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Autore: emotjon    17/12/2014    11 recensioni
Heidi, 20 anni. Zayn, 22 anni.
Lei, cieca. Lui, grande osservatore.
Lei gli insegnerà ad ascoltare.
Lui le insegnerà a vedere.
E insieme impareranno ad amare.
Genere: Romantico, Sentimentale, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Un po' tutti, Zayn Malik
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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* salve :) lo so, sono in ritardo, non scrivo uno spazio autrice da una vita e sto aggiornando per miracolo divino.
questo è l'ultimo capitolo prima dell'epilogo, quindi col prossimo aggiornamento abbiamo finito.
caput, fine. anche se mi dispiace da matti, ovviamente, quindi avrete dei ringraziamenti da far invidia alla divina commedia in quanto a lunghezza.
a parte il mio delirio...
spero che questo capitolo vi piaccia e che recensiate in tante, perchè ci tengo davvero tanto, fin troppo.
okay... penso che vi lascerò leggere.
evaporo, alla prossima bellissime.

-emotjon.*


*niente banner, connessione a singhiozzo*




31.



 
Charlotte.

È stata una settimana intensa. La mia vita, è intensa, da tre anni a questa parte. E questa settimana sembra quasi essere stata la settimana della riconciliazione, del ritorno alla normalità, ma è stata comunque intensa, stressante, tanto da volersi mettere a urlare contro il cielo da un momento all’altro.
Ripenso per qualche istante al sorriso di mia sorella Ariel il giorno che Nathan è tornato; mi torna in mente il modo in cui non riuscisse a smettere di toccarsi i capelli e di mordersi un labbro e di sorridere a tutti; e penso per un momento a come Harry mi abbia stretta a sé baciandomi una tempia, vedendo lei tanto felice e me tanto fiera di lei. Ripenso ai crolli emotivi di Zayn contro la mia spalla, ai caffè tenuti in equilibrio in ascensore e distribuiti a tutti mentre aspettavamo che aprisse l’orario di visita, alla sorpresa negli occhi del mio migliore amico quando ci vedeva lì, giorno dopo giorno, a tenere su di morale la sua ragazza.
Non l’ho fatto solo per lui. L’ho fatto per lei, perché le voglio bene, tanto.
Ripenso a come mi sia cambiata la vita in tre anni. Con lo spaccio, l’incidente, la morte di Doniya, la scomparsa di mia sorella, il processo in tribunale, gli interrogatori della polizia anche a noi che non c’entravamo nulla. Con una ragazza cieca e il mio migliore amico tradito e sempre triste. Con un tentativo di stupro. Con un ragazzo al mio fianco che credevo potesse essere solo un amico, quando è evidente che sia sempre stato un po’ di più, che sia stato amore anche quando non pensavo che lo fosse.
Mi riscuoto dai miei pensieri quando mi accorgo del fatto che Harry abbia svoltato all’incrocio sbagliato, verso una zona che di solito non frequentiamo, con i palazzi nuovi, gli appartamenti troppo grandi per pensare anche solo di metterci piede dentro e i terrazzi tappezzati di vasi di fiori, ora ricoperti di neve e probabilmente con pochi – pochissimi – sopravvissuti.
«Hai sbagliato strada, amore…».
E lo vedo trattenere un ghigno a quel nomignolo, che però gli fa comparire una fossetta su una guancia, e in quell’istante mi compare un sorriso sulle labbra che mi fa alzare gli occhi al cielo. Non posso trattenermi dal pensare che Harry sembri un bambino, quando sorride, ma sia un uomo a tutti gli effetti per la maggior parte del tempo restante – soprattutto in camera da letto… no, vabbè, meglio evitare.
Ferma la macchina davanti ad un condominio che di solito eviterei come la peggiore delle malattie veneree, davvero. È gradevole, devo riconoscerlo. Meno anonimo degli altri, con un vialetto carino e il portone in vetro. Ma è il poco che riesco a vedere, prima che il mio ragazzo mi bendi con un nastro di stoffa nera. Mi viene spontaneo storcere il naso, il che lo fa ridere; io odio le sorprese, e lui lo sa meglio di chiunque altro al mondo. Mentre faccio per dire qualcosa però, posa le labbra sulle mie in un rapido bacio che mi fa dimenticare la quasi incazzatura nei suoi confronti.
Perché odio le sorprese, ma i suoi baci sono la giusta ricompensa alla sopportazione di questa benda sugli occhi, degli scalini fatti a passo di lumaca perché ho paura di cadere e della sua risata divertita nelle orecchie mentre mi spinge su per le scale.
Cerco di immaginare come Heidi abbia fatto a sopportare tutto questo buio per tre anni, senza riuscirci, quando finalmente sento il tintinnare di un paio di chiavi e una porta che cigola leggermente sui suoi cardini. Inarco un sopracciglio, spinta a fare un altro paio di passi su quello che penso essere parquet, ma non ne sono sicura fino a che finalmente Harry non si decide ad far scattare un interruttore della luce e a liberarmi della benda.
Non ho la più pallida idea di cosa ci facciamo qui, in un appartamento completamente vuoto, coi muri ancora da dipingere e il pavimento ricoperto in parte di polvere di cemento. Non ne ho idea, ma quando torno a guardare il mio ragazzo e lo vedo sorridere, capisco a giudicare dalla sua espressione che deve esserci per forza esserci un motivo. Non l’ho mai visto sorridere così tanto, non con gli occhi che gli brillano in quel modo ma con le mani strette a pugno.
