona spregevole.
Kaoru si posò una mano sugli occhi e cominciò a piangere.
Inoi allora s’alzò e le sedette in braccio, nascondendo il viso nella sua spalla.

Ai singhiozzi della moglie, Kenshin avvertì una familiare agonia al petto.
Si sentiva morire. Barcollava sull’orlo del baratro in cui dodici anni prima s’era lasciato cadere, trafitto dalla vendetta di Enishi come il cuore del pupazzo nel dojo.
L’alito freddo di quel precipizio gli ghiacciava la pelle, tentandolo.
Ma non sarebbe caduto.
Non importava se il tempo era passato, se le sue gambe non erano più quelle di una volta, era pronto a giocarsi il tutto per tutto per riavere Shinta. E Kenji.
Ma chi cercherai per primo?
All’improvviso, la domanda traditrice. Kenshin strinse i pugni fino a vedersi sbiancare le nocche, sbigottito.
Poi chinò la testa in direzione della porta di legno, che chiudeva il piccolo scompartimento, lontano da Kaoru e Sanosuke.
Dèi, no.
Non potevano chiedergli di scegliere.
Non si poteva chiedere a un genitore di scegliere tra i propri figli!
Nessuno dei due aveva la precedenza sull’altro.
Però―
No, nessuno!
Sai che non è vero, affermò una voce, gelida. Non la sentiva da tanto tempo. La precedenza va al più debole. A quello che non sa e non può difendersi. E Kenji…
Kenji.
E’ con Hiko. E’ al sicuro.
Lo rivide in mezzo alla radura, giovane ed esultante, poi sconvolto, la spada caduta ai piedi.
«Papà, ascoltami!»
Perché non l’aveva fatto? Oh dèi, perché?
E perché quel ragazzo aveva dovuto intestardirsi su una cosa come l’Hiten?
E Shinta, coi suoi sorrisi sdentati, sempre pronto a giocare… non avrebbe più rivisto neanche lui?
Chinò il capo, appoggiando un gomito al bracciolo di legno, e con una mano strinse forte quella di Kaoru.

Aoshi chiuse la porta scorrevole del proprio ufficio, peraltro non molto diverso da una qualunque stanza dell’Aoiya, e vide che qualcuno usurpava il suo posto al tavolo nero.
Misao, naturalmente.
Accennò un minuscolo, impercettibile sorriso (uno che solo lei avrebbe potuto cogliere) e avanzò. Di solito non lo raggiungevano durante il lavoro, ma era stato lontano a lungo. Il piccolo Shiki lanciò un gridolino, indicandolo.
Misao si accorse di lui e lo salutò.
«Aoshi!»
«Non si indica col dito, Shiki» commentò lui.
La giovane donna lo guardò di traverso, storcendo la bocca.
«Ah, avanti, non fare il musone. Quest’adorabile bambino si sta solo divertendo, non è vero, piccolo dolce adorabile Shiki?» e strofinò il naso contro quello del figlio, facendolo scoppiare in una cascata di risa.
L’uomo roteò gli occhi, riconoscendo tra sé che erano davvero adorabili. Ma―
«Se continuate così, tu e Okina lo farete crescere imbecille.»
«Che cosa vorresti insinuare?!»
Già, dopotutto, lei era stata cresciuta da Okina…
Guardava altrove, offesa.
Da parte sua Aoshi scrollò le spalle (un gesto raro nel suo repertorio), le tolse Shiki e se lo issò in braccio. Immediatamente il bambino smise di trastullarsi e cominciò a osservarlo con grandi occhi seri, come sempre. Poteva restare delle ore a fissarlo. E il capo degli Oniwabanshu, nel vedere occhi acuti e brillanti come i propri, ogni volta si sentiva rassicurato.
Ah, forse in un prossimo futuro avrebbe avuto intorno maggior serietà.
Ma dopo si lasciò andare e posò sulla moglie uno sguardo intenso, che parlava poco di lamentele e molto di soddisfazione.
Ficcò una mano in tasca.
Un bigliettino scese svolazzando fino a Misao, che lo prese senza difficoltà.
«Arrivano questa sera.»
Lei si raddrizzò. «Davvero?»
«Sì.»
«Hai avvisato Hiko? Cosa vogliono fare con Kenji?»
Spostò Shiki sull’altro braccio, fissando un punto della parete esterna.
