Capitolo
6
Un
passo.
Ancora
uno.
Resisti resisti resisti.
Stai per
arrivare, riconosci le strade?
No, non
conosci niente e nessuno. Vorresti solo andare via.
“Scappa, scappa finché puoi. Scappa da questo
posto infernale. Scappa.”
Adesso
non mi è concesso andare via. Non adesso che hanno bisogno di me.
Ma come
sarà successo? Quanto male starà Alice?
Un
pugno, un calcio, uno schiaffo? Cosa, come, ma soprattutto perché?
Perché
tornare a casa in quelle condizioni? Perché sfogare la rabbia su di lei?
Non
avrei accettato un comportamento simile nei miei confronti, né tantomeno in
quelli di mia madre, che si limiterebbe a subire in silenzio. Ma Alice? Ha
sbagliato.
E se
pensa che per perdonarlo basterà definire il tutto “un incidente”, allora
sbaglia ulteriormente. Lei è piccola, non avrebbe saputo difendersi neanche
volendo. Probabilmente neanche si è accorta di quel che stava succedendo.
E anche
se fosse, una volta visto mio padre mettere piede in casa, il suo istinto le
avrebbe comunque suggerito di corrergli incontro, per salutarlo come si deve.
Conoscendola,
nemmeno ha pianto. Uno de suoi pregi migliori è il sapersi dimostrare sempre
coraggiosa, dall’alto dei suoi cinque anni. In questo, non ha preso dal padre.
In pochi
minuti sono già arrivato davanti a casa mia, che vedo illuminata, spicca in
mezzo a tutte le altre. Come se tutti sapessero. Come se tutti avessero visto.
Salgo le
scale per scaricare ancora la tensione, per cercare di pensare razionalmente in
mezzo a quest’insieme sconclusionato di azioni. Mia madre, mio padre, Alice.
Ancora
un gradino, ancora un secondo per razionalizzare i miei pensieri.
Ancora
uno.
La porta
è spalancata, la scena che vedo non potrebbe essere più diversa da quella che
avevo immaginato nei cinque minuti a disposizione per pensare. Il caos calmo.
Mia madre, scossa ma che cerca in tutti i modi
di mantenere la calma, è seduta sul divano con la testa di Alice poggiata sulle
gambe. Ha gli occhi rossi, si vede che ha pianto, ma che ha bisogno di nasconderlo, per il bene
di chi la guarda e di sé stessa.
Alice è difficile da guardare, sento il moto
di rabbia aumentare a mano a mano che scopro i segni che mio
padre le ha lasciato addosso:
un livido che si sta formando sulla guancia, il labbro inferiore spaccato, le
gambe arrossate.
Non piange, non si dimena. È immobile, inerme.
E la sua immobilità non fa che spaventarmi
ancora di più.
Quello che più mi stupisce è un pianto, sommesso e
furioso proveniente dal bagno.
Calcio
la porta del bagno, senza ottenere nulla. Si è chiuso a chiave.
Ha paura.
«Ma ti sei bevuto il cervello? Mi fai schifo!
Schifo!» urlo a
perdifiato io, sputando rabbia e rancore sempre preoccuparmi del troppo rumore,
confidando nella porta che mi separa da mio padre. Sento i suoi lamenti aumentare
di volume, come in segno di protesta verso la mia ira, che non fa che
accendersi come una miccia.
«Piangi quanto vuoi, tu qua dentro non ci metti
più piede. Chiaro? Sei un mostro! Perché non puoi rovinare solo la tua vita? Perché devi
rovinare anche la nostra?»
Sto piangendo, ma a differenza sua non cerco
di nascondermi dietro una porta: sento ogni goccia scorrere salata sulla
guancia, la prima dopo anni e anni di forzature.
Un uomo, un ragazzo o quel che è non dovrebbe
piangere.
Ma ora come ora sento che se non lo facessi
potrei esplodere in una rabbia cieca che non saprei controllare. La stessa che
ha investito Alice ingiustamente.
«Andiamo
al pronto soccorso.» affermo
io, secco.
«Ma tuo padre? Lo lasciamo lì in bagno?» chiede mia madre, terrorizzata.
«Sì, e spero di non trovarlo quando torniamo.
Dammi le chiavi della macchina, guido io. Tu stai dietro con Alice. E prendile
il peluche che ha sul letto. Le dà forza.»