Come se avesse paura. Paura della mia reazione, forse.
«Che significa… che ci facciamo qui?», riesco a chiedergli, giocherellando nervosa con l’orlo della giacca di pelle, tirando su e giù la cerniera rischiando di romperla ma non riuscendo a fermarmi. Sono… nervosa. Agitata. Confusa. Non capisco un accidente, e voglio – esigo – una risposta, ora.
«Ti devo chiedere una cosa, piccina».
Inarco un sopracciglio, sorvolando su quell’orrendo soprannome che odio e lui lo sa alla perfezione. Lancio un’occhiata alla stanza vuota, alle pareti grigio chiaro e al corridoio che probabilmente da alla camera da letto e al bagno. Ma niente, proprio non capisco dove voglia arrivare, se deve chiedermi una cosa in un appartamento vuoto. «Okay, ma perché qui? È solo un appartamento vuoto, amore…».
Lo osservo passarsi una mano tra i capelli ricci, accennare un sorriso con tanto di fossetta sulla guancia destra e prendere un respiro profondo. Sono tentata di prenderlo a pugni, da quanto mi sta facendo aspettare. Io detesto aspettare, con tutta me stessa. Detesto che mi si tenga sulle spine, soprattutto detesto che lo faccia lui, soprattutto con quel sorriso perfetto sulle labbra e gli occhi che gli brillano meglio di quanto potrebbero brillare le stelle, ora nascoste dalle nuvole che portano neve da giorni e ne porteranno per altrettanto tempo.
«Il nostro appartamento… se vuoi…», lo sento mormorare in un fil di voce, quasi avesse il terrore di farsi sentire davvero.
E per un momento divento di pietra, senza sapere che dire. Con le labbra appena schiuse e improvvisamente secche e gli occhi sgranati, perché è decisamente l’ultima cosa che mi sarei aspettata, soprattutto se si parla di Harry. Perché Harry non organizza sorprese, non quando si tratta di me, di noi. Perché Harry ha un lavoro sottopagato solo per poter essere indipendente dai genitori, e perché mi accorgo solo ora che nonostante sia pagato poco quei soldi non li ha mai usati.
Continuo a guardarlo per qualche altro secondo, cercando di capire se davvero mi interessa da dove vengano i soldi per quell’appartamento o se mi interessa se lo stia facendo solo per indispettire i genitori oppure se lo stia facendo perché effettivamente vuole andarsene… andare a vivere insieme. Mi viene da ridere, con una mano tra i capelli rossi freschi di tinta, mentre faccio un rapido giro su me stessa per osservare ancora quello spazio che vuoto sembra immenso e penso che in fondo mi importa solo di quello, solo di Harry, solo di noi sotto lo stesso tetto.
Quando torno ad affogare nei suoi occhi mi accorgo quanto sia più rilassato e quanto si stia trattenendo dal ridere, alla mia reazione. Evito di fare domande, di chiedere se stia facendo sul serio, perché glielo leggo in faccia, è palese quanto stia facendo sul serio. Più palese di cosi non si può, più sicuri di così si muore. Evito di chiedere e annuisco. Annuisco solamente, facendolo ridere, ma mai quanto ride mentre gli vado incontro quasi di corsa e lo costringo a prendermi in braccio.
Con le sue mani sotto le mie cosce, le mie gambe intorno a lui e le mie mani a giocare coi suoi capelli, a stringerli tra le dita come per rendere tutto un po’ più vero, più reale, meno strano da realizzare. Continuo ad annuire, lasciandogli una serie di baci sulla labbra, sempre più vicini, sempre più veloci, sempre più miei e più suoi e più nostri.
Nostri come quell’appartamento vuoto.



 
Ariel.

Accarezzo la tazza di cioccolata calda ormai mezza vuota, nello stesso identico modo in cui il ragazzo sdraiato al mio fianco mi sta accarezzando la schiena da sopra il maglione di lana che indosso. Dal fondo della schiena, fin dove le sue dita possono arrivare senza che lui debba mettersi a sedere. Accarezza soprappensiero, proprio come le mie dita sembrano vivere di vita propria sulla tazza che tengo tra le mani, senza nemmeno più sentire il calore che emana.
Sono concentrata sulle sue dita su di me, sul suo respiro regolare, sulla ciocca di capelli che a poco a poco sento scivolare via dallo chignon improvvisato che ho dovuto fermare con una matita perché di trovare un elastico non c’è stato verso. Sono attenta allo spiffero ghiacciato che sento fischiare attraverso la finestra che non ha voluto saperne di chiudersi e arrivarmi addosso prepotente, facendomi venire più pelle d’oca di quanta già non ne abbia addosso per via di Nathan che continua a toccarmi, immerso tra i suoi pensieri, tra i suoi problemi.
Immerso tra le proprie paure.
«Secondo te cosa devo fare?».
La sua voce terribilmente roca mi arriva alle orecchie come fosse lontanissima, come una ninna nanna alla quale non dovrei dare ascolto perché finisce inevitabilmente per ferirmi, per lasciarmi agonizzante e apatica, spettatrice della mia stessa vita. E del resto so perfettamente a cosa si riferisca, a cosa stia pensando, a quali parole stia cercando di dirmi. Ma sono stanca di piangere per lui, perciò quando mi volto ho sempre la stessa espressione un po’ persa di poco fa, ancora intenta a sfiorare la tazza, anche se le sue dita si sono fermate all’improvviso.
