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Autore: wwwww    18/12/2014    4 recensioni
[Reincarnation AU - Ereri]
Mi sveglio annaspando. La luce grigiastra dell’alba mi abbaglia, ma non voglio, non posso richiudere gli occhi o ricomincerà tutto. Mi concentro sugli scacciasogni appesi al soffitto, sulle piume e i talismani e le corde intrecciate che dondolano piano, il rumore di fauci che si chiudono e carne lacerata ancora nelle orecchie. Sento l’odore del sangue nelle narici, la voglia di combattere che mi brucia nelle vene, inutile.
Qui non devo combattere, nulla tenta di mangiarmi, nessuna causa superiore per cui sacrificarsi, niente. Solo sogni. Respiro piano, a ritmo con gli scacciasogni che ondeggiano. Mi impegno a regolarizzare il respiro. Questo non era niente, mi ripeto. Ho vissuto cose peggiori della mia morte. Ci sono notti che mi risveglio urlando, mattine che mi ritrovo in un angolo della stanza avvolto nelle coperte col viso fradicio di lacrime, questo non era nulla. Continuo a ripetermelo.
Vorrei solo sapere perché.
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Eren, Jaeger
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
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Questa è la prima volta che scrivo qualcosa di serio, e anche la prima volta che mi cimento con la prima persona (che è un gigantesco e continuo dubbio). Sono abbastanza soddisfatta, ma mi sembra anche di non aver scritto un sacco di cose che potevo ancora dire, soprattutto nel finale, però non so come farcele entrare. Spero vi piaccia.







Il cielo immenso e azzurro macchiato di enormi cumoli bianchi di nuvole. L’odore del sangue e della carne in decomposizione, l’erba verde sotto i piedi e uno spazio infinito davanti. Le lame che affondano nella carne, nella mia carne, la rabbia che mi acceca e brucia tutto quello che ho di fronte, questo mondo maledetto e il dannato cielo enorme e la paura che avvolge ogni cosa. Tutto si fa nero, è troppo tardi, non sono abbastanza forte, abbastanza veloce, Mikasa urla e mi dispiace, mi dispiace, ma questa volta non potrà seguirmi.
Mi sveglio annaspando. La luce grigiastra dell’alba mi abbaglia, ma non voglio, non posso richiudere gli occhi o ricomincerà tutto. Mi concentro sugli scacciasogni appesi al soffitto, sulle piume e i talismani e le corde intrecciate che dondolano piano, il rumore di fauci che si chiudono e carne lacerata ancora nelle orecchie. Sento l’odore del sangue nelle narici, la voglia di combattere che mi brucia nelle vene, inutile.
Qui non devo combattere, nulla tenta di mangiarmi, nessuna causa superiore per cui sacrificarsi, niente. Solo sogni. Respiro piano, a ritmo con gli scacciasogni che ondeggiano. Mi impegno a regolarizzare il respiro. Questo non era niente, mi ripeto. Ho vissuto cose peggiori della mia morte. Ci sono notti che mi risveglio urlando, mattine che mi ritrovo in un angolo della stanza avvolto nelle coperte col viso fradicio di lacrime, questo non era nulla. Continuo a ripetermelo.
Vorrei solo sapere perché. Perché, tiro forte il lenzuolo e la stoffa cede e si strappa sotto le mie mani. Butto la testa indietro, il respiro affannato, la rabbia che mi soffoca. Perché. Perché devo sognare ogni notte ricordi di un mondo orrendo, la sensazione di essere in gabbia, persone mangiate vive. Una vita intera in un mondo che non esiste, neanche so se è esistito, se è vero o sono davvero da rinchiudere per sempre in quella clinica orrenda dove mi hanno buttato quelli che dovrebbero essere i miei genitori, prima di pentirsi vedendomi ridotto ad un vegetale.
Perché solo io. Mi ricordo, anzi, conoscevo persone che vedo tutti i giorni, che non hanno la minima idea di popolare incubi dove li vedo combattere e morire assieme a me, contro di me. Per me.
Mikasa. La nostalgia mi assale a ondate al solo pensarle. Mia sorella. So di averla salvata, di aver vissuto con lei e combattuto con lei e di averla fatta preoccupare a morte per me. Ricordo quando mi ha tirato fuori dal mio titano, tra cortine di vapore, il sollievo sul suo viso al sapere di non avermi perso. La bambina silenziosa che mi seguiva come un’ombra e mi tirava fuori dai guai. Il suo urlo disperato dell’ultima battaglia, quando non riuscì a salvarmi, non anche quella volta. Mi dispiace. Vorrei chiederle scusa per tutto, ringraziarla di essere stata con me, riaverla al mio fianco e affrontare insieme questo mondo nuovo.