«Il problema non è il maggiore. E’ sotto la nostra protezione e non corre pericoli. Se sono furbi cercheranno subito il minore.»
«Il povero Shinta» mormorò Misao.
Sapeva che adorava il bambino (adorava tutti i bambini).  L’ultima visita a Tokyo l’aveva passata a coccolarselo in braccio.
Strinse i pugni, promettendo retribuzione ai responsabili.
«Siamo vicini a trovare il covo.»

Nel primo pomeriggio, dopo un pranzo delizioso preparato da Okon (fosse stata sua madre così brava!), Kenji indugiò presso il focolare della casupola, circondato da scaffali e casse stracolme di ceramiche. S’era alzato vento. Gli spifferi mescolavano nella stanza l’intenso odore della terracotta, spesso, dolciastro, e gli dava la nausea. Quasi quasi sperava che Hiko non lo allenasse.
Aveva scelto un periodo davvero stupido per diventare suo allievo. Qualche giorno e l’autunno era stato sostituito da un inverno precoce. Avrebbe dovuto muoversi in primavera… anche se le castagne di Kyoto erano buone.
Ma non ho proprio programmato la partenza.
Le sue speranze ebbero breve durata: poco dopo Hiko comparve sulla soglia e lo chiamò.
«Seguimi.»
Poi si addentrò nella foresta, cominciando a salire. Presto s’inerpicavano sul fianco della montagna, Hiko veloce, Kenji spesso impigliato in qualche stupido arbusto.
Oh, che palle.
Dove diavolo lo stava portando?
Un ramo spinoso scattò e gli graffiò la mano, facendolo sobbalzare. Imprecò sottovoce, mentre l’irritazione cresceva.
Nonostante si ripetesse d’aver fatto l’abitudine ai modi del maestro, in verità non ce l’avrebbe fatta neanche in un trilione di anni. Odiava sentirsi escluso dal piano A. E, se permettete, col freddo che faceva sapere la ragione di quell’uscita gli avrebbe fatto comodo.
Non era mai troppo tardi per ammutinarsi.
«Allora, si può sapere dove stiamo andando?»
Il maestro non rispose e accelerò il passo, aggirando un costone roccioso.
Quando Kenji lo imitò fu investito dal rumore assordante dell’acqua. S’irrigidì, schermandosi gli occhi.
C’era un’alta, stretta cascata che si gettava dalla sommità delle rocce e riempiva una gola rigurgitante di spuma. Un'unica, levigata piattaforma di pietra permetteva ai non natatori di avventurarsi nei pressi della magnifica attrazione. Sembrava esser stata usata per decenni, no, per secoli.
Hiko lo attendeva lì.
E Kenji ebbe un’illuminazione. Sì. Quello era il luogo che aveva visto allenarsi generazioni e generazioni di maestri, dal primo all’ultimo Seijuro Hiko, compresi i loro allievi. Se le cose stavano così, allora significava che voleva proseguire la sua istruzione?
Ma d’istinto sentì che mancava qualcosa. Il posto emanava uno strano sentore di sacro, di magico ― la sensazione di trovarsi innanzi all’intransigente tribunale della natura. Raggiunse il tredicesimo maestro e rimase al suo fianco, silenzioso, lasciando che milioni di goccioline gli pungessero la faccia.
E fu lentamente assorbito dalla vibrazione rimbombante della cascata, un’onda continua, ipnotica. Così, era come se il mondo non esistesse. C’erano solo lui e il suo corpo ― no, anzi.
Solo lui e i suoi pensieri.
E fu proprio allora che Hiko, finalmente, parlò, con una voce che sembrava emergere dall’acqua stessa.
«Perché vuoi apprendere l’Hiten?»
Rispose senza accorgersene.
«Perché mi piace.»
Nell’atmosfera surreale nacque una nota stonata.
«Non è una ragione sufficiente. L’Hiten Mitsurugi Ryu è una tecnica antica, nata senza padroni e destinata a non avere padroni. Men che meno il capriccio.»
Ah, adesso capiva.
L’aveva portato lì per sapere, per valutarlo ancora.
«Non c’è altro?»
Distolse gli occhi dalla cascata.
«Voglio aiutare la gente.»
«E il Kamiya Kasshin non ti basta? La sua filosofia non è “la spada che protegge”?»
Strinse i pugni.
«Non basta.»