Ci stiamo provando, ma evidentemente non basta. Con lui non basta mai. E quel “secondo te cosa devo fare” ne è la prova. Sa benissimo come la penso. Sa benissimo che non voglio che vada alla polizia, né che dia la propria versione dei fatti per un incidente capitato quella che a tutti pare essere una vita fa. Non voglio che finisca in carcere di nuovo, né che si allontani ora che l’ho finalmente convinto a provare a lasciarsi amare, solo per vedere come va.
Scuoto appena la testa, facendo sì che qualche altra ciocca di capelli scuri mi finisca sul viso. E lo guardo in quegli occhi azzurri che amo tanto da star male, capisco da quello sguardo di aver ragione sui suoi pensieri, di aver letto bene le sue parole e i pensieri che tenta imperterrito di nascondermi. «Ti sei già fatto due anni e mezzo…». In qualche modo riesco a non far tremare la voce, a non fargli notare che sto serrando le dita sulla tazza per non scoppiare in lacrime.
«Ma l’ho uccisa, Ariel… ho lasciato che guidasse, che morisse, che rischiasse anche le nostre – la tua – vite».
Mi mordo forte un labbro, mentre gli occhi mi si fanno automaticamente lucidi e guardare lui si fa sempre più difficile. Resto comunque fissa nelle sue iridi che mi hanno sempre attratta a loro come calamite, senza riuscire a staccarmene perché se me ne staccassi mi sentirei vuota, come se mi mancasse improvvisamente qualcosa, e come sensazione la conosco sin troppo bene, l’ho vissuta per troppo tempo, troppo a lungo per poter semplicemente far finta che non esista o di non averla provata.
Prendo un respiro, più profondo del dovuto. Abbasso le palpebre per qualche secondo, quanto basta per avvertire appena il vuoto farsi spazio tra i miei organi interni e minacciare a bassa voce di distruggere qualsiasi cosa si trovi sul suo passaggio. Riapro gli occhi lasciandomi andare a quello che dovrebbe essere un sospiro, ma che sembra più un singhiozzo mal trattenuto che altro.
«Doniya è morta perché io ti amo», dico a voce a malapena udibile, ma lo penso davvero. E a giudicare dalla smorfia che compare per un secondo sul volto di Nathan, mi ha sentita benissimo. Forte e chiara, come se l’avessi urlato. Gli poso piano due dita sulle labbra, continuando a stringere la tazza di cioccolata con la mano libera; fermo le sue parole prima ancora che possa pensarle, perché non voglio che mi interrompa… c’è una cosa che devo dire, che mi pesa sul cuore e sono stufa di tenermela dentro.
«Non ti voglio di nuovo dietro le sbarre», ammetto a voce alta, rendendolo finalmente vero, reale oltre ogni limite. So di avere le lacrime agli occhi, le labbra che mi tremano e un desiderio di baciarlo che riesco a stento a trattenere; sinceramente non mi importa di farmi vedere così, perché io lo amo anche quando sta male, lui deve solo imparare a fare la stessa cosa con me. Scosto per qualche istante le dita dalle sue labbra, il tempo necessario per posare la tazza sul comodino e sedermi a cavalcioni sul suo bacino, con di nuovo due dita sulle labbra, perché non ho finito, perché voglio che per una volta mi faccia parlare e perché senza quelle due dita non esiterei nemmeno un secondo… lo bacerei senza pensarci due volte.
«Non posso stare a guardare mentre di distruggi, come non posso evitare di venire giù con te quando cadendo non avrai il coraggio di lasciarmi la mano». Ad ogni parola che riesco a dire senza piangere vedo i suoi occhi farsi più chiari, più sereni, anche se a me sembra solo che si stia arrendendo al dolore, all’amore che provo per lui, a me. «E’ solo che ti amo così tanto che mi uccide vederti così, lo sai».
Scosto di nuovo le dita dalle sue labbra, questa volta per disfare lo chignon e provare a rifarlo, interrotta però da un sospiro di Nathan, con le palpebre abbassate, come se non sapesse che dire. Lo fa sempre, soprattutto se preso alla sprovvista, soprattutto se si tratta di me. Sospira ad occhi chiusi, riordina i pensieri – o almeno ci prova. E mi viene da sorridere, nonostante tutto; sorrido e basta, passandogli una mano tra i capelli scuri, tirandoli appena e godendo della loro morbidezza tra le dita.
«Dovresti odiarmi».
E di nuovo due pezzi di cielo mi si scagliano contro, facendomi perdere il respiro e la ragione in un colpo solo. Per non parlare del cuore che mi si ferma all’improvviso, per poi ripartire alla velocità della luce. Quelle due parole mi uccidono e mi ridanno la vita nel giro di pochi secondi, velocizzandomi il respiro e accarezzandomi la schiena con un brivido.
«Forse dovrei… ma non voglio, è questo il punto».
Ed è sempre lo stesso discorso, quasi sempre le stesse parole. Sento la fronte aggrotarmisi quasi senza che lo voglia davvero, e una piccola ruga spuntarmi tra le sopracciglia, che non riesco a far sparire, nemmeno con un respiro profondo. Siamo sempre allo stesso punto, facciamo un passo in avanti e uno indietro, ricominciamo da capo un giorno dopo l’altro senza arrivare da nessuna parte. Lui mi chiede di odiarlo, io gli dico che non riesco a farlo, che non posso… che non voglio. E mi si aggrotta la fronte, ma poi le sue dita la lisciano e gli scappa un sorriso e facciamo sempre finta che non sia successo nulla, che io non sia stanca di spiegargli che lo amo come si fa coi bambini piccoli, che lui non mi abbia chiesto di odiarlo e che semplicemente il problema non esista, portato apparentemente via dal vento.