L’ho vista per la prima volta quando ero in terza elementare. Ha un anno in più di me. Il primo giorno di scuola quelli di quarta erano tutti assiepati attorno a una bella bambina dai capelli neri e gli occhi profondi. Ai tempi ero solo un bambino terrorizzato da troppi ricordi per un corpicino così piccolo. Ero così felice quando l’ho vista. Le sono corso incontro, urlando il suo nome, ma lei mi ha solo guardato strano e ha chiamato la maestra preoccupata. Da quella volta abbiamo sempre frequentato la stessa scuola, ho sempre fatto in modo di seguirla per vedere se stava bene. Non si ricorda di me, non l’ha mai fatto, e va bene così. Merita di essere felice, almeno in questa vita. È sempre meravigliosa. Si chiama Sara. Si è diplomata con un voto altissimo, è stata alle Olimpiadi e ha vinto un bronzo e un oro, e tutta la Germania è innamorata di lei. I suoi genitori sono amorevoli e felici, ha poche amiche ma è benvoluta da tutti. Sono felice per lei, davvero, ma la nostalgia mi assale ogni volta che la vedo. È mia sorella, ma siamo estranei.
Non mi piace la piega che stanno prendendo i miei pensieri. Non mi porteranno da nessuna parte, non l’hanno mai fatto. Sono così stanco di tutto questo, tutti questi ricordi, queste persone, questa solitudine. Sono stanco di non sapere se è tutto vero o no, di essere l’unico a non avere pace.
Adesso basta.
Mi tiro fuori dal letto a fatica, abbandono il brandello di lenzuolo strappato. Zoppico fino alla cucina e metto il bollitore sul fuoco. La scatola di the nero è già mezza aperta sul tavolo. Non mi piace neanche così tanto, però… beh.
Eccomi qui, dunque. Ventiquattro anni, un diploma ottenuto a stento, nessun lavoro durato più di sei mesi, nessuna abilità particolare. L’unica cosa in cui me la cavo è sempre la stessa: combattere. I miei genitori le hanno provate più o meno tutte per tenermi sotto controllo, e quella è l’unica che ha funzionato. Karate, boxe, arti marziali. Sono bravo, quando mi ricordo le regole.
Quando avevo diciotto anni credevo davvero che sarebbe stata la soluzione ai miei problemi. Mi allenavo tutti i giorni, facevo incontri, si parlava di andare ai nazionali. Davo anche lezione ai bambini, per guadagnare qualcosa. Mi piacevano, quei mostriciattoli. Tutto andava bene, per la prima e unica volta, persino gli incubi si erano calmati. Poi è successo.
C’era questo bambino, che veniva sempre accompagnato da suo padre. Era carino, con i suoi occhioni scuri enormi, la pelle olivastra, il sorriso paffuto. Dopo ogni lezione suo padre lo infagottava nel suo piumino verde, tutto orgoglioso, e lo portava a mangiare qualche schifezza. All’ultima lezione del corso ho visto per la prima volta sua madre. E non è sua madre, è mia madre, anche se era una vita fa e lei non lo ricorda e forse non è vero, ma è mia madre e ora lei ha un marito e un altro bambino e mi dà del lei per ringraziarmi di tutto quello che ho fatto per suo figlio. Non ce l’ho fatta. Ho lasciato tutto, smesso di insegnare, di allenarmi, ogni cosa. Le mie notti sono diventate più orrende che mai. Poco dopo ho scoperto cosa ferma davvero gli incubi: cocaina.
Solo che i miei genitori se ne sono accorti, sono finito in mezzo ad una rissa di troppo e quindi mi hanno spedito dritto in una clinica psichiatrica. Sei mesi, in teoria, anche se mi sono sembrati anni, secoli pieni di bianco abbacinante e medicine e gente che mi fissava. Poi mi hanno tirato fuori e i miei genitori hanno avuto pietà di me.
Vorrei tornare ad insegnare, mi piaceva. Le palestre però non cercano ventiquattrenni falliti con alle spalle tre denunce per rissa, sei mesi di clinica e problemi di tossicodipendenza.
Ogni tanto ci vado, però. Sto pensando a troppe cose a cui non dovrei pensare, oggi. Tirare pugni a qualcosa mi calma.
 
Cambio palestra spesso, ed ora è il turno di una piuttosto sfigata ma poco lontana dal mio appartamento. È in linea col resto del quartiere, perlomeno. È su due piani, con la scala antincendio che gli si arrotola attorno. Dentro al posto dei muri ci sono grandi pareti di plexiglass, ripassato col nastro isolante in alcuni angoli. Nel complesso è a posto, però. Molto pulita.
La ragazza alla reception sbarra due caselle sul mio abbonamento senza smettere di fissare il vichingo che fa pesi due panche più in là. Entro negli spogliatoi, mi cambio, ci metto una quantità di tempo infame a fasciarmi le mani.
Una volta ho provato a mordermene una, per vedere se succedeva qualcosa. Ho ottenuto solo cicatrici, un paio di punti e qualche pagina in più da aggiungere alla mia cartella clinica.
Attraverso il piano terra, pieno di attrezzi e salgo di sopra, dove c’è la roba veramente interessante: un tatami sintetico da far paura, un paio di ring, protezioni di gommapiuma come se piovessero, i sacchi da boxe appesi al soffitto. Il mio preferito è quello più lontano dagli altri, nell’angolo vicino all’uscita antincendio. Oggi però è occupato. Lo vedo sobbalzare anche da questa distanza. Chiunque lo stia usando deve sfogarsi quanto me.
