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Autore: Eugenia_Rosini    18/12/2014    1 recensioni
"Grassa. Brutta. Strana. Sfigata.
Ecco, mi sono presentata. Queste quattro parole sono tutto quello che la gente sa di me, tutto quello che io so di me."
Genere: Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Grassa. Brutta. Strana. Sfigata.
Ecco, mi sono presentata. Queste quattro parole sono tutto quello che la gente sa di me, tutto quello che io so di me. Forse perché non c’è nient’altro da dire sul mio conto o forse perché nessuno, io per prima, non ha mai avuto la necessità di scavare più a fondo.
Guardo queste parole riflettersi nell’acqua sotto ai miei piedi e mi rigiro tra le dita una sigaretta spenta che non ho ancora avuto il coraggio di fumare. Ne ho comprato un pacchetto circa due settimane fa, ma non ne ho accesa neanche una. Ogni volta che vengo qui ne prendo una ma alla fine la butto nell’acqua e la guardo perdersi insieme a mille altri oggetti inghiottiti dal fiume che nessuno rivedrà mai più.
Chiudo gli occhi e immagino di essere una delle mie sigarette, in balia della corrente e poi persa nel nulla e mi rendo conto che sono già in balia di una corrente e sono già persa nel nulla.
È questo che è la mia vita ormai, ridotta ai minimi termini, come un’altra delle mie Sigarette Perdute, una nullità smarrita e che non verrà mai ritrovata.
Sento questa verità rimbalzare sull’acqua e raggiungermi, saltando per arrivare fino al ponte dove sono seduta, rovinando anche l’unico luogo che mi era rimasto dove potessi stare in pace.
È ora di andare. Butto la sigaretta nell’acqua fangosa e la mia immagine si distorce in tanti piccoli cerchi concentrici, dove sembra quasi che sorrida, che si stia prendendo gioco di me.
I cerchi svaniscono velocemente, come il sorriso falso e distorto.
Ora il mio riflesso mi rispecchia come sono realmente e, vedendola, mi invade quella consueta onda di disgusto che provo ogni volta che mi vedo.
Chiudo gli occhi per bloccare l’immagine e mi alzo rapidamente, pervasa da un’improvvisa necessità di allontanarmi il più in fretta possibile da questo posto.
Sto camminando così velocemente che sembra quasi che stia correndo. Arrivo a casa in pochi minuti e appena entro sento quel familiare senso di oppressione che mi assale ogni volta che sono qui.
Ovviamente un tempo non era così. Un tempo la mia casa era un posto sicuro, un guscio dove poter proteggermi da tutto e da tutti, mentre adesso non fa altro che ricordarmi la sicurezza che ho perso e che probabilmente non ritroverò mai più.
Le luci sono spente, sono sola.
Non le accendo e salgo le scale che portano a camera mia avvolta dall’oscurità e immersa in un silenzio profondo, interrotto solo dal ticchettio di un orologio.
Mi sdraio sul letto e fisso il soffitto. Quando ero piccola mio padre ci ha attaccato tante piccole stelle luminose e mi ricordo che mi divertivo ad inventarmi delle costellazioni nuove, segrete, che conoscevo solo io.
Alcune sono ancora lì, pallide e sbiadite, certo, ma sono ancora lì, dieci superstiti solitarie che per qualche strana ragione hanno deciso di non arrendersi.
Chissà come hanno fatto, chissà come hanno resistito così a lungo quando tutte le altre si sono spente.
Mi piacerebbe paragonarmi ad una di quelle stelle sopravvissute ma penso che tutti potranno confermare che assomiglio decisamente di più a tutte le altre.
Sulla scrivania, il mio telefono si illumina con insulti già assimilati ma che ogni volta lasciano un segno sempre più indelebile ed ho la certezza che non sarò mai come quelle stelle. Non resisterò per sempre perché ogni giorno che passa, infinito e dolorosamente prevedibile, mi avvicino sempre di più al punto di rottura, al punto di non ritorno.
Continuo a fissare le mie costellazioni segrete finché non sento gridare mia madre per dirmi che è pronta la cena.
Mangio poco, in silenzio, rispondendo a monosillabi se sono interpellata e stroncando sul nascere ogni tipo di conversazione che potrebbe riguardarmi.
Torno in camera mia. Mi sdraio un’altra volta sul letto, ma non guardo le stelle. Non ce la faccio a sopportare la vista di tutto ciò che non sono.
MI addormento poco dopo e mi sveglio al suono della sveglia che, come al solito dà inizio ad un’altra giornata vuota.
Alzarsi.
Colazione.
Bagno.
Pullman.
Scuola.
Grassa. Brutta. Strana. Sfigata.
Far finta di seguire le lezioni.