Mi rilasso un secondo dopo l’altro, come sempre, al sentire la punta delle sue dita sfiorarmi il profilo del collo. Su e giù, avanti e indietro, fino a farmi spuntare l’ombra di un sorriso sulle labbra e a far scomparire ogni grado di nervosismo dal mio viso. Abbasso le palpebre, e le sue dita mi sfiorano la guancia, le labbra, il profilo del naso, prima che si sollevi a sedere con me ancora sopra e mi sfili il maglione.
Piano, delicato come mai è stato.
Mi irrigidisco al sentire le sue labbra posarmisi sul mento e scendere lungo la gola, tra le clavicole, fermandosi per lasciarmi un bacio tra i seni, per respirarmi addosso, facendomi sfarfallare le ciglia e spezzare un respiro in gola. «Che stai…?». Vorrei chiedergli cosa stia facendo, ma vengo bloccata dalla sua presa sui miei fianchi, dal leggero pizzicare delle sue dita sulla pelle e dal brivido che sento propagarsi lungo la schiena.
«Dimmi una bugia».
Sento le sue labbra fare la strada a ritroso, mentre lo dice. Lo sento fermarsi sulla mia spalla, scostare la spallina del reggiseno con le dita e sostituire piano le sue labbra alla stoffa leggera che mi copriva la pelle. Sfilo il braccio dal reggiseno, ancora accompagnata dalle sue dita e senza sapere che dire. Senza parole, con le labbra schiuse e la gola secca.
«Mi stai facendo male», mento a bassa voce, riuscendo a malapena ad articolare una frase senza che mi giri la testa. Non mi sta facendo male. In realtà non potrebbe farmi più bene, purché non si stacchi da me e non smetta di toccarmi, di spogliarmi. Che mi faccia quello che vuole, non può farmi male, non così, non adesso.
Lo sento sorridermi contro la pelle, tornare indietro verso il collo e salire al viso, fermarsi sulle mie labbra per pizzicarmele coi denti e farmi sospirare a stento. Mi sento avvampare un secondo dopo l’altro, eppure non faccio nulla per fermarlo. Non posso. Non voglio fermarlo, non adesso che sto così… bene. Completamente bene.
«Dimmi un’altra bugia».
Rabbrividisco appena, e «Ti odio».
«Ti odio anche io».
Sgrano gli occhi all’improvviso, appena in tempo per vedere un angolo della sua bocca sollevarsi in un sorriso obliquo, prima che annuisca pianissimo e mi dia un bacio sulle labbra. Un bacio dei suoi, di quelli che partono in quinta e ti fanno finire col respiro affannato e la bocca rossa e un brivido che se ne va a malincuore dalla schiena. Un bacio di quelli che conservo nella memoria, nel cuore, sulla pelle; un bacio di quelli da rivivere quando lui non c’è, da sognare la notte; un bacio da rifare e rifare e rifare fino a non poterne più.
Io e lui abbiamo sempre funzionato al contrario. Io ho finto di non amarlo. Lui ha finto che non gli importasse nulla di me. Io sto fingendo di odiarlo. Lui sta fingendo lo stesso. Sta mentendo quanto sto mentendo io. Va tutto al contrario, ma a me va bene così. Finché sorrido come sto sorridendo ora e mi viene da ridere e lui sorride allo stesso modo, va bene. So di non potergli strappare quelle due parole di bocca perché gli farei solo del male, perciò funzionare al contrario va bene. È il meglio che possiamo sperare di avere.
E averlo così è pur sempre meglio di non averlo affatto.
 



Heidi.

È tutto tanto bianco da togliere il fiato.
È un bianco onnipresente, che campeggia un po’ ovunque, dalle strade alle case coi tetti imbiancati ai fiocchi che continuano a cadere anche ora, sul parabrezza dell’auto del mio ragazzo, coi tergicristalli che fanno avanti e indietro come impazziti. È tutto bianco, ma non mi da fastidio. In fondo è piacevole anche solo vederlo, quel bianco, dopo tutto il nero che ho dovuto sopportare. È solo… totalizzante e strano da morire, perché non è solo bianco, ci sono anche i colori ed è ancora più strano perché non riesco a smettere di guardarmi intorno stupita e meravigliata. Come una bambina piccola, mi verrebbe da chiedere perché la neve sia bianca, o perché le foglie ancora sugli alberi non siano verdi come in primavera o perché i suoi occhi siano dello stesso colore di quelle poche foglie superstiti.
L’autunno, in quelle iridi, che non hanno smesso di tenermi d’occhio nemmeno per un istante. Né mentre mi vestivo con un paio di jeans, un maglione celeste e un berretto di lana, né mentre mi trascinava sorridendo alle infermiere per i corridoi dell’ospedale – come se non stessimo davvero passando di lì, come se effettivamente non stessimo scappando dal mio ricovero – né attraversando il parcheggio coperto di macchie di neve.