Sorpasso il ring e un ammasso di gommapiuma e lo vedo, di spalle. È piccolo, ma è forte. Sa come muoversi. Sembra quasi… no, non devo.
Si ferma un attimo a prendere fiato e si asciuga il sudore. Si volta leggermente, e lo vedo.
Quegli occhi.
Non sembra, è.
Mi torna tutto in mente, tutto assieme, e mi colpisce come un pugno nello stomaco. Il soldato più forte dell’umanità, che si staglia invincibile tra il vapore dei titani sconfitti. Il suo cadavere tra le mie braccia, Armin che mi tira via, ma è morto per me, per colpa mia, non posso lasciarlo.
Quando l’ho baciato, quella notte in mezzo al grano. I nostri corpi stretti insieme, i suoi ansiti contro il mio orecchio, il riflesso della luna sulla sua pelle.
I suoi occhi.
Sono così felice di vederlo, ma mi vergogno così tanto. Lui è morto per me, e io non ho ottenuto nulla nonostante il suo sacrificio. Mi chiedo se lui si ricorda di tutto questo, o sia solo nella mia testa, mie fantasie su un estraneo.
Mi viene da vomitare. Sto respirando più veloce che posso ma non mi arriva aria.
Io… io…
«Caporale…» mi sfugge, prima che possa pensarci.
Sento che potrei rompermi da un momento all’altro.
Si è accorto di me, si volta del tutto.
È giovane, me ne rendo conto solo ora. Ha il viso più tondo, è più minuto. Non ha più quelle rughe minuscole attorno agli occhi. Diciassette, diciotto anni al massimo. Cavolo, stavolta sono io quello vecchio.
Mi guarda negli occhi solo un attimo, il suo sguardo grigio mi si conficca in testa come una scheggia. Mi ha riconosciuto? Pensa che io sia solo un imbecille in piena crisi di panico? Cosa?
Mi guarda davvero per solo un attimo. Una frazione di un attimo. Poi inizia a correre e si butta fuori dall’uscita di sicurezza.
Perché. Cosa. Non capisco nulla, tutto è annebbiato, tutto sembra storto. Cosa è successo. Perché è scappato. Cosa significa.
Qualcuno mi sta toccando il braccio. Non respiro più. Mi rendo conto che non è il mondo ad essersi inclinato, sono le mie gambe che non hanno retto.
Ridicolo. Dopo tutto quello che ho passato, dopo una vita a combattere mostri, non può venirmi un attacco di panico perché ho visto qualcuno.
Scosto quelli che mi stanno circondando preoccupati. Sono uno, due, tanti? Non ne ho idea, non me ne frega. Mi precipito giù per le scale, fuori dall’uscita di sicurezza. L’allarme antincendio sta suonando, me ne accorgo solo ora. Chissenefrega.
Non lo vedo. Manco un gradino, ne faccio sette col sedere, non m’importa. Sono in fondo. Lo vedo svoltare in un vicolo.
Sono più veloce io, in questo mondo. Sono più grande, più forte, più allenato. Però appena volto anch’io non lo vedo più. Non capisco in quale delle tre traverse si sia infilato, non sono ancora pratico della zona, cazzo, se solo non avessi passato tutti quei pomeriggi a farmi seghe mentali sul divano. Che sia fuggito sul tetto? Sarebbe nel suo stile, ma non ci sono sistemi di manovra tridimensionale, qui, e nemmeno siamo in un videogioco. L’ho perso. Non so se lo ritroverò. E se anche lo facessi, in cosa potrei sperare.
 
Sono finito dall’altra parte della città, anche se non ho il minimo ricordo di come ci sono arrivato. È buio. Era pomeriggio, quando sono uscito dalla palestra. L’orologio della farmacia due edifici più in là segna le due e quarantatré. Ha piovuto, la strada è rigata da riflessi di luce sintetica.
Mi rendo conto solo ora che ho un freddo cane. Sono in maniche corte a novembre, e sono bagnato fradicio, con un’idea molto vaga di dove mi trovo. Non me ne frega niente. Continuo a vederlo davanti a me, i suoi occhi, vederlo scappare via.
Non anche lui. Mikasa è un’estranea, mia madre non è più mia madre, mio padre non esiste, Armin non l’ho ancora incontrato. Non anche lui.
Voglio rivederlo. Non m’importa delle conseguenze, se si ricorda, se è tutto vero, voglio vederlo, parlargli, e sapere se sta bene.
 
Non ho idea di dove iniziare a cercarlo. Cambio tre autobus notturni per tornare al mio quartiere. Spero di vederlo comparire dietro ogni angolo, in ogni ombra che si muove. Non incontro più di dieci persone, più che altro ragazzini che tornano a casa a orari improbabili, il fornaio, un paio di senzatetto.
A quest’ora sembra tutto irreale, sospeso tra le luci dei lampioni. Tutto identico e stabile per un tempo infinito prima dell’alba, in cui vago alla ricerca di qualunque cosa.