Far finta di non vedere i gesti dei miei compagni e di non sentire i loro insulti.
Far finta che non mi importi.
Tornare a casa e fare finta di essere felice.
Vado in camera mia, prendo il pacchetto di sigarette, estraggo una delle ultime due e me la metto in tasca e, come tutte le volte, mi assicuro di aver preso anche l’accendino.
Mi siedo sul punte deserto e prendo la sigaretta. Me la metto in bocca. Estraggo l’accendino e la accendo con mani tremanti.
Non ho mai fumato in vita mia, così quando ispiro tossisco forte e mi sembra di soffocare. Però sorrido. Sorrido perché finalmente ho trovato il coraggio di farlo.
Non sorridevo da tanto tempo, così tanto che i muscoli della faccia sono quasi indolenziti, sconvolti da questo movimento estraneo.
Penso che forse oggi troverò il coraggio di soddisfare anche l’altro mio desiderio e mi chiedo se magari riuscirò a sorridere mentre lo faccio.
Faccio un altro tiro e decido che, dopotutto, non mi piace fumare.
Butto la sigaretta accesa nell’acqua e immagino il suo fuoco che si spegne appena la tocca.
Vorrei che non spegnesse. Vorrei che toccasse il fondo ancora accesa e bruciasse tutte le altre.
Evito di guardare il mio riflesso perché voglio rimanere qui ancora per molto e non voglio che si ripeta quello che è successo ieri.
È strano. Mi sento diversa oggi, più risoluta. Come se avessi ben chiari i miei obiettivi nella mente. O forse dovrei dire obiettivo. Obiettivo che, se ne ho il coraggio, verrà raggiunto oggi stesso.
Mi rendo conto che non ho completamente paura, e non sono neanche completamente triste.
Sono come in un limbo, intrappolata tra le conseguenze di quello che voglio fare davvero e la consapevolezza di quello che proverò se non lo faccio.
Non so cosa fare ma dopotutto mi piace questo limbo. È come se fosse tutto più ovattato, più sopportabile. Però so che tra poco sarò inevitabilmente schiacciata dall’una o dall’altra possibilità.
Non so per quanto tempo rimango qui. Erano appena le due quando sono arrivata ed adesso sta iniziando a fare buio. Sembra quasi che il tempo qui non passi.
Quanto mi piacerebbe rimanere in questa Terra di Mezzo per sempre, dove il tempo non scorre e i sentimenti non pesano così tanto da schiacciarmi.
Dondolo le gambe incessantemente, come farebbe una bambina dell’asilo, facendo un rumore ritmico simile a quello di un orologio.
Tic tac. Il tempo passa ed io sono ancora qui, indecisa, con in mente una sola idea e miliardi di conseguenze.
“Mi pare un grande spreco, sai”.
Faccio un salto così alto che quasi cado dal ponte.
Mi giro. Accanto a me c’è un ragazzo, più o meno della mi età. Non mi sta guardando quindi non riesco a vedere la sua faccia, ma ha un’aria vagamente familiare con quei capelli neri arruffati e i vestiti che sembrano stracci ma che sono palesemente costosi, conferendogli un’aria da finto trasandato.
“Cosa?” Nella mia voce è appena percettibile lo stupore della sua presenza, ma sarà sono sicura che se mi guardasse sarebbe ben visibile nei miei occhi.
“La sigaretta, dico. Mi è sembrato uno spreco buttarla in acqua dopo appena due tiri”.
Mi sento ghiacciare il sangue nelle vene. Conosco questa voce, la conosco in troppo bene. Forse all’inizio non l’ho riconosciuta perché non c’era nessuna nota di derisione dietro di essa, ma sono sicura di non sbagliarmi perché solo sentirla riporta in superficie ricordi dolorosi che darei tutto per dimenticareli.
“Quanto tempo è che sei qui?” Provo una stretta allo stomaco nel pensare che se mi ha visto buttare la sigaretta deve essere qui da almeno un’ora.
“Da meno di due minuti”.
“Ma ho buttato la sigaretta almeno un’ora fa”.
Finalmente mi guarda. Aspetto che nei suoi occhi arrivi il disgusto che provano tutti ogni volta che mi vedono, ma non c’è, anzi non dà neanche segno di avermi riconosciuto. Sorride.
“Semplice, sono passato di qui un’ora e mezzo fa e ti ho vista fumare e mi sono chiesto cosa spingesse una ragazza a buttare nel fiume una bellissima sigaretta appena iniziata, così quando sono ripassato e ti ho visto ancora qui ho deciso di soddisfare la mia curiosità”.
Non mi chiede perché sono sul ponte da due ore e non mi chiede se c’è qualcosa che non va.