«A chi? Alle persone? Alla tua ambizione?»
Kenji rivide l’uomo vestito di nero chino su Shinta e tremò.
«Ci sono ancora uomini troppo forti per il Kamiya Kasshin. E se non posso sconfiggerli, faranno del male.»
La voce di Hiko sembrò schernirlo.
«Un’altra minaccia dal passato di tuo padre?»
«No. Parlavo in generale.»
«Tutto qui?»
«Vorrei… vorrei anche» esitò, poi decise. Non era un’idea stupida, tutt’altro ― perché tacerla? «Vorrei che non andasse perduto. E’ una parte di noi e non credo a quelli che la dicono morta.»
La cascata tornò a riempire il silenzio.
Pian piano, Kenji sentì avanzare la sentenza. Il suo respiro accelerò.
Hiko apriva le labbra, impietoso.
«Ma anche così non è sufficiente. Non ti darò i segreti dell’Hiten Mitsurugi. Per ragioni del genere ti basta la scuola di tua madre, ragazzo.»
Fu riscosso dal suo torpore.
«No―»
«Soprattutto sapendo che tuo padre è contrario.»
Kenji si tirò un po’ indietro, il viso contorto. Tra la sorpresa e la conferma disincantata trovò il tempo d’arrabbiarsi.
Suo padre, sempre suo padre! Perché gli davano tutti retta? Persino il suo vecchio maestro!
«Lo sapevi fin dall’inizio.»
«Quelle briciole di messaggi avrebbero potuto convincere solo Misao Shinomori, te l’assicuro. Ma ho apprezzato l’intraprendenza.»
«Perché mi hai accettato come allievo, se lo sapevi?»
«So ancora riconoscere il talento, Kenji Himura.» L’uomo fece qualche passo verso il baratro della gola e lo guardò oltre la spalla, freddo. «Tu sei quasi dotato.»
A lui scappò un’irriverente, incredula pernacchia.
Quasi dotato?
«Non farmi ridere. Sono bravo e lo so benissimo. Nessuno raggiunge la perfezione in uno stile a nove anni. E nessuno avrebbe potuto imparare l’Hiten da autodidatta in così poco tempo, e così bene.» Fece un passo verso Hiko, alzando un pugno. «Insegnami! Finisci il lavoro e lasciami andare, se non vuoi più essere importunato non lo farò!»
L’uomo parve considerare le sue parole, le labbra piegate agli angoli.
«Di certo la stima di te stesso non ti manca.»
«Per favore.»
«E neanche le abilità con cui ammaliare un vecchio cultore della spada come me, è vero.»
Kenji lo incalzò, avvicinandosi ancora. Arrivò persino a chiedergli se doveva prostrarsi di nuovo.
Dopo essere arrivato sin lì, non poteva assolutamente lasciarsi respingere senza lottare.
«No» gli fu risposto.
«E allora cosa devo―»
«Niente.» Di punto in bianco, Hiko pareva deciso a lasciare il luogo. «Non puoi fare niente. Devo pensarci bene.»
Kenji spalancò la bocca, pronto a lottare.
Ma chiamarlo (o tentare di fermarlo) fu inutile: Hiko s’era volatilizzato come un fantasma.
Col cuore che batteva dolorosamente, Kenji rimase a guardare la cascata roboante, nascondendo le mani negli hakama. Poi imboccò la strada del ritorno, senza fretta.
Sperava di ricordarla.
Tornato al riparo degli alberi sentì il vento affievolirsi.
«Perché vuoi conoscere l’Hiten?»
Perché? Ah…
Sì, lo sapeva perché.
I motivi che aveva spiegato erano sinceri, ma ce n’era un altro, ben nascosto sotto la pila già segreta, troppo personale. Troppo vergognoso per uscir di bocca a una persona orgogliosa e tagliente come lui.
Si sarebbe sentito ridicolo (denudato) davanti agli occhi di tutti (di un uomo).
Non voleva dirlo a Hiko.
Ma allora, come continuare con l’Hiten?
Uscì dalla boscaglia in un punto piuttosto alto, trovandosi su quella che era una piccola sporgenza erbosa. Da lì poteva dominare tutta la città di Kyoto. Rimase senza fiato.
Doveva esser passato più tempo di quanto pensasse e ora la Città dei Mille Anni bruciava alla luce del tramonto, riverberato dai mattoni rossi dei tetti e dalle foglie secche.