Il cielo diventa rosellino pian piano, poi grigio lattiginoso. È ancora nuvolo.
Ogni tanto incontro qualcuno che esce di casa presto, un paio di anziani già a spasso col cane. Di lui nessuna traccia.
C’è luce, adesso. Mi vedo riflesso in una vetrina. La maglietta è diventata una cosa unica con la mia pelle e ha cambiato colore. Le scarpe sono completamente infangate, devo essere passato per un parco. Ho tutta la faccia rigata di polvere e sudore, i capelli appiccicati al cranio, gli occhi rossi che fanno fatica a rimanere ancora aperti.
Cosa sto facendo. Non lo troverò mai, vagando a caso alle quattro del mattino. Se anche lo facessi, poi, non potrei presentarmi così lurido. Devo tornare a casa, darmi una ripulita, pensare a un piano decente. Vorrei tanto Armin con me.
 
Mi risveglio seduto nel cubicolo della doccia, l’acqua ormai fredda che mi piove sopra. Dovrei dormire un po’, nel letto stavolta, ma non ce la faccio ad aspettare ancora.
Voglio vederlo. Voglio sapere cosa fa, dove vive, se è felice. Se almeno lui si ricorda, ma è inutile illudermi.
Lo rivorrei indietro. Vorrei poter stare con lui senza il rischio di morire in modo orrendo da un attimo all’altro, senza governi da rovesciare e ordini da eseguire e battaglie da combattere. Solo io e lui, liberi.
Potremo andare al mare. Ci sono stato, ma guardarlo da solo, senza nessuno che capisca davvero perché un’immensa massa d’acqua significa così tanto è triste, e senza senso.
Continuo a vederlo, a rivivere la scena. Mi vede, i suoi occhi incrociano i miei, un attimo solo, e poi scappa. La sua espressione era… non sembrava stupito, o meglio, anche quello, ma l’emozione predominante sembrava più non paura, ma… non lo so. Sembrava panico, ma non l’ho mai visto nel panico, non sono sicuro. E poi, perché era nel panico? Pensavo che sarebbe stato felice. Ho sempre creduto che mi avrebbe fissato seccato e mi avrebbe chiesto perché ci ho messo così tanto. A quel punto sarei probabilmente scoppiato a piangere e ci saremmo baciati, finalmente, e tutto avrebbe avuto senso.
Basta. È inutile illudersi. Se è tutto solo nella mia testa, anche stavolta, io…
Se non è vero, se non si ricorda, se ha reagito così solo perché un tizio lo stava fissando, allora voglio sapere cosa gli è successo in passato, ammazzare di botte chiunque l’abbia ferito.
Basta. Basta pensare alle conseguenze, basta con le aspettative. Devo trovarlo, poi vedrò se cadere a pezzi del tutto.
Non riesco a muovere le gambe. Cazzo, sono un idiota. Non riesco a chiudere la doccia, non riesco ad uscire, muovo a malapena anche le braccia. Mi fa male tutto. Sono un idiota, voglio uscire. Aiuto le gambe a piegarsi con le mani, le massaggio finché non sento di nuovo qualcosa. Alzarmi abbastanza da raggiungere il rubinetto è una fatica immane. Mi trascino fuori, fino al letto, lo scalo. Non posso far altro che aspettare di ritornare a posto.
Potessi almeno cercare su internet. Non so neanche cosa, qualsiasi cosa. Il mio cellulare però è ancora nella borsa, e la borsa… la borsa. Anche lui è scappato senza. Se mi muovo, forse tornerà a cercarla. È un legame, l’unico che ho. Devo muovermi, anche se non ci riesco. Rimango fermo a stento altri dieci minuti, il tempo di sentire di nuovo le gambe. Adesso sono acciaccato ma a posto. Mi lavo i denti, do un vago senso ai capelli, sono tentato di infilarmi una camicia ma andiamo, chi voglio prendere in giro. Infilo una maglia e una felpa pulite, i jeans migliori che ho e mi ricordo del cappotto solo quando sono fuori di casa. Chissenefrega.
 
Alla palestra mi guardano come se fossi pazzo, quando entro come una furia. Che si fottano. Non è passato prima di me, e ci sono due borse rimaste da ieri sera.
Faccio una cosa stupida. Quando la ragazza alla reception mi chiede qual è la mia, prendo quella che potrebbe essere sua. Non sono neanche sicuro. La ragazza mi guarda uscire sospettosa. È la stessa di ieri, alla fine questo posto è piccolo e lui ha fatto scattare l’allarme antincendio. Forse si chiede che stronzo colossale io sia per far scappare così qualcuno.
Attraverso la strada e vado a sinistra, in modo da non essere proprio di fronte all’entrata ed essere sospetto. Mi siedo su una panchina tra due aiuole rachitiche, la borsa sulle ginocchia.