Mi osservano anche ora, le sue iridi, mentre i miei occhi assuefatti dal buio cercano di imparare di nuovo i colori, di riabituarsi al bianco della neve o ai verdi rossi e gialli dei semafori. Mi osservano mentre quasi senza accorgermene mi meraviglio delle cose più piccole e insignificanti o mentre mi scappa un sorriso a riconoscere una dopo l’altra le canzoni della playlist che suona in sottofondo mentre lui continua a guidare e io continuo a meravigliarmi. Sono le nostre canzoni – le mie canzoni che in qualche modo Zayn ha imparato ad amare e le sue canzoni che chissà come sembrano parlare di me, di noi – e le canticchio indisturbata, poco conscia della sua presenza o del paesaggio che ci scorre intorno.
I suoi occhi castani mi osservano di sottecchi mentre sollevo i piedi sul sedile, rannicchiandomi su me stessa e voltandomi quasi del tutto verso di lui per osservarne il profilo e imprimermelo bene in mente, quasi a renderlo indelebile e impossibile da cancellare. Mi osservano accennare un sorriso quando lo sento prendere a canticchiare con me qualche parola, perché anche se apparentemente non distoglie lo sguardo dalla strada, io so che i suoi occhi mi guardano, non mi mollano nemmeno per un secondo. Mi osservano mentre soprappensiero mi mordo un labbro, quando ad un semaforo lo guardo accendersi una sigaretta, aspirare il fumo nei polmoni ed espirare nella mia direzione, guardandomi direttamente ma ancora senza dire una parola.
Non c’è niente da dire. Parlare non serve a nulla.
Rovinerebbe il nostro piccolo miracolo, credo.
«Tutto a posto?».
Posa una mano sulla mia, una volta parcheggiata l’auto nel vialetto, vedendo che mi sto guardando intorno leggermente spaesata. Non sono tanto i colori, a confondermi, ma forse l’idea che mi ero fatta di casa sua senza poterla vedere. La immaginavo più… grande, credo. È una di tante villette a schiera, separate le une dalle altre da una staccionata; sono tutte uguali, tutte con lo stesso minuscolo giardino e la stessa coltre di neve a coprire ogni centimetro.
«E’ strano, tutto qui…».
È strano, e sono nervosa da morire, anche se non ne capisco il motivo. Sono già stata a casa sua, mi ha già toccata, mi ha già guardata e baciata e fatta sua. Sento il collo contratto, la mascella tesa e il labbro incastrato tra i denti senza che quasi mi sia accorta di stringere. Ho le palpebre abbassate, quando lo sento ridacchiare e avvicinarsi sensibilmente al mio viso, tanto da poterne sentire il respiro caldo sulla pelle, tanto da potermi baciare delicatamente sotto l’orecchio. Mi rilasso un secondo dopo l’altro, respirando meglio e sentendo i muscoli del collo distendersi a poco a poco che le sue labbra mi sfiorano; faccio sfarfallare le ciglia, sentendolo allontanarsi e aprendo gli occhi appena in tempo per vederlo giocherellare con la mia sciarpa, prima di sfilarmela da intorno al collo e legarmela a coprire gli occhi.
Mi mordo un labbro per non ridere, sentendolo poi slacciarmi la cintura di sicurezza e scendere dall’auto. Riconosco i suoi passi intorno all’auto, sulla neve, e il rumore della portiera dal mio lato che viene aperta. Sono di nuovo cieca, ma stavolta posso riderci su, perché è solo un gioco, è solo per la sorpresa e i colori ritorneranno in men che non si dica. Le mani di Zayn sono subito sul mio gomito e alla base della mia schiena, a spingermi delicatamente per farmi muovere i primi passi sul vialetto.
Diciotto passi. Tre scalini.
E poi dieci passi sul parquet, quindici scalini ricoperti di moquette e una decina di passi lungo il corridoio, al piano di sopra. Passiamo la camera della madre, quella di Safaa e il bagno, prima di fermarci all’improvviso, tanto che Zayn deve stringere la presa per non farmi cadere, mormorando delle scuse che si confondono con una mezza risata, un po’ mia e un po’ sua.
La porta cigola sui cardini, prima che Zayn mi spinga di un paio di passi all’interno e mi sfili la sciarpa dagli occhi fermandosi dietro di me dopo aver acceso la luce, cingendomi i fianchi e posando il mento sulla mia spalla, il naso che mi sfiora il collo e le dita che giocano con l’orlo del mio maglione. E apro gli occhi, ma non capisco cosa volesse che vedessi di tanto speciale che non sia il suo letto sfatto, la libreria stracolma di cd e la scrivania ricoperta di album da disegno e matite con la punta spezzata. Inarco un sopracciglio divertita, facendo per girarmi verso di lui e chiedere cos’abbia in mente.
Ma, al solito, mi anticipa.
«Guarda in alto». Un sussurro contro l’orecchio, lieve come le neve che cade.
E lo faccio. Guardo in alto, ma mentre mi aspettavo di trovare un soffitto bianco, monotono e triste, rimango a bocca aperta. Ci sono io, su quel soffitto. Ci sono decine di mie foto. Decine di me, decine di teste bionde, di occhi celesti, di sorrisi, di mani che coprono il viso come a volersi nascondere, come a voler rendersi invisibili, come a voler sparire dal mondo per il tempo di una risata. Decine di mani che si intrecciano, di labbra che sfiorano una guancia, di mani incastrate tra i capelli, di graffi sulla schiena. Pile di vestiti sparsi sul pavimento, lenzuola annodate, spalle nude con ciocche di capelli biondi che vi ricadono sopra coprendo la pelle, i nei, le cicatrici della varicella.