Osservò con riverenza. Dalla vecchia capitale, in fondo, diramavano anche le sue radici. Si chiese come fosse ai tempi della gioventù di suo padre, quando imperversava la Bakumatsu e i samurai ancora cingevano alla vita due spade. Quanto era cambiato? Quanto era rimasto lo stesso? Una volta aveva sentito raccontare di quei tempi…
Il tempo in cui le strade si bagnavano di sangue tutte le notti, e teste mozzate rotolavano per ogni dove.
Scosse la testa, provando un brivido.
Sembrava impossibile. A guardarla, Kyoto era una dignitosa, ricca città nobil-borghese, trafficata di mercanti e turisti.
Ed era meglio così.
Accorgendosi che presto sarebbe venuto buio, s’affrettò a proseguire.

Al suo ritorno il fuoco del forno era acceso e la canna fumava copiosamente, ma di Hiko non c’era traccia.
Kenji girò intorno alla panciuta costruzione di calcestruzzo, allontanandosi dal sentiero, e scrutò i dintorni come se temesse un agguato. Poi scosse la testa.
Ah, per favore.
Individuò luce nella casupola e vi entrò.
Ad accoglierlo trovò zia Okon, impegnata tra tazze, cucchiai e un Kazuma più capriccioso del solito.
L’ambiente era pervaso dal buon odore del cibo.
«Kenji-chan! Eccoti, finalmente. Stavo cominciando a preoccuparmi.»
Sedette con lei al piccolo tavolo spartano, vicino alla parete più interna, e scrollò le spalle.
«Tuo marito mi ha mollato sui bricchi, zia.»
«Ah, lui è fatto così.»
La guardò un po’, scocciato.
Poi evitò uno spruzzo di zuppa.
«Hey.»
«Su, basta Kazu» protestò lei, maneggiando il figlio in modo da mettergli la cena fuori portata. «Non capisco perché faccia così» brontolò «ha solo quattro anni, d’accordo, però di solito si comporta bene.» A quel punto sorrise. «Kenji, ti ho tenuto in caldo la parte migliore, serviti. Scusa se non lo faccio io, ma come vedi…»
«Figurati.»
Col buco che si trovava nello stomaco, lamentarsi era fuori discussione.
«Il maestro non torna?»
«Ha detto che aveva da fare in città, così sono rimasta io ad aspettarti.»
Raccattò un cuscino tutto liso, sedendovi per allontanare il fondoschiena dal gelo del pavimento; poi cominciò a ruminare, più che un po’ irritato.
Ah, così adesso spuntavano impegni più importanti. Quell’uomo s’era divertito a rimembrare i vecchi tempi con lui, dandogli l’illusione di essere un allievo a tutti gli effetti, e ora si faceva venire i patemi d’animo…
Pah.
Pian piano, però, prese a masticare con calma e si godette il sapore della cena.
Kazuma ridacchiava, placato dalla madre.
Kenji scrutò nella ciotola, pensoso.
Era strano mangiare in una casa sconosciuta. Non tanto per il posto o l’arredamento, che comunque certo non gridavano ricchezza (nonostante Okon provenisse dal lussuoso, famoso Aoiya), quanto per la gente.
Era strano cenare senza dover fare a spintoni con Inoi per lo spazio vitale minimo, o prestare attenzione a Shinta che tendeva a rovesciare tutto quello che gli si metteva in mano. Mancavano anche le sgridate di sua madre, stanca per il baccano. Le occasionali intrusioni di zio Sano e Sozou, orfani della loro cuoca quando le epidemie colpivano. Mancava la pioggia che filtrava dal tetto sul tavolo (ma non gli spifferi, quelli no). E mancava un’altra persona, sempre sorridente…
Posò la tazza.
Basta.
«Non ne posso più.»
Notando l’occhiata interrogativa di Okon, s’affrettò a ringraziare, aggiungendo che era pieno ed era tutto molto buono.
Lei sorrise, guardandolo rassettare.
Quando Kazuma si fu addormentato nell’unico letto, sotto quattro strati di pellicce, gli toccò i capelli.
«Santo cielo, Kenji. Sembrano il nido di un corvo!»
«Uh?» fece lui, guardandola dal basso.