Mi accorgo solo adesso dell’assurdità di quel
che sto facendo: sto dicendo a mia madre cosa fare, come se da sola non
riuscisse in niente. Le sto dicendo come comportarsi con la sua stessa figlia.
E so che mi odierà per questo.
Ma qualcuno deve prendere in mano la
situazione, e stavolta tocca a me.
Vedo nei
suoi occhi verdi la disperazione di un genitore che
capisce di aver sbagliato tutto, di una persona persa e che ha solo bisogno di
essere guidata.
Le scale volano sotto i nostri piedi agitati e
veloci, mentre il respiro di Alice, tenuta saldamente dalle braccia di mia mamma, si
fa sempre più flebile. Solo ora mi
chiedo come potrò rimanere calmo nei venti di minuti di viaggio per l’ospedale
più vicino.
Corriamo nella notte come insetti, appiccicosi
e sudati di paura e di troppa fretta, di quell’ansia del tempo che passa troppo
velocemente
quando vorrei solo fermarlo.
Come insetti ronziamo di pensieri che
preferiamo non esprimere ad alta voce, un brusio fastidioso che potrebbe essere
placato solo da una parola qualsiasi detta da Alice, con la sua voce adorabile.
Siamo in macchina ancora prima di accorgercene
e subito mi siedo al volante, con le mani che tremano per l’agitazione. Uso un
vecchio trucco di Matteo, che impiegava nelle situazioni più svariate, quando aveva bisogno di calmarsi:
prendo aria, una bella boccata dal naso, e la butto fuori, allentando la
tensione per un po’.
Tutto rallenta, tutto adesso è sotto
controllo. Adesso le mani sono ferme.
Parto piano, come se il tempo potesse moderare il suo corso solo per noi, per poi ingranare
e accelerare qualche minuto più tardi, dopo aver notato quanto desolate siano
le strade che portano a Firenze a quest’ora.
Dove sono le macchine, i furgoni, i tir, i
taxi, gli scooter?
Dove sono i motociclisti pieni di tatuaggi
sulle loro braccia troppo abbronzate, dove sono le coppie innamorate che
bisticciano in auto?
Dove sono le signore di mezza età chiuse nei
taxi che spettegolano col conducente?
Probabilmente sono tutti nelle loro case, a
mangiare un bel piatto di pasta simile a quello che sto ancora digerendo,
assimilato lentamente insieme a tutti quei lividi.
Ho paura della strada troppo
vuota, di quelle macchine
invisibili che ci sfiorano senza creare strane collisioni, che non ci urtano e
non creano danni che possiamo vedere.
Ho paura di questa notte nera che ci inghiotte
e ci rende insicuri e fragili.
Ho paura anche di questo viaggio, così stupido, che avremmo potuto evitare se fossi capitato
in una famiglia normale con un padre normale, che non ha bisogno di sfogare la
sua rabbia sulla figlia piccola per sentirsi bene con se stesso.
«Non
credi che sarebbe meglio rallentare un pochino? Stai oltrepassando il limite, tesoro.» mi avverte mia madre docile e remissiva, mentre carezza
piano le guance paffute e colorite di Alice, ancora addormentata.
«In strada non c’è nessuno, perché
dovrei rallentare?»
Il mio tono è sopra le righe, collerico e
preoccupato allo stesso tempo.
«Edoardo, tua sorella non starà meglio se
prendi una multa per eccesso di velocità, chiaro? Siamo quasi
arrivati e lei si è addormentata. Non voglio rischiare
un incidente solo perché sei in pensiero per lei. » mi riprende lei, ferma e decisa.
La linea bianca dell’autostrada si
avvicina progressivamente agli
pneumatici della macchina di mamma, che teoricamente non potrei neanche
guidare.
Ma a chi importa? Al diavolo la sua prudenza:
Alice sta male, e io devo aiutarla.
Vedere le luci quasi fluorescenti
dell’ospedale pediatrico mi rassicura, facendomi rallentare non poco la
velocità, per accostare e trovare al più presto parcheggio.
In una manciata di minuti siamo di nuovo in
corsa folle con il respiro debole ed addormentato di Alice che soffia sulla
spalla sinistra di mia madre, ormai umida.
Non chiediamo niente a nessuno, non aspettiamo
il nostro turno, e quella prudenza da sempre intrinseca in mia madre sparisce
nell’istante stesso in cui ogni malato o dottore che ci vede, e che vede Alice, ci riserva uno sguardo molto preoccupato.
Dopo un lasso di tempo che a noi sembra sconfinare nell’infinito, un
dottore in carne e con una barba incolta e candida riesce a riceverci con un
sorriso incerto.