Dentro trovo tre pacchetti di fazzoletti, gel disinfettante per le mani, i vestiti piegati ed ordinati come neanche sapevo potessero stare dentro una borsa, una sciarpa blu di lana. Odora di sapone di Marsiglia, un po’ di smog e sotto sotto, in fondo, c’è uno spettro dell’odore della sua pelle. Non è come lo ricordavo. In questo mondo c’è l’acqua corrente, i bagnoschiuma, tante cose. Non è lo stesso odore, ma è il suo.
Le lacrime mi scendono prima che possa fare qualunque cosa. Sto attento a non sporcare nulla.
Quando ritrovo un minimo di decenza guardo nel taschino interno. C’è il cellulare, molto piatto, molto leggero, probabilmente costoso. Non riesco a immaginarlo mentre lo usa. Magari su internet è famoso e io non l’ho mai scoperto, troppo preso a fare l’asociale. Me lo immagino con il solito sguardo incazzato che si scatta foto in bagno. Rido come uno scemo, spavento un cane e il suo padrone. Non vedo l’ora di incontrarlo.
Nel taschino c’è anche il portafoglio. È sottile, semplice, di pelle marrone. Questo è più da lui. Dentro è ordinatissimo, non come il mio che trabocca di scontrini. Carta d’identità, tessera sanitaria, abbonamento dell’autobus e della palestra e un altro paio di tesserini colorati sbucano dai loro taschini ordinati come soldati. Posso scoprire come si chiama, dove abita, quanti anni ha. Mi tremano le mani. Non so se voglio saperlo. Oh, ‘fanculo.
La foto minuscola della carta d’identità mi guarda arcigna. Matthias Veil. Diciassette anni. La via non mi dice nulla, ma del resto sono in questa città da tre mesi.
Trovo anche le chiavi di casa. Potrei… no, aspetterò qui. Voglio vedere se compare, o se ha così tanta paura di incontrarmi da abbandonare le sue cose.
La sua sciarpa ha un così buon odore. Voglio vederlo.
 
Aspetto su quella panchina per ore. È giovane, potrebbe essere a scuola, anche se è sabato. Su una tessera c’è scritto quale frequenta, ma il nome non mi dice nulla.
Al diavolo. Non sono bravo ad aspettare. Sono le quattro, non arriva, non ne posso più. Se solo non avesse il cellulare morto potrei cercare la via. Bella mossa abbandonare il mio.
La gamba destra mi trema. Non ne posso più.
Alla fermata della metropolitana hanno una cartina, ricordo all’improvviso. Corro.
 
La gente. Non l’ho mai sopportata, la gente. Vorrei potermi trasformare e spazzare via tutti. Invece attendo paziente che la folla mi lasci passare e mi faccia vedere la dannata cartina. Ci metto dieci minuti solo per trovare dove sono adesso. Ripercorro le vicinanze, seguo le vie principali, guardo tutte le traverse, ma non la trovo. Insisto. Non può essere lontana, è scappato a piedi. Però nel portafoglio aveva l’abbonamento dell’autobus. Cazzo.
Controllo tutto. La mappa è divisa in quadranti, li analizzo uno a uno.
Ci metto secoli, ma la trovo. D5. Studio la linea, la strada, ce la dovrei fare. Vado.
 
Non ce l’ho fatta. La fermata è giusta, sono andato a destra e ho imboccato la traversa e svoltato alla terza via e a un certo punto devo essermi perso. Non ne posso più. Voglio trovare la casa, voglio trovarlo. L’aspettativa mi scava un buco dentro che lotta e brucia per essere riempito. Vorrei correre e vomitare e prendere a pugni il mondo, tutto assieme.
 
Forse mi ci sto avvicinando, sono in una zona residenziale. Belle case, villette a schiera ordinate, ognuna col suo giardinetto. È tutto molto pulito e bianco.
Una signora anziana mi fissa arcigna mentre annaffia le begonie, o almeno credo siano begonie. In ogni caso, non sembrano molto vive.
Lo sguardo che mi dà quando le chiedo indicazioni riassume tutto quello che pensa della mia generazione, però si degna di snocciolare due informazioni e dirmi di andare a mettermi un cappotto, giusto cielo, che è quasi dicembre. La ringrazio a denti stretti e quasi quasi mi caverei anche la felpa giusto per farla contenta, ma in effetti fa freddo.
Non mi fido molto delle indicazioni, ma tanto vale provare.
 
Non so se è una botta di culo o la signora in fondo aveva buon cuore, ma ci sono. La via è quella giusta, devo solo trovare il numero. Cristo. Non riesco neanche a muovermi bene, inciampo sui miei piedi.
Le case qui sono più belle rispetto al resto del quartiere. Sono tutte villette bifamiliari, a due piani, con i muri bianchi e i tetti spioventi di tegole rossicce, il giardino diviso da una siepe. Alcuni hanno un cane, altri sono pieni di casine di plastica e altri giochi per bambini. Qualcuno ha già fuori le luminarie natalizie.
Cazzo. Sono al trenta. Quella che cerco è la numero trentatré.
Corro. Voglio vederlo, devo vederlo.
Casa sua è la più bella di tutte. È identica alle altre, ovvio, ma ha la facciata per metà coperta di edera ingiallita dall’autunno. Ha un giardino ben curato e bello anche se è autunno. Il campanello recita Veil.