«Vieni un attimo qui, vicino al fuoco. Si può sapere che hai combinato? I tuoi bei capelli…»
«Beh, qualcuno mi ha portato fuori dal sentiero. Gli venisse un accidente.»
«Tsk tsk» fece lei, tirandogli un po’ un orecchio. «Non incolpare gli altri della tua disattenzione, Ken-chan.»
La sentì maneggiare vicino al nodo che gli legava la coda. Storse la bocca.
«Non sono un moccioso.»
«Oh, non vuoi che ti pettini?»
«Mi riferivo al “chan”. Si può sapere perché me lo appiccicate tutti quanti? Tra due anni sarò un adulto. Eppure sembra che nessuno se ne accorga.»
«Mm» fu la risposta.
Zia Okon era riuscita a slegare, o meglio, a liberare il laccio dalla massa incolta e stava saggiando la situazione. Udì una risata.
«Che c’è?» disse, acido.
«Sembra una criniera!» Si voltò a guardarla. «Dai, non ti arrabbiare. Come sei permaloso.» Gli pettinò gentilmente la frangia, irregolare come il resto. Il gesto ebbe l’immediato effetto di rilassarlo. «Ti va se te li spazzolo un po’? Ho con me la mia spazzola, sarà piacevole, vedrai. E ne hanno davvero bisogno.»
Acconsentì, ancora sulle sue.
Presto però il ritmico lavorio delle setole disciolse le ultime vestigia d’irritazione. Le mani della donna erano delicate, districavano senza tirare.
Chiuse gli occhi.
Il fuoco scoppiettava, mandando odore di resina. Quello e lo stormire della foresta lo cullavano lentamente nel sonno, come succedeva sempre a casa, a Tokyo.
A casa…
«Kenji» mormorò zia Okon, passando un pettine nei capelli ormai lisci.
«Mh.»
«Posso chiederti una cosa?»
«Mh.»
«Non senti nostalgia di casa?»
Era così stanco che non riuscì neanche a mettersi sulla difensiva.
Lasciò ciondolare la testa, finché lei non gliela raddrizzò gentilmente.
«Forse» concesse.
«Come, “forse”? O sì, o no. Sei proprio strano, Ken-chan.»
«Se rispondessi di sì, smetteresti con quel “chan”?»
Lei ridacchiò.
«Forse.»
Kenji si passò una mano sulla faccia, esasperato. Ma prima che potesse aggiungere altro, la donna raccolse per bene i suoi capelli nel pugno e sbirciò oltre la sua spalla.
«Ti faccio la coda o preferisci dormire senza?»
Quella domanda colpì a tradimento, perché era la stessa che suo padre gli rivolgeva ogni volta che lo pettinava, di sera, dopo il bagno. Quando era più piccolo, certo: ultimamente di rado.
Perché Kenji stava venendo su tutto il contrario di quello che avrebbe voluto, ecco il motivo.
Lui sarebbe diventato un assassino, no? Meglio tenerlo a distanza.
Strinse le mani sugli hakama, emettendo un verso strozzato.
Okon parve indecisa.
«Niente coda?»
«Niente, grazie.»
«D’accordo, come preferisci.»
Accettò passivamente la sua carezza e la guardò riporre le ultime cose, abbassare la fiamma della lampada ad olio sul tavolo e avviarsi verso il giaciglio.
Una volta inginocchiata, rimboccò le coperte al figlio.
«Sai, Kenji… è del tutto normale che ti manchi la tua famiglia. Non c’è niente di cui vergognarsi.»
«Io non―»
Okon gli rivolse un sorriso.
«Dici di essere quasi un uomo: è vero, ma sembra quasi che passato quel traguardo non dovrai più amare e aver bisogno di nessuno. La vita non va così, per fortuna. Noi cerchiamo le persone che amiamo e le persone che ci amano ci cercano, e se questo smette di succedere è molto triste.»
Lui rimase con la bocca socchiusa.
Ah, dannata. Gli stava dicendo proprio quello che voleva sentire.
«Però, l’hai riconosciuto anche tu» sussurrò, guardando nel fuoco. «Può succedere che le persone smettano di amarci.»
A quelle parole, la zia corrugò la fronte.
«Chi ha smesso di amarti, Kenji?»
Non rispose, odiando la pietra che gli pesava in gola.
Ah, basta! A che serviva pensarci? Ormai era convinto, discuterne non poteva ricucire più niente.