Come se, senza neanche sapere quel che è
successo, sapesse tutto.
«È da molto che aspettate? Mi hanno detto che si
tratta di una bambina.»
Lo
afferma mentre gira intorno al corpo ostile di mia madre, fino a trovarsi
faccia a faccia con Alice, che continua a dormire imbronciata, da tempo
immemore ormai.
Il
labbro inferiore, che a casa colava sangue rosso cremisi, adesso è gonfio e
quasi ricurvo su quello superiore. Il volto di una bambina che diventa un sacco
sul quale un adulto squilibrato ha deciso di tirare calci e pugni, senza alcun
risentimento.
Ma a mio
padre basta piangere.
Perché
pensare ai segni che rimarranno sul suo viso, quando il tuo unico pensiero è
quello di andare nel bar di turno per il tuo prezioso whisky?
Il
medico ci conduce con un gesto della mano verso una stanzetta bianca e
asettica, che puzza in modo esagerato di disinfettante e di lacrime di bambini
malati.
Il suo
sguardo non si stacca mai dal labbro pieno di Alice, dai lividi sul viso che
stanno diventando violacei, dalle piccole gambe bianchissime punteggiate da
segni rossi troppo simili a dita cattive per essere equivoci.
«Da
quanto non si sveglia?»
«Da poco
dopo la caduta. Io stavo cucinando e lei è caduta dalle scale.»
« Questi
segni non sono quelli di una caduta,
signora. Lì vede, questi qua sulle gambe? Non può esserseli fatta cadendo.
Questi sono colpi lasciati da una mano, da delle dita, non da una scalinata.
Non menta, signora. Come si è fatta male?»
«Lei è …caduta. Lei è caduta.» replica mia madre, la voce ridotta
ad una nenia.
Mia
madre ripete quella specie di mantra un paio di volte, mentre io rimango in
disparte, per non dare nell’occhio. Vorrei portarmi una mano alla bocca, per
tenerla ferma e chiusa fino alla fine della visita. Per non parlare. Ma so che
non mi tratterrò.
«Tu sei
il fratello della bambina?» mi chiede il dottore, scovandomi subito.
«Sì,
sono il fratello di Alice.» rispondo nervoso, dando un nome a quel volto che,
fra un paio d’ore scarse, per quell’uomo distinto non significherà più niente.
Solo
l’ennesimo paziente da curare, l’ennesima storia triste da dissotterrare.
«Come si
è fatta male Alice? È caduta?»
Mi
squadra dall’alto verso il basso, mi mette in dubbio ancor prima di ascoltarmi.
«Io non ero in casa quando si è fatta male.
Non lo so.» dico,
tormentandomi le mani fino a non sentirle neanche, conficcandomi le unghie poco
curate nei palmi, per avvertire il dolore necessario a non dire tutto quel che
invece so.
«Figliolo, non è proteggendo questa persona che
farai bene a tua sorella, ad Alice. Se capitasse di nuovo, cosa vi inventerete?
Che è caduta di nuovo? Non ha senso nascondere una cosa di una tale gravità.
Dimmi come si è fatta male.»
Mia madre è china su Alice, che ha aperto gli
occhi lamentandosi senza nemmeno provare a star meglio. Il piccolo viso è
distorto da una smorfia di dolore che lo rende più adulto, un volto che ha
vissuto e sofferto. Il suo viso di appena cinque anni non dovrebbe avere quel
velo di tristezza e di dolore. Non deve, non dovrà mai.
Sento mia madre singhiozzare, facendo crollare
la maschera di donna, moglie e madre forte, che quando cade si rialza subito,
spolverandosi appena con le mani e sfoderando uno dei sorrisi falsi, che come i
miei, convincono sempre tutti.
È crollata, io lo so che è così. Che stavolta
non si rialzerà subito.
Che ha bisogno della mia mano per tornare alla
sua vita normale.
E posso aiutarla solo in un modo: infrangendo il
nostro patto silenzioso.
«Alice è stata picchiata da mio padre dopo che
lui aveva bevuto troppo. È la prima volta che succede, ma in precedenza lo
aveva fatto con me. Non so come sia successo, ma so che avrebbe il coraggio e abbastanza alcool in
corpo per farlo ancora.» confesso io, traballante, come se ogni verità mi
svuotasse un po’.