«Zayn… è incredibile», è l’unica cosa che ad occhi ancora sgranati riesco a dire senza balbettare né mettermi a piangere. Mi stacco da lui ancora con lo sguardo rivolto in alto, facendo qualche passo per godermi quella meraviglia da ogni angolazione possibile, trattenendomi a stento dal ridere, almeno finché non torno a guardare lui e il suo mezzo sorriso soddisfatto. Ride con me, Zayn, prima di muovere un paio di passi verso di me, senza perdere il sorriso soddisfatto e senza smettere di guardarmi negli occhi. Mi sento arrossire, ma non potrebbe interessarmi di meno.
«Mi ha detto Charlie che non hai creduto alla storia dei doppi turni… questo è il  motivo».
Annuisco e basta, non trovando altro da poter dire che non possa sembrare inutile o scontato. «E’ come guardarsi allo specchio…», mormoro passandomi distrattamente una mano sulla testa, ancora allibita dal suo gesto, dalla sua dimostrazione d’amore, da tutto quello che fa. «Quando me le hai fatte?»
«Quando non guardavi».
È sempre più vicino, eppure ridacchio, totalmente felice e spensierata. Quando non guardavi. Mi passo una mano sulla nuca, soprappensiero, giocherellando con la sciarpa che tengo tra le dita da quando Zayn me l’ha sfilata dal viso, da quando sono tornata ai colori dopo la nostra cecità per gioco.
Un pensiero mi attraversa la mente per un istante e inarco un sopracciglio trattenendo l’ennesimo sorriso… colmo la distanza che ci separa in un paio di passi, legandogli la mia sciarpa sugli occhi, in una piccola vendetta per quei mesi in cui lui mi ha potuto guardare quanto ha voluto e io sono rimasta nel buio, una marionetta tra le sue dita affusolate. Intreccio le dita con le sue, prima di alzarmi in punta di piedi per lasciargli un bacio sulle labbra, che sa di me, di lui, e forse un po’ di noi.
Mi scosto con uno schiocco di labbra che lo fa scoppiare a ridere, mentre un brivido mi attraversa la spina dorsale, acceso proprio dal suono di quella risata. Ma, sparita la risata, Zayn diventa una statua di cera tra le mie mani, immobile e totalmente alla mia mercé, per la prima volta da quando lo conosco.
Comando io, lui si limita a guardare il buio e a sentire le mie dita abbassare la cerniera della giacca di pelle e sfilargliela mentre mi mordo un labbro senza che lui debba per forza accorgersene… è esilarante. Lui si limita ad accennare un sorriso quando le mie dita trovano i lembi del maglione e lo tirano verso l’alto, seguendo la stessa via delle mani con gli occhi, scoprendo un centimetro di pelle alla volta, respirando ancora decentemente, almeno finché Zayn non solleva le braccia di riflesso per aiutarmi e il maglione scivola via, mostrando tutta la sua pelle e tutta insieme.
Sento le guance arrossarsi nel giro di qualche secondo.
Deglutisco, ma a parte l’ombra di un sorriso Zayn non reagisce. Rimane immobile, aspettando che io ritrovi il controllo del respiro, aspettando che le mani smettano di tremarmi almeno un po’. Respiro a fondo, e mentre espiro posso notare la pelle d’oca formarsi sul suo petto, sulle spalle, alla base del collo. È una cosa nuova, per me. È nuovo vederlo, come lo è vederlo mezzo nudo, o spogliarlo, o rendermi conto che è a causa mia se la sua pelle si ricopre di pelle d’oca. È una cosa nuova vedere tutti quei tatuaggi sul petto e sulle braccia e desiderare di baciarne centimetro dopo centimetro.
I secondi scorrono inesorabili, ma gli do poco peso. Li lascio scorrere senza curarmene, prima di prendere coraggio e posargli una mano sul collo, scendere lungo la spalla e lungo il braccio tatuato. Più piano che posso, come per stamparmi in mente ogni millimetro di pelle e ogni tatuaggio; lentamente e con calma, per abituarmi alla sensazione almeno finché non mi lascio andare e poso le labbra sulla spalla opposta, sentendo Zayn irrigidirsi con un sospiro strozzato.
Sono tentata di allontanarmi di scatto, credendo di aver fatto qualcosa di sbagliato, ma al contrario lui intreccia le sue dita con le mie, rilassando i muscoli del collo e del viso a mano a mano che le mie labbra ne assaporano la pelle, fermandomi con una mezza risata solo arrivata alla sua bocca e presa abbastanza confidenza col suo corpo. Non so quanto tempo stia passando, ma me la prendo comoda, esplorando con le dita il suo torace, la linea degli addominali, l’ombelico, le creste iliache leggermente in fuori. Le dita di Zayn si stringono con forza sulle mie, cercando di prendere aria quando le mie dita si fermano a contatto col bordo dei jeans.
Gli regalo un bacio sul mento, di nuovo con le dita che mi tremano e il respiro irregolare, perché improvvisamente non so cosa fare, non guardandolo, non così. Provo a scendere di qualche altro centimetro, ma esito di nuovo a contatto con la cerniera dei pantaloni, deglutendo rumorosamente e sollevando lo sguardo sul suo viso, sul sorriso che si allarga sulle sue labbra mentre si sfila la sciarpa dal viso e torna finalmente a guardarmi.