«Kenji.» La sentì muoversi, poi, subito dopo, gli stringeva le mani. «Credi che abbiamo smesso di volerti bene? Ma è impossibile, come fare il ghiaccio dal fuoco. So di cosa parlo, perché conosco i tuoi genitori e non ho mai visto persone tanto innamorate dei propri figli. La tua famiglia ti ama. Ti vorrà sempre accanto.»
«Allora perché non sono qui?» sbottò.
«All’inizio non sapevano dove fossi. Tuo padre è andato fino a Shinshu, credendoti col giovane Ota.»
«Ota?»
«Sì.»
Si sentì preso in giro.
«Non ci vogliono dieci giorni per andare e tornare da Shinshu!» Si liberò, alzandosi in piedi. «Al massimo due!»
«Però le ferrovie erano bloccate da una frana.»
«Uh?»
«E’ la verità. Sono andati a piedi, lui e il signor Sanosuke.»
A piedi?
«…Lui e zio Sano?»
«Proprio così. Non voleva aspettare, volevano ritrovarti subito.»
Kenji esitò, colto da una vaga, circospetta speranza.
In effetti, la ferrovia di Kyoto era stata particolarmente silenziosa nei giorni dopo il suo arrivo, come se mancasse all’appello una grossa fetta del suo traffico ― quella proveniente da Tokyo.
«Ora però le ferrovie sono sbloccate. E’ da giorni che sento fischiare le locomative.»
«Locomotive» lo corresse gentilmente zia Okon, seduta con la sua solita compostezza. «E’ vero» rispose «infatti sono tornati a Tokyo il settimo giorno, usando il treno. Poi, ecco… ci sono stati dei problemi.»
Kenji strinse le palpebre.
“Problemi”, eh?
«Che tipo di problemi?»
Non fu difficile vedere il suo disagio, persino nella luce ambrata del focolare.
«Ah. Non so di preciso, so solo che―»
«Che non si sono voluti muovere.»
«No!» esclamò, battendo i delicati pugni sulle gambe. «Kenji, ma perché fai così? Perché sei diventato così cinico?»
«Forse perché ho passato le mie ultime settimane in famiglia da segregato» sibilò, cominciando ad avviarsi verso la porta. Doveva uscire. Il discorso era degenerato in fretta e non voleva offendere la zia, anche se sapeva benissimo che agiva da ambasciatrice per certe persone.
«Sono sicura che nessuno dei tuoi genitori si è divertito a costringerti.»
«Allora non dovevano farlo! Non avevo fatto niente di male!»
La donna si alzò a sua volta e, con una rapidità che gli ricordò d’improvviso la sua appartenenza agli Oniwabanshu, lo placcò per le spalle.
«Non capisci che sono preoccupati per te? Che l’hanno fatto per il tuo bene?»
«Voglio solo imparare l’Hiten Mitsurugi, cosa c’è di male in questo?!»
Lei lo scrollò, dura.
«Ragazzo, possibile che tu sia tanto intelligente e non capisca? Non lo sai che cosa ha fatto tuo padre con quelle tecniche, quando aveva poco più dei tuoi anni? Guardati, sei il suo ritratto vivente. Ha solo paura che tu segua le sue orme fino all’estremo.»
Furioso, Kenji se la scrollò di dosso, mettendosi fuori portata.
«Ah, queste sono le mie uniche possibilità, vero?! Chiudermi in casa o diventare un assassino?!»
Il piccolo Kazuma si mosse sotto le coperte, ma questo non lo fermò. La sua voce continuò a salire.
«Bella fiducia! Bell’impegno! Già, ma dopotutto son troppo stupido, finirò sicuramente in quel modo! Non ho sentito e visto abbastanza su di lui―figurati se non ci casco anch’io!» Ricordò alcune delle ultime parole di suo padre e contorse tutto il viso, livido. «Una persona disonesta, ambiziosa e testarda come me non potrebbe altro che diventare omicida, anzi, sicuramente ripiomberò il Giappone nella guerra!»
Lì dovette bloccarsi per riprendere fiato.
«Quindi…» continuò alla fine «è comprensibile.»
Okon stringeva le labbra in una linea sottile, le mani premute contro il ventre. «Che cosa?» chiese piano.
«Che nessuno voglia venire a prendermi.»
«Oh, Kenji.»