«Alice non è fatta di gomma. Ho paura per lei,
per mia madre e per me. Non ce la faccio. Non ce la faccio più. » rispondo
carico di tensione, carico di quel peso che gravava sulla mia coscienza da troppo
tempo.
Non bastano più le fotografie sorridenti, i
pianti e le lacrime di coccodrillo per giustificare un gesto che non dovrebbe
essere neanche umano. Non bastano più le suppliche silenziose di mamma, i
sorrisi incoraggianti di Alice, che senza saperlo mi spingeva a credere in un
futuro più felice e tranquillo. Non basta più crederci.
Il pianto di mia madre sembra essersi placato,
forse troppo calmo per esserlo davvero.
Erano anni che desiderava sentire quelle
parole. Voleva solo farle
uscire dai suoi sogni e farle entrare nella realtà. E chi lo avrebbe mai detto
che sarei stato io?
Sono stufo di tutti questi segreti. Di quella
lista invisibile di cose da dire e da tacere. Voglio poter parlare liberamente anche dei
miei mostri. Lo voglio realmente.
«Io adesso vedo che posso fare con Alice, ma
per stanotte è meglio se rimane qua con noi per degli accertamenti. E rimanete anche voi. Adesso chiamiamo la polizia e dovete dire loro
quello che
avete detto adesso a me.»
Il suo sguardo è positivo, gli occhi brillano
dello stesso sogno che ho visto riflettere nelle ombre verdastre delle iridi di
mia madre per anni. Forse adesso quel sogno, il sogno di una famiglia vera e
normale, si realizzerà davvero.
Ma quanti respiri profondi dovrei fare per
avere la calma necessaria a spifferare tutto a quei poliziotti? Come potrò non
risultare banale, con quella storiella sentita mille volte da mille famiglie più sfortunate
di noi?
Non voglio una denuncia.
Non voglio la rabbia folle e disperate di mio
padre quando verrà a sapere questa storia. Non voglio che faccia male a mia
madre o ad Alice.
Che affronti me. Da anni, ormai, che
aspettavo questo momento senza neanche saperlo. Da quel pomeriggio che rimase
incastrato nella porta dello scantinato, che rimase segreto tra me e lui. Sento
che è il momento di rievocare quel pomeriggio.
Nel frattempo il dottore dalla barba lunga
inizia una breve visita di Alice, toccandone i punti dolenti con la paura di
spezzarla, di farle troppo male.
È davvero troppo vederla soffrire. Non è
ammesso nessun margine d’errore: verità o menzogna, realtà o immaginazione
fervida.
Alice tenta in ogni modo di non mostrarsi
debole, come le avevamo sempre insegnato io e mia madre inconsapevolmente. Ma
non ci riesce, il dolore è troppo, glielo leggo in viso, mentre chiude gli occhi
e vedo scendere una lacrima sulla guancia.
Prendo con uno strattone la borsa di mia
madre, capiente e spaziosa, e ne estraggo il peluche di Alice, che, a suo
tempo, era stato anche il mio. Lo nascondo dietro alla schiena, come un mago
che sta per estrarre un coniglio bianco dal suo cilindro.
«Principessa, c’è una
sorpresa per te, qua dietro.»
La vedo illuminarsi per un attimo, divertita e
sorpresa da quell’attimo di allegria e di colore. Sta per sorridere, ma
qualcosa la frena. Ha paura di brutte sorprese.
«C’è un amico qua dietro che vorrebbe
abbracciarti. Ma mi ha detto che abbraccia solo le bambine che fanno un bel
sorriso. Lui non le vuole le lacrime, sai?»
Nuovamente colpita da quel piccolo gioco, così
stonato all’interno della serietà di quella fredda stanza d’ospedale, Alice
sembra rinascere. E nel
gesto che segue, io in lei vedo quel che diventerà: una donna forte, che
combatte gli imprevisti con un sorriso. Che non sorride per finzione, che non
muore dentro mentre lo fa.
Una donna che regala a tutti la sua
positività, senza sconti per nessuno.
Una donna che si rialza, sempre.
Vogliosa di saperne di più, trattenendo una
smorfia di dolore causata dai suoi movimenti troppo bruschi, Alice si asciuga
le lacrime con un fazzoletto dimenticato sul suo corpicino da mia madre. Si
soffia il naso maldestra, abituata ad essere sempre aiutata da mamma in questa
piccola operazione, e, poi lo getta via.
Sorride senza ritegno, come se questo fosse il
suo giorno migliore. Sorride e allontana i demoni scuri che volevano
trangugiarla.