Mi chiedo quale delle finestre sia quella della sua camera, come sarà la casa dentro.
Finalmente sono qui. Cosa sto aspettando a suonare il campanello? Non vedevo l’ora di essere qui e ora esito. Mi trema la mano, mi prenderei a schiaffi da solo. E se… e se un cazzo. Metto fine ai miei pensieri premendo il pulsante con forza, troppo a lungo. Mi fa un po’ male il pollice.
Inspiro e non espiro più. Non ho niente in testa, solo bianco e il formicolio dell’anticipazione.
Niente. Niente. Non sta succedendo nulla. Non una tenda che si muove, il citofono, nulla. Non vuole vedermi. Perché non…
«Sì?» una voce femminile risponde al citofono.
Non… chi… non riesco a pensare a nulla.
«C’è nessuno?» chiede, un po’ seccata.
«Uhm, sì, io…» avanti, imbecille, articola «cerco Le… Matthias. Cerco Matthias. È in casa?»
«Sei un suo amico? Non mi sembra di averti mai visto» Videocitofono. Fottuta tecnologia. Pensa, idiota.
«Io…» una scusa, diavolo, una scusa. Sono troppo agitato per inventarne una. «Ha lasciato la borsa in palestra. Volevo restituirgliela» suono strano da morire.
«Oh, che gentile! Entra pure!» il cancello si apre con un clank.
Apro il cancello, intontito dall’incredulità e dai miei pensieri. Non voglio sembrare un perfetto idiota a sua madre, quindi mi do una mossa. La stradina dal cancello alla porta non è come quella delle altre case, è fatta di sassi grandi e piatti come isolette. Me lo immagino da bambino che salta da uno all’altro, attento a non pestare gli spazi. Mi si stringe il cuore.
La porta d’ingresso si apre. È sua madre davvero. Ha gli stessi lineamenti, anche lei sembra più giovane di quello che probabilmente è. Fa male.
«Sei stato molto gentile» mi dice «non so cosa gli sia preso, lasciare in giro borsa e tutto! Di solito è così puntiglioso»
Mi guarda come a chiedermi scusa. È un po’ come guardare lui, con un’espressione gentile sul viso e i capelli lunghi. È stranissimo. Non riesco a pensare, sono concentrato sul non scoppiare a piangere o a urlare o tutte e due insieme.
Io… come glielo spiego. Voglio vedere suo figlio. Lo amo, sono due vite che sono innamorato di lui, anche se forse non è vero, ma devo vederlo o non lo so neanch’io.
«Nessun problema» mi scollo dal palato. Cristo, devo sembrare un imbecille totale.
Mi guarda un po’ preoccupata, infatti.
«Non hai freddo, solo con la felpa?» sembra molto sottintendere un “ma ti si è congelato il cervello, ragazzino?”. La conosco quell’espressione. Sono così felice di vederla, e fa così male.
«No, davvero, e poi sto andando a correre» sono anche riuscito ad articolare una scusa. Finalmente do prova della mia mancata cerebrolesione.
«Vai anche tu a correre a Stadtwald? Mio figlio passa più tempo là che a casa» non respiro più. Devo uscire, scappare via, trovare quel dannato parco o quel che è.
«Sì. Uhm. Allora io vado. Mi saluti suo figlio, arrivederci» non lo so come ho fatto a parlare. Me ne rendo conto quando sono già fuori dal cancello e sto correndo verso una direzione a caso.
Chiedi indicazioni alla prima persona che vedo, a malapena la guardo, non aspetto nemmeno che finisca di parlare. L’ho vista. Le cime degli alberi spuntano da sopra le case. Non ho più bisogno d’indicazioni.
Il parco sembra un posto perfetto per andare a fare pic-nic i giorni di festa e poltrire al sole d’estate. Spiare le ragazze che prendono il sole, anche, se interessa il genere.
Poi ci sono gli alberi. Sono vecchi, e grandi. Oltre il prato sembra ci sia una foresta vera, e sembra quasi… beh, la cosa più vicina al mondo che ricordo che si possa trovare in mezzo ad una città. Mi guardo attorno febbrile, scruto i sentierini ricoperti di foglie morte, alla ricerca di un segno. C’è qualche persona, ma non lui.
Il cuore mi batte così forte che lo sento, il sangue mi pulsa nelle orecchie. Potrei vomitare da un momento all’altro. Il respiro mi si condensa in nuvolette tremolanti, faccio fatica ad inspirare.
Dove devo andare? Guardo gli alberi, il bosco, i sentieri. Mi metto a correre verso quello di fronte a me. Devo fare in fretta, è quasi il tramonto. Rischio che se ne vada a casa prima che possa incontrarlo.
Potevo aspettarlo di fronte al suo cancello, lo realizzo solo ora. E sua madre mi ha detto che viene qui spesso, non che è qui adesso. In qualche modo, però, sento che questo è il posto giusto. Forse sono impazzito del tutto.
Questo posto sembra una foresta sul serio, la città è sparita dietro gli alberi. Tutto si è fatto grigio, devo muovermi.