Forse sapeva che non gli avrei detto la verità se me lo avesse chiesto.
“Beh?” Chiede con le sopracciglia inarcate.
“Non mi piaceva”, rispondo secca e poi aggiungo, “era la prima volta che fumavo”.
“Sai la prima volta si dovrebbe sempre fumare con un amico, così se non ti piace la puoi dare a lui la sigaretta”.
Sono quasi tentata di dirgli che, grazie a lui non ho amici con cui provare ma mi mordo la lingua. Mi giro dall’altra parte senza dire niente. Ho deciso che non rivelerò chi sono, dopotutto è sempre meglio essere dimenticata che ricordata per essere la barzelletta della scuola.
Deve essersi accorto di aver toccato un tasto dolente perché cambia subito discorso.
“Non hai freddo? Io sto gelando. È molto freddo per essere aprile”.
A quanto pare stiamo già parlando del tempo. Beh, in effetti non deve essere facile instaurare una conversazione con qualcuno seduto su un ponte da più di un’ora. Soprattutto se la suddetta persona non è molto collaborativa.
“Mi piace avere freddo, il freddo rende insensibili”, dico con voce flebile.
Mi giro a guardarlo. Mi sta fissando con curiosità, come se fossi un animale dello zoo, imprigionato dietro delle sbarre e con l’unico scopo di intrattenere la gente.
Mi alzo improvvisamente, senza aspettare una sua risposta, e per la seconda volta in due giorni corro via dal mio ponte, sommersa da un’ondata di disgusto, anche se oggi stranamente non è rivolta verso di me.
                                                                         ***
Il ragazzo è lì che mi aspetta, oggi, dondolando le gambe proprio come facevo io ieri.
“Cosa ci fai qui?”, chiedo brusca.
Non voglio che stia qui, a invadere i miei spazi, a rubre i miei nascondigli magari trovando anche tutti i sentimenti che ci ho nascosto.
“Speravo che saresti tornata”.
“Perché? Cosa vuoi da me?” La mia voce ha iniziato a tremare e ho paura che scoppierò a piangere.
Si gira verso di me e mi guarda intensamente per qualche secondo.
“So chi sei”. Dice semplicemente, come se niente fosse.
Abbasso gli occhi aspettando che continui a parlare, magari che dica qualcosa di spregevole, di orribile, come al solito. Invece non succede niente. Nessuna parola lascia la sua bocca per atterrare sul mio cuore, già rivestito da mille insulti indistruttibili. Intorno a noi c’è solo un silenzio così profondo che è quasi visibile.
Io rimango in piedi. Sono come immobilizzata dal suo sguardo che percepisco fisso su di me ma che non oso incontrare.
“Mi dispiace”, dice infine.
Mi viene quasi da ridere.
Finalmente alzo gli occhi e incontro i suoi. Non so cosa sia cambiato, ma non sono più gli stessi a cui sono abituata, gli stessi occhi che per la prima volta mi ha fatto sentire come una nullità, che per la prima volta mi hanno fatto desiderare di essere morta.
Sono diversi, più tristi penso, ma anche più rassegnati, più comprensivi in un certo senso.
Stiamo in silenzio per qualche minuto, ognuno immerso nei propri pensieri.
Mi chiedo cosa stia davvero facendo qui, a parlare con me, quando sono così poche le cose da dire.
Tutto è partito da lui. Gli insulti, gli scherzi i pettegolezzi, sono stati tutti opera sua, e anche quando ho cambiato scuola mi hanno seguito e mi hanno schiacciata sempre di più, fino a ridurmi a quella che sono oggi, una poltiglia di sentimenti inutili e maligni.
Ed è stata solo colpa sua.
Dentro di me sento salire una rabbia che non ero più abituata a provare, una rabbia che si era spenta dopo l’ennesimo sgambetto davanti a tutta la scuola e che era stata sostituita da una rassegnazione devastante.
Faccio per andarmene, ma lui mi blocca, mettendo la sua mano sopra la mia caviglia. La distolgo velocemente, ma resto.
Alla fine è lui che rompe il silenzio. “Non lo credevo davvero, sai” sussurra. “Le cose che ti dicevo. Non le pensavo davvero”.
“Allora perché le hia dette?”
Passa qualche secondo prima che mi risponda.
“Non lo so”. Chiude gli occhi. “Non lo so”.
La rabbia dentro di me si fa ancora più potente. È come un leone inferocito e affamato che rincorre la sua preda. Non si ferma, non ha limiti.
“Ho cambiato scuola anch’io, lo sapevi?” No, non lo sapevo, ma la cosa non mi interessa neanche lontanamente.
“Dopo quello che è successo dovevo farlo”.
“Sicuramente lo avrai letto nei giornali”, continua.