«Ciao…».
«Non so cosa…».
Ma le mie parole vengono fermate dalla sua mano sulla mia ancora ferma sulla cerniera. La abbassiamo insieme, tra un mio respiro spezzato e un suo sospiro soffocato appena sulla mia fronte. Insieme, facciamo scattare il bottone e spingiamo la stoffa verso il basso, dove poi Zayn li scalcia via insieme alle scarpe, prima di tornare a guardarmi negli occhi e fare la stessa cosa che io ho appena fatto con lui.
Mi spoglia piano, come volesse farmi abituare alla sensazione, anche se non mi è nuova. È solo diversa, perché ora posso vedere il modo in cui mi guarda, posso vederlo mordersi il labbro alla vista della mia pelle ora libera dal maglioncino celeste. È tutto diverso, perché vederlo trattenere l’eccitazione è più intenso che immaginarlo; vederlo davvero è più intenso che averlo solo pensato per tutti questi mesi; poterlo vedere mentre mi spoglia e mi tocca è… incredibile.
«Non spegnere…».
È un sussurro che mi esce a fatica dalle labbra, ma che fa comunque rumore e lui continua a guardarmi mentre spegne la luce principale e accende quella sul comodino, prima di giocherellare quasi distratto con ognuna delle spalline del reggiseno e tirarle verso il basso con un sospiro. Sento l’intimo scivolare via senza quasi che me ne accorga, troppo concentrata sui suoi occhi scuri che brillano come diamanti nella penombra.
Sembrano esserci una miriade di domande, in quegli occhi, che trovano ogni risposta nei miei, anche se sono il loro opposto e potrebbero sembrare totalmente incompatibili. Sembra chiedermi se sono sicura, e i le mie iridi brillano, come a dire di sì ma senza parlare. Sembra chiedere se va tutto bene, ed il mio sorriso urla, sembra gridare che va tutto meravigliosamente bene, come un sogno dal quale non vorrei svegliarmi mai più. E riesco solo a sorridere, ad annuire appena, inclinando la testa da un lato per poi finire di sfilarmi il reggiseno e sentirlo ridere.
La sua risata fa ridere anche me, anche se sono praticamente nuda e rossa in viso.
Non mi vergogno. Non davanti a lui. Non ce n’è motivo.
Non mi vergogno quando mi cinge i fianchi, né quando mi solleva da terra per lasciarmi andare solo sul materasso, con il fantasma di una risata a far breccia nelle mie orecchie. Non arrossisco quando mi spoglia dell’ultima barriera che ancora mi copre, né quando fa scivolare i boxer lungo le gambe e allarga le mie continuando a guardarmi, senza distogliere lo sguardo nemmeno per un attimo.
Non mi vergogno delle sue labbra posate giocosamente sulla punta del mio naso, né della mano che mi sfiora la gamba in tutta la sua lunghezza, fino a farmi cingere il suo bacino. Sempre occhi negli occhi, almeno finché non sono costretta a chiudere i miei per una manciata di secondi, al sentirlo entrare in me con una spinta, con le dita intrecciate alle mie e gli occhi sul mio viso, che sento osservarmi anche se non li vedo, come sempre.
Boccheggio per un momento, disincastrando le dita dalle sue per farle scivolare dietro al suo collo, sulle sue spalle, per graffiargli la schiena fino a farlo gemere appena. Allora riapro gli occhi, lucidi dal dolore momentaneo, e mi godo la sua espressione. È come… estasiato, nel guardarmi, e mi viene da sorridere, prima di sporgermi per baciargli appena le labbra e annuire, come a dargli il via libera.
E sono baci, mani che si sfiorano, pelli che si sfregano. Sono respiri che si mischiano, labbra che si cercano, guance che arrossiscono e goccioline di sudore che si formano, scivolando lungo i muscoli come sciatori sulla neve. Sono le sue labbra, che non riesco a smettere di guardare, schiuse appena in un eterno sospiro; è il mio nome che sfugge dalle sue labbra come una litania; sono i suoi muscoli che attirano l’attenzione delle mie iridi, contratti nello sforzo di tenersi su per non pesarmi.
Sono due gemiti più forti degli altri. Sono due “ti amo” sussurrati nella penombra.
È un mio bacio sulla sua guancia e un suo pizzico sul mio fianco, che mi fa scoppiare a ridere.
E mi accoccolo contro di lui abbracciandogli il bacino e lasciandogli un bacio sulla spalla, ascoltando il suo respiro farsi più regolare con ogni secondo che passa, finché non si addormenta con le labbra schiuse e il lenzuolo che gli copre a malapena i fianchi. Allora mi sollevo delicatamente su un gomito e osservo il suo petto alzarsi e abbassarsi al tempo del suo respiro, al tempo del battito tranquillo del suo cuore che mi risuona nelle orecchie.
Non riesco a dormire, troppo sveglia e concentrata su ogni centimetro di lui per poter anche solo pensare di chiudere gli occhi. Troppo amata per poter dormire. Troppo coccolata per abbassare le palpebre e tornare nel buio ora che posso finalmente vedere. Quindi lo guardo, gli sfioro un braccio attenta a non svegliarlo, gli stuzzico una guancia ispida… eppure non si sveglia, continua a tenere gli occhi chiusi e a respirare piano, regolare, tranquillo.