Scelgo la strada completamente a caso, attraverso piccole radure e percorro sentieri larghi adatti a coppie col passeggino e altri minuscoli che sembrano fatti dai cerbiatti. C’è anche un piccolo fiume, gonfiato dalla pioggia e zeppo di foglie cadute. Mi piace questo posto. Sembra davvero il mondo che ricordo, e questo mi fa sperare ed è come un pugno continuo nello stomaco.
La zona dove sono ora è piena di sempreverdi. Abeti, credo. Per terra è pieno di aghi secchi.
Non ce la faccio più a correre, la milza mi sta uccidendo. Barcollo piegato in due, alla ricerca di qualunque cosa.
Mi appoggio un secondo a un albero, chiudo gli occhi per riprendere fiato. Non ho speranze. Questo posto è enorme e lui non vuole vedermi e sono sfinito. Non bevo da ieri, non mangio da ancora più a lungo. Sto per crollare.
Cosa diavolo mi è preso. Ho saltato il lavoro, non ho nemmeno avvertito, mi viene in mente solo ora. Mi licenzieranno se non invento una buona scusa, e non ce la farò mai. Non sono in grado in condizioni normali, figuriamoci ora. È il secondo lavoro che perdo da quando sono qui. Chissenefrega.
Non ce la faccio più. Ho passato anni a mentirmi, convincermi che quello che ricordavo e sognavo non era vero, che tutto sarebbe passato, prima o poi, e avrei avuto una vita normale. È bastato vederlo e tutto è andato in frantumi. Non me ne importa più niente della mia vita, voglio solo sapere se sta bene. È morto per me, e io non ho ottenuto nulla nonostante il suo sacrificio; che sia vero o no, gli devo qualcosa.
Mi sento in colpa e frustrato e arrabbiato e fa schifo, schifo, non ne posso più. Voglio levarmi questo peso, voglio essere leggero, libero.
Dei passi. Il tramonto ha reso tutto grigio chiaro, spento. Arriva qualcuno, e il rumore dei passi sogli aghi mi risveglia dai miei pensieri.
Nonostante tutto ci spero, invece…
 
Levi si blocca davanti a me, gli occhi sgranati. Si morde un labbro.
È lui davvero. È qui.
«Caporale» la voce mi si spezza. Sono patetico.
«Eren» mi risponde. Non mi guarda. Mi blocco, il mondo si inceppa. Eren. Mi ha davvero chiamato Eren, il mio nome, il… è vero. È tutto vero, e lui si ricorda di me e non sono pazzo, non mi sono immaginato tutto, i titani sono veri e le persone che conoscevo sono vere e anche lui è vero.
Ho qualcosa, dentro, tutta la mia ansia e la paura e tutte le cazzate degli psicologi e dei miei genitori, tutto evapora, e sono così sollevato che potrei morire ora e sarei felice.
Mi tremano le labbra, mi trema tutto. Devo essere sicuro di avere capito bene.
«Quindi… i titani, noi, tutto quanto… è vero? Non sono pazzo?»
Mi guarda come se si sentisse in colpa, come se fosse colpa sua.
«Certo che è vero. Non avevi mai incontrato nessuno?»
Oh, sì che l’ho incontrato. Mikasa, mia madre. Jean e Marco, quando avevo sedici anni e ero in gita scolastica a Berlino. Jean era vestito da cowboy. È strano come un ricordo possa farti un male cane e morire dal ridere insieme. Sasha e Connie sono due bambini del quartiere dove vivono i miei genitori. Nanaba insegnava arte al mio liceo, e era a un passo dalla pensione. Hannes è stato il mio primo insegnante di karate.
«Sì, ma nessuno ricorda» è tutto quello che mi esce.
Corruga la fronte, stupito. È così piccolo, e giovane, e non l’ho mai visto così fragile.
«Tu chi hai incontrato?» non riesco a trattenermi.
«Erwin» mi risponde laconico. Ovvio.
«Abita di fianco ai miei nonni. Deve ancora compiere dieci anni ed è già viziato e intelligente da far schifo» continua.
Voglio continuare ad ascoltarlo parlare, di qualunque cosa.
Voglio toccarlo. Lo realizzo all’improvviso, il bisogno mi colpisce come uno schiaffo. Voglio toccarlo, sentirlo vivo e vero contro di me, riaverlo indietro.
Rimango in silenzio, e lo guardo.
Lui abbassa gli occhi, preferendo gli aghi sul terreno a me. Sembra triste, all’improvviso. Non l’ho mai visto mostrare così tante emozioni in così poco tempo. Forse solo in quelle mattine in cui andava tutto bene, si svegliava di fianco a me e quasi mi sorrideva. Potremo viverne altre, forse. Non oso sperarlo.
«Scusa se sono scappato» sputa fuori, gli occhi sempre bassi.
È vero. È scappato. Non ci stavo più pensando.
«Perché l’hai fatto?»
Mi guarda negli occhi, il suo sguardo grigio si conficca nel mio. Ha gli occhi più grandi, in questa vita.