Lui abbassò la testa, nascondendola nell’ombra. Dannazione, tutte quelle parole feroci e stava pure per―
«Vieni qui.» Lentamente, dandogli tempo di ritrarsi, Okon lo abbracciò. D’istinto lui poggiò il naso sulla sua spalla, pietoso tentativo d’attutire il respiro. «Kenji… davvero pensi questo di te? Sei convinto di essere così?»
«…»
«Non è possibile, credimi. Anche se è vero che sei un po’ testardo, le azioni parlano più delle parole. Sei un bravo ragazzo, su questo non ci piove. Si tratterebbe solo di confermarlo anche alle persone che ti amano e si preoccupano per te.»
«Ma non è possibile» sussurrò, con qualche difficoltà. «Mio padre non ha neanche voluto ascoltarmi. Mi ha chiuso fuori e basta.»
La sentì sospirare. «Può darsi che non voglia capire, ma anche tu sei in torto. Conosci i suoi motivi.»
«Non diventerò mai un nuovo Battosai.»
«Bene. Allora diglielo. Gridaglielo, se non vuole ascoltarti.»
«Facile a dirsi.»
La lasciò con un movimento pacato, avvicinandosi al focolare.
«Vuoi davvero buttare via tutto, Kenji?»
Scosse la testa.
«Se credi veramente in quello che fai, devi insistere. Parla a tutt’e due, e vedrai che da quel momento ti aiuteranno.»
Levò gli occhi dal fuoco, il cuore incastrato in gola.
«Dici…?»
Si sentiva speranzoso e scettico al contempo ― una parte di sé vedeva l’uscita da una lunga, buia strada e un’altra gli insinuava di stare attento, di non lasciarsi convincere come uno sciocco. Forse non avrebbe dovuto fidarsi…
«Ne sono sicura.»
Ma voleva farlo disperatamente.
«Vuoi molto bene a tuo padre, vero?»
Sgranò gli occhi, sentendosi avvampare.
«Anche a mia madre, cosa credi» bofonchiò, distogliendo lo sguardo.
Sì, lui…
Anche senza vederla sapeva che Okon sorrideva.
«E vorresti rivederlo.»
«Lui è…» si bloccò, incerto. Ma dirlo l’avrebbe reso reale, vero? Reale a tutti gli effetti. Non avrebbe più potuto rimangiarselo e questo, col suo carattere, era importante. «Il mio punto di arrivo. Vorrei essere come lui. Anche di più, se possibile.»
Non si voltò più e raggiunse la porta, con le orecchie che bruciavano per la vergogna. Quella era la confessione più personale che avesse fatto in tutta la sua vita.
Sperava che la zia tenesse la bocca chiusa.
«Sono arrivati stasera.»
Gli si bloccò il respiro.
«Arrivati
«Te l’avevo detto che ti amano. Non ti lascerebbero mai sparire senza cercarti.»
«…Vado un po’ fuori.»
Si fosse disturbato a guardare, avrebbe trovato sul suo viso un’espressione molto dolce.

Kenji era davvero un bravo ragazzo.
Uno spirito onesto sotto la scorza ruvida, imbarazzata e un po’ arrogante. Checché ne stesse dubitando, Himura aveva cresciuto un figlio degno di lui.
Okon sedette accanto al piccolo Kazuma, tirando un respiro di sollievo.
Fiuu. Missione completata. Non era stato facile, ma c’era riuscita. E questo anche grazie alla predisposizione del “nipotino”, s’intende.
Si stese sul giaciglio e sorrise al marito, entrato in silenzio.
«Già fatto?»
Lui inarcò un sopracciglio, servendosi dagli avanzi ormai freddi.
«Porca miseria, ce ne ha messo di tempo per levarsi dalle scatole» disse, a voce contenuta. «Per colpa sua ho dovuto fare la fame al freddo.»
«Oh, per favore.»
Il profilo un po’ aquilino dell’uomo si stagliava contro la luce smorzata del fuoco, su un torso ancora muscoloso. Dal giorno in cui aveva salvato l’Aoiya dalle Dieci Spade di Makoto Shishio, Kakunoshin Nitsu non era cambiato molto.
Solo qualche ruga in più e un po’ di grigio dei capelli, nei punti che lei conosceva.