«Fammi vedere, fammi vedere!» mi chiede, frenetica nella sua curiosità.
E come quel mago che rende felice miriadi di
bambini con i suoi trucchetti stupidi, faccio uscire
il vecchio peluche dalla mia schiena, porgendolo ad Alice e fingendone la voce,
rendendo la mia acuta e piccolissima. È così bella quando sorride per me.
Il peluche in sé non è niente di speciale: un
vecchio orso, per la precisione un panda enorme, che accanto alla piccolezza di
Alice sembra ancora più grande.
In alcuni punti è stato rattoppato, i medesimi
punti in cui una versione più piccola e distruttiva di me aveva deciso di
giocare col cane. Sì, avevamo un cane.
In quei punti la stoffa nera e bianca è
interrotta da quadrati colorati, verdi, blu, rossi.
Un patchwork che era sempre riuscito a
divertire Alice che, negli anni, aveva visto in quel peluche così strano e
diverso una parte di sé stessa. La vedo mentre stringe a se il pupazzo, a tal
punto che sembra quasi scoppiare. Non c’è dolore che tenga.
Lei adesso ha bisogno di quel giocattolo che le
ricordi che è solo una bambina.
Lei adesso ha bisogno di stoffa e imbottitura
da stringere a sé.
Quasi certamente perché di quel pupazzo non ha
paura. Non ha motivo di averne.
Forse perché sa che quel ricordo felice non
sarebbe stato in grado di farle male.
Sento trasparire il rumore di una sirena,
prettamente inutile, dall’esterno, che trapassa il vetro sottile della finestra
con facilità sorprendenti. Inizia la spettacolo.
Vedo uscire dalla volante due agenti,
dissimili quando ben assortiti insieme: sembra di aver appena acceso la
televisione, sul canale che trasmette i polizieschi che tanto appassionano mia
madre. Gli stessi polizieschi che mio padre da sempre odiava.
«
Quegli sbirri impiccioni, si facessero gli affari loro invece che rovinare la gente.»
Incredibile come saranno proprio gli “sbirri”
a rovinare lui.
In pochi minuti, il tempo di arrivare al primo
piano dove siamo noi con Alice, li vediamo arrivare e attraversare la porta.
Non hanno quel fare spaccone che pensavo li caratterizzasse anche nella realtà,
oltre lo schermo. Si avvicinano a me e mia madre con modi
discreti, senza improvvisare grandi scenate o sorrisi
senza senso.
Sono qui e so che faranno il loro lavoro, che
vorranno sapere sempre di più.
«Salve signora, il dottore ha detto che
dovevate raccontarci delle cose che dovremmo sapere. Dottore, noi andiamo nella
stanza accanto, abbiamo visto che è vuota. Ci sono problemi?» chiede con garbo uno dei due, più magro e allampanato.
Il dottore risponde con un cenno raccolto del
capo, per non svegliare Alice che, abbracciata al suo peluche con tutta la
forza possibile, si è addormentata di nuovo.
Io e mia madre seguiamo a capo basso i due
poliziotti che ci guidano verso la stanza accanto, identica a quella in cui
eravamo, meno vissuta, più artificiale della precedente. Forse perché ancora
nessun malato c’era passato, di lì.
Ci fanno sedere sulle uniche due sedie a
disposizioni, senza una parola, lasciandoci ancora un po’ di spazio per
riordinare le idee, i segreti, i fatti di una vita intera.
Come raccontarli tutti senza tralasciare
niente? Da dove partire? E dove finire?
I due uomini camminano avanti e indietro.
Anche loro hanno bisogno di capire ancor prima di porci domande: su cosa
insistere, a chi chiedere, e come?
Non è facile stare da nessuna delle due parti.
Ma è necessario, e decido di iniziare.
«Non so cosa vi ha detto il dottore, ma quello
che dobbiamo dire noi non è affatto semplice. Non vogliamo parlare solo di
stanotte, ma anche di notti e giorni precedenti. Non voglio più tornare a casa con
la paura di farmi male.»
I poliziotti annuiscono, mi lasciano fare
senza fare domande, quasi spaventati.
E inizio. Parlo, descrivo, racconto, spiego.
A intervalli imprecisi interviene mia madre,
rivelando come e dove aveva conosciuto mio padre, di cui i due agenti prendono
subito le generalità per l’arresto.
Mamma racconta episodi che neanche immaginavo,
di una violenza e di una cattiveria che non avrei creduto possibile neanche al
peggiore degli uomini.