Onestamente non ho idea di cosa stia parlando, non leggo frequentemente i giornali. Sono troppo presa dai miei problemi anche solo per ascoltare quelli degli altri. Pare che l’egocentrismo sia il mio più grande difetto.
“Non so niente”, dico infine. Sono curiosa di scoprire cosa ha costretto il “Ragazzo Perfetto” a cambiare scuola. A trasformalo in questa persona che a malapena riconosco.
“Beh sei una delle poche”, ribatte con un sorriso triste.
Mi siedo lentamente il più lontano possibile da lui. Sento che prende un grande respiro e poi comincia a parlare.
“C’era un ragazzo a scuola. Era molto secco, con gli occhiali, l’apparecchio, non aveva amici. Era indifeso, isolato. Innocente. Come puoi immaginare, io e i miei amici abbiamo fatto quello che avevamo già fatto con te e con altri studenti. Lo prendevamo in giro, lo ridicolizzavamo di fronte a tutta la scuola, a volta addirittura lo picchiavamo”.
Voglio dirgli di smettere di parlare, ma mi si è formato un nodo in gola talmente grosso che non riesco neanche a parlare. Così lui continua la sua storia.
“Un giorno non venne a scuola. Io dissi che finalmente aveva avuto il buon senso di non presentarsi.” Chiude gli occhi e una lacrima scivola lungo la sua guancia. La sua voce trema, così come le sue mani chiuse in un pugno così forte che le sue nocche sono diventate bianche. “No, non mi sono limitato a dirlo di fronte ai miei amici. L’ho urlato. Nella mensa, così che tutti potessero sentire. Ho riso, e anche tutti gli altri. Non venne a scuola neanche il giorno dopo e i suoi genitori denunciarono la sua scomparsa. Lo ritrovarono una settimana dopo, in un fiume. Si era buttato ed era solo e soltanto colpa mia”.
Racchiudo le ginocchia vicino al petto e mi dondolo lentamente, con le lacrime che i solcano il viso sconvolto. Conosco questa storia, è la mia, e quella di milioni di altri ragazzi la cui vita è stata resa un inferno da quelli che sarebbero dovuti essere loro amici.
“È questa la vera ragione per cui sono qui”, continua con voce fiebile, “volevo vedere il ponte da cui si era buttato e quando ti ho visto e ti ho riconosciuto mi sono chiesto se anche tu volessi farlo. Se volessi toglierti la vita. Non ce l’ho fatta a lasciarti perdere, così mi sono fermato a parlarti e oggi sono tornato. Non posso avere un’altra vita sulla mia coscienza”.
“Dovevi pensarci prima”.
Non dico altro, perché in fondo non c’è niente da aggiungere. Non voglio le sue scuse, i suoi inutili sensi di colpa e neanche i suoi complessi del supereroe.
Ormai il danno è fatto e sapere che si è pentito non cabierà il fatto che mi ha irreparabilmente rovinato la vita. Non c’è niente ormai che possa farlo.
“So che non posso fare niente per farmi perdonare ma ho bisogno di provarci”.
Lascio che le sue parole affondino bene dentro di me e aspetto che arrivi la soddisfazione. La soddisfazione di avere, per la prima volta, il potere nelle mie mani, di essere il giocatore invece che la pedina.
Aspetto, ma non arriva niente, nessun nuovo sentimento arriva a bussare alle porte del mio cervello.
“Provaci con qualcun altro, scommetto che c’è un mare pieno di persone a cui devi delle scuse. Spero solo che loro siano più disposti ad accettarle”. La mia voce è glaciale. “Adesso vattene, e non farti rivedere mai più”.
Si alza lentamente e mi guarda con uno sguardo che mi è molto familiare. È lo stesso sguardo che riservavo solo a lui, quando avrei dato qualunque cosa perché smettesse di tormentarmi. Anche in questo caso, però, non provo niente nel rivederlo nei suoi occhi, così mi giro dall’altra parte e aspetto di sentire i suoi passi in lontananza prima di rilassarmi.
Inizio a piangere, travolta da tutte le emozioni che non mi sono permessa di provare davanti a lui. Rabbia. Disperazione. Odio. Tristezza. Sono molte, ma tra di loro non ce n’è neanche una che assomigli a quello che pensavo che avrei provato davanti alla sofferenza di chi ha reso la mia vita invivibile.
Passa molto tempo prima che smetta, e dopo mi sento come al centro di un uragano. Attorno a me c’è la confusione più totale, ma non riesce a raggiungermi completamente, sono imperturbabile. Vuota.
Prendo la mia ultima sigaretta dalla tasca e la lascio cadere nel fiume.
Poi mi alzo e me ne vado senza guardarla affondare.
                                                                             
   
 
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