Okon sapeva che molti non comprendevano la sua scelta, incluso probabilmente Kenshin Himura, che presto sarebbe venuto a conoscenza del matrimonio. Okina era uno dei pochi ad aver annuito con approvazione. La gente infatti non si spiegava cosa una donna raffinata come lei trovasse di allettante nel vivere insieme a un eremita misantropo, indurito dagli anni, amante del sarcasmo e dei sistemi radicali.
Ma Okon l’aveva sempre saputa più lunga.
In quella prima occasione d’incontro era stata sicura che sarebbe venuto fuori qualcosa di buono.
Certo, non s’era illusa di trovare tutte rose e fiori. Però conosceva abbastanza la vita per riconoscere che valeva la pena di provare.
E quel che aveva scoperto l’aveva convinta in modo definitivo.
Ora, finalmente, aveva un marito che la rendeva felice (a scorno delle premesse poco incoraggianti) e un bellissimo bambino.
«Hai sentito?»
«Perché altro avrei finto di esser via?»
Sorrise.
«E’ adorabile, non pensi?»
Seijuro sfiatò dal naso. «Non è la definizione che userei in giro.»

Kenji sedette davanti al forno da ceramica. Con un bastone raccattato dalla spazzatura (c’era roba dappertutto ― Hiko non conosceva il significato della parola “ordine”?) spostò le ceneri nell’ampio avan-camino e accolse con piacere il calore delle fiamme. Per fortuna le braci non s’erano spente.
Rimase lì, immobile per qualche tempo.
Il bosco era silenzioso come solo un bosco sa essere, pieno di fruscii sommessi. Si osservò le mani, flettendo le dita.
Poi un riflesso catturò la sua attenzione.
A pochi passi da lui giaceva un otre semicircolare colmo d’acqua. Incuriosito, se lo tirò vicino.
Subito fu salutato da un volto noto, piatto, inespressivo.
Così, nel bagliore caldo del fuoco, i suoi capelli erano rossi come il sole e i suoi occhi non più celesti, ma ametista. Si passò una mano in quei capelli, ancora sciolti e lunghi sulla schiena.
S’erano schiariti da anni (da piccolo li aveva avuti simili a quelli di Inoi, un intenso color castagna). Ma i suoi occhi non erano mai stati come i suoi.
Adesso sì.
Abbassò lentamente le ciglia, cercando di imitare la sua espressione pensosa.
Che faccia stava facendo suo padre, in quel momento?
Corrugò la fronte, stringendo le sopracciglia. Probabilmente quella. Triste e tormentata.
E sua madre probabilmente piangeva.
Chiuse gli occhi e sospirò, rilassando i muscoli. Poi cercò di immaginare che faccia avrebbero fatto al vederlo tornare.
Lento, sempre concentrato sulla superficie nera e brillante dell’acqua, piegò le labbra. Scoprì che, sorridendo, i suoi occhi s’addolcivano proprio come quelli di suo padre.
«Dovresti sorridere di più.»
Gliel’avevano detto, qualche volta.
«Forse.»
Non era disposto a rinunciare ai suoi sogni.
Sorrise al suo riflesso.
«Bentornato a casa, Kenji.»
Voleva sentirle, quelle parole.
Perciò sarebbe sceso in città, domani, con la sua spada camuffata da bastone. Avrebbe messo in gioco tutto quanto.

Non molto lontano, in una di quelle foreste buie e disabitate, un bambino si svegliò chiamando sua madre.
Si trovò chiuso in un carro freddo e puzzolente.
Toccò tutto intorno, alla cieca, finché non inciampò in qualcosa e cadde. No… era solo un sogno cattivo.
Adesso arrivava la mamma. O il papà. O Kenji-chan… o anche Inoi-chan!
Singhiozzò, spaventato.
«Mama…»
Un ombra si mosse in fondo al posto buio. Lanciò un grido soffocato.
«Sst» disse una voce.
Una mano gli carezzò la guancia. Era liscia e morbida come quella di sua madre.
«Mamma!»
«No, non sono la mamma» rispose la voce, femminile. Altre si aggiunsero: «Siamo prigioniere come te.»
«Voglio la―» gridò, ma fu zittito da un abbraccio.
«No, non strillare, ti prego. Ci divideranno se strilli. Lascia che ti nascondiamo ancora.»
Allora Shinta si lasciò stringere forte, avvolto dal calore di tanti corpi esili, il pianto soffocato nelle loro vesti.

   
 
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