Tanto tranquillo che posso scivolare dalla sua presa per rivestirmi, dopo averlo osservato due ore senza che mi venga sonno. Infilo gli slip e il maglione, per poi camminare guardinga per la sua stanza, lanciando qualche occhiata al soffitto e esaminando la sua stanza. È la tipica camera di un ex adolescente, coi poster di qualche band semi-sconosciuta, la libreria carica di cd impilati in disordine, uno stereo lasciato acceso e con qualche cd dentro ma con le casse staccate.
E la sua scrivania. Colma di disegni. Di miei ritratti.
Mi rannicchio sulla sedia con qualche foglio in mano, osservando il suo tratto deciso sulla carta, la sua bravura nelle sfumature. Tocco con mano la consistenza della carta e del carboncino su di essa, lanciando di tanto in tanto uno sguardo dietro di me, all’artista sdraiato tra le lenzuola sfatte e che odorano ancora dei nostri sospiri e del nostro sudore. Lo vedo muoversi, tastare la parte di materasso nella quale dovrei essere sdraiata io, allora mi accorgo della luce che un secondo dopo l’altro si espande nella stanza.
È l’alba, e sono stata sveglia tutta la notte senza che mi pesi, tenendo gli occhi aperti e amando meglio che ho potuto e facendomi gli affari del mio ragazzo, scoprendo con un sorriso che non c’era nulla da scoprire che già non sapessi. Nessuno scheletro nell’armadio di cui già non sapessi l’esistenza – come ad esempio la foto incorniciata che lo ritrae con Perrie, ognuno con uno spinello acceso tra le labbra. Niente di nuovo, niente di nascosto, solo Zayn come l’ho imparato a conoscere in questi mesi, nei nostri momenti da bolla di sapone, quando il resto non esiste e lui è l’unica cosa sulla quale riesco a concentrarmi.
Ripongo i disegni al loro posto quando lo sento sospirare nel sonno, tornando in fretta a sdraiarmi accanto a lui, di nuovo sollevata su un gomito per poterlo osservare, accarezzandogli un braccio per cercare di capirne l’intrico di inchiostro che gli ricopre quasi ogni centimetro di pelle nuda. La storia della sua vita, dipinta addosso. Ne sono affascinata, e anche se non capisco il significato di ogni disegno, spero di restare con lui abbastanza a lungo da capirli tutti – abbastanza da poter essere anche io sulla sua pelle, un giorno.
«Non volevo svegliarti», mormoro in un soffio vedendo un mezzo sorriso affiorare sulle sue labbra, con gli angoli inclinati appena verso l’alto e il naso leggermente arricciato. Mugugna qualcosa, portandosi un braccio sul viso per coprirsi dalla luce e mordendosi un labbro all’accorgersi che sono sveglia e che l’ho davvero visto sorridere, o nemmeno mi sarei accorta che sia sveglio.
«Magari essere svegliati sempre così».
Ridacchio, abbassandomi per baciargli una spalla, prima di rimettermi sdraiata e accoccolarmi contro il suo petto cercando di reprimere uno sbadiglio, senza riuscirci. Zayn scoppia a ridere, di quella risata roca e terribilmente irresistibile che fa rabbrividire ed eccitare allo stesso istante.
«Magari a settant’anni ti sveglierò ancora così». Ridacchio, sollevandomi per poi sedermi a cavalcioni sul suo bacino, continuando ad osservarlo senza riuscire a smettere, mentre le sue dita mi accarezzano piano la schiena, le spalle, le cosce. Sono concentrata su quel che vedo, eppure non riesco a fermare un sorriso spontaneo dal formarmisi sul viso, che fa scoppiare a ridere il moro mentre io non posso far altro se non inarcare un sopracciglio, anche se vorrei solo baciarlo, baciarlo e basta. «Non riesco a smettere di guardarti», ammetto arrossendo e mordendomi un labbro.
Zayn mi tira un poco a sé, tanto vicina da riuscire a pizzicarmi un labbro con i denti.
«Io non riesco a smettere di sentirti», mi sussurra di rimando, senza smettere di toccarmi e con le labbra a pochi millimetri dalle mie.
Mi spunta l’ennesimo sorriso, prima che finalmente la sua bocca tocchi la mia in un bacio dei nostri, che parte piano e aumenta la velocità un attimo dopo l’altro, tanto che le labbra si fondono e fanno fatica a staccarsi per prendere fiato. Mi stacco da lui con un mugugno solo quando sentiamo un timido bussare alla porta della camera, anche se la presa di Zayn sui miei fianchi non accenna a diminuire e la sua risata roca mi risuona nelle orecchie come la migliore delle sinfonie.
«Mmm… fermo un secondo».
Rido forte, facendo presa sul suo petto per allontanarmi quanto basta per voltarmi e riconoscere la piccola Safaa sulla soglia, con solo la testa di capelli scuri che fa capolino attraverso la porta e una mano a coprirsi gli occhi. Mi divincolo dalla presa di Zayn continuando a ridere, perché sua sorella è troppo adorabile e dolce; e lui scoppia a ridere con me, mormorandomi un “ti amo” nell’orecchio e dicendo alla piccola che ora scendiamo.
Si prende qualche secondo per tornare a baciarmi, per solleticarmi i fianchi e nascondere con un sospiro il viso nell’incavo del mio collo, tanto che vorrei davvero rimanere in quel modo fino ad avere settant’anni, col mal di schiena, i capelli grigi e i tatuaggi sbiaditi dal tempo e che quasi svaniscono.
E, finalmente, va bene così.


 




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