Parla di come all’inizio tutto fosse
stato bello, delle attenzioni
premurose di mio padre, dei suoi regali costosi e dei nonni che non avevo mai
conosciuto, che con mia madre si erano da subito dimostrati carini, come i
genitori che le mancavano tanto.
Un quadretto felice, un matrimonio lampo dopo
un paio d’anni di convivenza.
I primi anni, belli e spensierati, senza
troppi pensieri per la testa e con progetti che avevano dell’incredibile, in
parte realizzati con viaggi, splendide cene, belle serate.
Poi arrivai io, quell’errore che mio padre non
aveva mai incluso nei suoi piani.
Quel minuscolo intruso nella loro vita di
coppia felice. Una macchia nera nelle loro pagine bianche, che avrebbe cambiato
radicalmente tutto quello che avevano fatto.
Iniziano le domande mirate, i perché a cui non
sappiamo dare risposta.
Capisco che è il momento giusto per dire quel
che so, quella brutta verità, sporca di dettagli spiacevoli, che mi fa girare
la testa al solo pensiero di doverla riesumare.
«Quando avevo sei anni, ero andato con mio
padre a fare un giro in bicicletta. Eravamo appena tornati, e stavamo mettendo
le bici nello scantinato. È uno stanzino che sta dove gli altri condomini hanno
il garage, che noi non abbiamo. Era di buonumore. Lo avevo visto bere più volte da una boccetta piccola, che teneva nella tasca dei pantaloni. Non sapevo
cosa ci fosse dentro, ma potevo intuire che non fosse acqua, per l’odore forte
che lasciava su di lui. Ci chiuse a chiave nello scantinato.»
Mia madre inizia a tremare, spaventata da
quell’episodio di cui non sa nulla.
Trattiene il fiato, per poter affrontare
meglio quello che seguirà. O almeno lo spera.
I poliziotti mi guardano, si sono seduti
entrambi sulla scrivania. Sono già passate un paio d’ore, e so che sono sfiniti
da tutto quello che avevamo già detto loro.
Ma non posso fermarmi adesso, questo sarà
decisivo, io lo so. Anche se fa male ricordarlo, anche se mi ero convinto fosse
stato solo un brutto sogno dell’infanzia.
«Poi che
è successo?» incalza il poliziotto tarchiato, più silenzioso e
discreto.
«Poi iniziò a ridere. Mi faceva paura. E mentre
rideva iniziò a spogliarmi e lui fece lo stesso. Diceva che faceva caldo, che
era meglio così. Io avevo paura, ma obbedii, senza fare storie. Nel silenzio si
sentiva solo la sua risata che cresceva.»
Rivedo tutta la scena sotto i miei occhi, come
se fossi solo un narratore esterno che racconta quel film osceno. Come se tutto
stesse accadendo adesso, a me, di nuovo.
Rivedo quel bambino tutto sudato, felice dopo
il pomeriggio passato insieme al padre, che da qualche giorno era sempre più
strano: cupo, a volte rabbioso senza nessun motivo. Erano momenti isolati che
riuscivano sempre a confondermi.
Rivedo quel supereroe che si trasforma nel
cattivo della storia, in quella figura nera e senza cuore e pietà che avrebbe
risucchiato tutta la felicità di quel giorno.
Inizio a tremare come mia madre, e sento la
sua mano che prende la mia.
Mi sta aiutando. Vuole che tiri fuori il
coraggio. Vuole sapere quella brutta storia.
«Iniziò a toccarmi, io non capivo. Urlava, e
urlava. Mi molestò, quel pomeriggio.
Mi fece rivestire, io stavo piangendo. Mi fece
promettere di non parlarne mai con nessuno. E questa è la prima volta che lo
dico a qualcuno. La prima.»
Ormai non cerco più di trattenermi, sono perso
dentro quel buco nero.
Il sorriso infame di mio padre, la mia
inconsapevolezza che si trasforma prima in paura e poi in semplice terrore.
Tremo e sento che cadrò dalla sedia, che non sorreggerà il peso mio e di quel
ricordo.
Ma è successo davvero?
Sento la vista che si annebbia un po’ mentre
la mano tremante di mia madre diventa ferma e si posa sulla mia schiena,
tenendomi dritto.
Dovrei sentirmi più leggero, libero da quel
segreto che mi buttava giù.
Mi sento solo sporco, sbagliato, una spia
uscita male, con dieci anni di ritardo.