«Guardami» accompagna le sue parole allargando le braccia, per poi rificcarsi le mani nelle tasche. «Ho diciassette anni. Sono un ragazzino. Tu sei grande, invece, e avrai un lavoro, qualcosa, io arranco per finire la scuola e non devo tornare a casa dopo le undici. Non ho amici, non so fare nulla. Ero il soldato più forte dell’umanità, ora sono un bambino. Un bambino stupido» guarda ovunque tranne che me, mentre spiega.
«Mi vergognavo» aggiunge a mezza voce.
Cosa dovrei dire, io? La scuola l’ho finita per carità degli insegnanti. Poi c’è la droga, le accuse per rissa, la clinica. Neanche io so fare nulla. Vorrei dirglielo, ma come posso farlo, quando sembra credere davvero che io abbia fatto qualcosa di buono? Vorrei scappare io, adesso.
Non so cosa dire. Lui continua a guardarmi come un animale braccato. Si è aperto con me, si aspetta che io lo faccia con lui.
Sento un singhiozzo. Mi guarda stupito. Sono stato io? Davvero? Mi sento le lacrime agli angoli degli occhi. Non devo piangere. Non devo…
«Scusa» non devo, sono io l’adulto, adesso, non posso mettermi a piangere. «Scusami, scusami…»
Mi asciugo la faccia con le mani, tiro su col naso. Non riesco a prendere fiato.
«La mia vita… io non…» non ne la faccio.
«Eren» è più vicino, ora. Mi tocca il braccio. È preoccupato, non l’ho mai visto così, lo sto solo facendo stare male ancora. Vorrei andarmene. Appena provo a muovermi me lo ritrovo tra le braccia.
Mi arriva appena alla bocca, ed è sudato perché ha appena corso, ma sa comunque di bagnoschiuma e shampoo e sotto sotto ha ancora lo stesso odore, il suo odore. Lo stringo di rimando, mi seppellisco contro il suo collo. Non ce la faccio.
«Io… tu sei morto per me, e io non ho ottenuto nulla, non sono neanche riuscito a sopravvivere fino alla fine…»
«Non importa. Adesso è tutto a posto. Sono felice di averti incontrato…»
«… e anche qui, in questo mondo, non va bene nulla, non ho ottenuto nulla, ho solo causato problemi e ho passato tutto il mio tempo a piangermi addosso e fare casini e…»
Mi tira uno schiaffo. Mi fa un male cane, come accidenti fa a essere così forte quando è così piccolo… poi mi prende per il bavero della felpa e mi bacia. Tutto si ferma. Le lacrime, i miei pensieri, c’è solo lui, ora. Tutto ha senso. Sono finito qui per un motivo, ed è questo, questo momento.
Gli prendo il viso tra le mani, mi chino per farlo stare più comodo. Mi mette una mano dietro la nuca e mi tira più vicino.
Non è come ricordavo. È meglio. Le sue labbra sono più morbide, sempre aggressive, è più piccolo, le sue spalle meno larghe, ed è così caldo e vero.
Sono a casa.
Il modo in cui esita e mi guarda quando ci separiamo mi fa impazzire.
Lo bacio piano sulle labbra, ancora. Posa la testa contro il mio petto, e lo stingo forte. Respiro il suo odore a pieni polmoni.
«Anch’io sono felice di averti incontrato» gli sussurro. Non dice nulla, ma mi stringe più forte.
«Matthias, eh?» mormoro.
Sbuffa contro il mio petto.
«Io sono Daniel, in teoria»
«Ti sta bene»
«Non direi»
Mi guarda con le sopracciglia corrugate. Rido piano, e mi dà un pizzicotto.
«Non hai freddo, senza cappotto?»
«Me l’ha chiesto anche tua madre»
Strabuzza gli occhi. «Oddio. Come accidenti ci sei arrivato? Dimmi che non ti sei presentato come il mio fidanzato da una vita precedente»
Mi viene da ridere. «Le ho portato la tua borsa e basta»
«Oh, grazie al Cielo. Dimmi che non le sei sembrato un completo idiota»
«Mi stai chiedendo troppo»
Ride. È così bello quando lo fa, e gliel’ho visto fare così poco.
Ormai è buio. Gli prendo la mano, e mi lascio guidare fuori dagli alberi, fuori dal parco. Inizio a sentire freddo sul serio, e se ne accorge. Si cava la sciarpa dal collo e me l’avvolge attorno.
«Andiamo a casa» mi guarda negli occhi. Ricambio lo sguardo confuso.
«Casa tua?»
Mi guarda come se fossi scemo, poi torna a fissare la siepe al lato della strada.
«Voglio venire da te. Abiterai da qualche parte, no?»
«Io… sì. Come vuoi. Andiamo» non so più articolare una frase. Con lui di fianco a me, mi sento libero.
«Andiamo al mare, un giorno» butto lì senza alcun collegamento logico.
«Certo» guarda fisso la strada, quando lo dice, ma sorride e mi stringe forte la mano. «Siamo insieme, adesso. Non ti lascio più».
 


 
  
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